Abitare il tempo per costruire la comunità
Come se vedessero l'invisibile
In un convegno dedicato al vedere l’invisibile una relazione che riguardi l’abitare il tempo e la costruzione della comunione significa concentrarsi e interrogarsi sull’attitudine contemplativa, sul rapporto, oggi così problematico, con il tempo, per dirci che abbiamo bisogno di ritrovare un rapporto di amicizia con il tempo e così riusciremo anche a creare relazioni fraterne. Abbiamo bisogno che quel tempo che ci sfugge costantemente, che ci è rubato, che non abbiamo (ma si può mai “avere” il tempo?), ci venga restituito nella sua dimensione di dimora, di casa in cui abitiamo. Abbiamo bisogno di un’ecologia del tempo, non solo dello spazio. O, per dirla con Paul Celan: “È tempo che sia tempo”[1]. Ma iniziamo la nostra riflessione con un richiamo a quell’esperienza della trasfigurazione del Signore che ci introduce allo sguardo di fede che ci permette di cogliere la profondità della realtà, la sua simbolicità, il fatto che il mondo è più del mondo e che, sempre, nella nostra vita, nella realtà, nella storia e negli altri c’è dell’altro.
Gesù, immagine del Dio invisibile
Pietro, nella sua seconda lettera, riferendosi all’esperienza della Trasfigurazione afferma di essere stato “testimone oculare” della grandezza, della maestà di Gesù. E per tutta la tradizione patristica la Trasfigurazione non è letta come cambiamento della realtà di Cristo, ma come mutamento della capacità visiva umana. Giovanni Damasceno scrive che gli apostoli sul monte Tabor “da ciechi divennero vedenti” e videro quella “bellezza del Regno (Regno di Dio che è Gesù stesso) che è allo stesso tempo accessibile ai sensi e superiore ai sensi” (Triadi III,1,15-16.22). Nella trasfigurazione è dato ai discepoli di vedere in verità e chiarezza ciò che nel quotidiano è spesso opaco e sfugge alla nostra intelligenza spirituale. E non si pensi che l’esperienza della trasfigurazione non parli alla nostra quotidiana vita di fede. Solo un’intelligenza spirituale dell’umanità di Gesù, dell’eucaristia e della chiesa permette di cogliere nel rabbi galileo, nel pane e nel vino e nel gruppo sociologico la realtà di cui sono il segno. “Ciò che fa difficoltà non sono questi segni, che sono veramente segni di ciò che significano perché lo Spirito è in essi, ma la nostra cecità naturale che è tolta solo dall’adesione allo Spirito che li anima”[2].
Può sembrare paradossale, ma la “visione” della T. ci rimanda al primato dell’ascolto nella vita del cristiano e della chiesa. Il cristiano “vede” la gloria del Signore (Lc 9,32), cioè fa esperienza della vita trinitaria, attraverso l’ascolto, e così la T. appare esperienza filiale che diventa comunione con il Padre nel Figlio grazie allo Spirito santo che come nube avvolge e inabita il credente: “Ascoltate lui!” dice la voce dall’alto ponendo Gesù in mezzo a Mosé ed Elia, cioè, la Legge e i Profeti. E l’ascolto crea comunione. Dietro il visibile c’è l’invisibile della parola. Vedere l’invisibile è ascoltare e discernere la parola, l’intenzionalità, la volontà che c’è dietro ogni cosa, ogni persona, ogni evento. Come dice la lettera agli Ebrei: “Per fede noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio, sicché dall’invisibile ha preso origine il mondo visibile” (Eb 11,3). La T. contiene un magistero anche riguardo alla koinonía ecclesiale, che è sempre comunione di volti e di nomi precisi, cioè di libertà personali. La T. infatti è la celebrazione del volto: del volto di Cristo su cui rifulge la bellezza divina che irradia sul volto di coloro che lo contemplano creando così i santi come “uomini di luce”, “figli della luce”, “somigliantissimi al Cristo”. Il volto, pròsopon in greco, è “ciò che sta davanti alla sguardo di un altro”, e mentre indica l’identità personale richiama l’altro come costitutivo della stessa: io non sono senza l’altro. Io non esisto senza un tu. E così la santità cristiana si declina non come separazione, ma come comunione, cioè come assiduità con il volto del Signore fino a partecipare, per fede, alla sua vita, alla sua luminosità, e come carità, come comunione con tutti gli uomini. I tre testimoni della T. devono riconoscere che è una tentazione il voler fare delle dimore, delle tende al Cristo e a Mosé ed Elia per eternare quel momento di luce, per “catturare” la presenza di Dio, e allora ridiscendono dal monte verso i loro fratelli perché è in essi che dovranno riconoscere la presenza di Dio, la dimora di Dio tra gli uomini. Un “detto” non scritturistico di Gesù, riportato da Clemente Alessandrino dice: “Hai visto il tuo fratello? Hai visto Dio” (Stromati I,19,94).
La T. è anche mistero di bellezza. La bellezza, beninteso, non in senso estetizzante, ma come evento di relazione e di comunione. Sull’alto monte il Cristo rifulge dello splendore di Colui che è “l’autore della bellezza” (Sap 13,3) e crea attorno a sé la communio sanctorum, la comunione dei santi del cielo e della terra. Come non ricordare la cattedrale di Chartres con le sue statue dei santi dell’AT e del NT radunati attorno al Beau Dieu come tanti raggi che provengono dall’unico sole? Santità e bellezza non sono dei dati immutabili, ma degli eventi di relazione con il Signore e di partecipazione alla sua santità e bellezza. Dalla T. discende dunque per la chiesa una vocazione filocalica, discende la chiamata ad avere una “condotta bella” (1Pt 2,12) tra le genti, cioè una “condotta santa” (1Pt 1,15-16), e noi cristiani dovremmo interrogarci: che abbiamo fatto di questo mandato, di questa vocazione di custodire e vivere la bellezza?
Vedere la bellezza
Al cuore della Trasfigurazione vi è un’esperienza di luce e di bellezza. Tre elementi caratterizzano l’esperienza della bellezza.
1) L’esperienza della bellezza è anzitutto esperienza interiore, unificante, che crea armonia interiore. Davanti alla bellezza la nostra sensibilità e il nostro spirito sono consonanti e all’unisono.
2) L’esperienza della bellezza è poi esperienza di dono: è rivelazione, è gratuità, è l’esperienza di qualcosa che non è mio e che viene a me, mi raggiunge.
3) Infine la bellezza mi chiama, esercita un appello, mi apre al nuovo, mi convoca a creare a mia volta bellezza: la bellezza contemplata va anche realizzata. La bellezza è non solo una meta, ma anche un cammino.
Essendo unificante, l’esperienza della bellezza ci libera dalla divisione e scissione interiore; essendo esperienza di dono, si oppone alle nostre tentazioni di chiusura e autoreferenzialità; essendo esperienza che invita a creare bellezza a nostra volta e ci apre alla novità, ci strappa all’abitudine e alla ripetitività. Noi siamo vocati dalla bellezza e vocati (chiamati) alla bellezza. Riprendendo un’intuizione di Stendhal, possiamo dire che la bellezza è promessa di felicità. La bellezza, che si dà soltanto nel tempo, annuncia qualcosa che nel tempo è impossibile realizzare. Quando si ripete la domanda di Dostoevskij nel suo romanzo L’idiota, sulla bellezza che salverà il mondo e su quale bellezza salverà il mondo, il senso è non che la bellezza redime la vita dalla sua finitezza, ma che essa passa attraverso i dolori e le sofferenze del mondo che rendono finita e precaria e caduca la vita. Ci fa vivere nell’oggi tesi al domani, ci fa vivere nel tempo tesi all’eterno. “Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne” (2Cor 4,18). Si tratta di entrare in una conversione dello sguardo e in una considerazione inedita del tempo.
Il tempo oggi
Per veramente vedere e gustare la bellezza, per cogliere la sacramentalità del mondo, occorre dare tempo al tempo. Solo così entriamo nel tempo e ci muoviamo nel mondo e nella storia come in un dialogo in cui siamo chiamati ad ascoltare, vedere e rispondere. Ma oggi molti ostacoli si frappongono a un rapporto amicale con il tempo e dunque a uno sguardo contemplativo. Da anni sentiamo parlare di “tempo di crisi”, tuttavia dovremmo parlare piuttosto, o almeno, anche, di “crisi del tempo”, cioè di crisi del rapporto col tempo, un rapporto che, nella nostra ipermodernità, è caratterizzato da accelerazione, atomizzazione, produttività, e provoca come esito la difficoltà a reggere il quotidiano.
L’accelerazione tecnica e del ritmo di vita è constatazione quotidiana. “Non ho tempo” è il nostro quotidiano ritornello, ma quando non c’è più spazio per il tempo anche lo spazio non è più vissuto né goduto e diviene un luogo di transito, un non-luogo. L’accelerazione produce l’annientamento dello spazio. Il mondo intero ci è offerto in un secondo o con qualche ora di aereo, e noi non abbiamo il tempo di goderne.
L’atomizzazione fa sì che non abbiamo a che fare con il tempo, ma con tempi, successivi, incalzanti, segmentati, che non costruiscono una storia ma che si sovrappongono l’uno dopo l’altro sostituendosi e annullandosi l’uno con l’altro. Corriamo da un presente a un altro, non conosciamo più soglie e passaggi, intervalli e pause, attese e sedimentazioni. La tecnologia crea una simultaneità e una prossimità costanti rendendo tutto disponibile immediatamente, qui e ora, facendo scomparire spazi e tempi intermedi sicché vi sono soltanto due stati: il niente e il presente. Ma per quell’essere temporale che è l’uomo, frammentazione e disintegrazione del tempo diventano frammentazione dei processi di individuazione e disintegrazione delle identità personali.
La produttività ribadisce il carattere meramente quantitativo dell’esperienza temporale che oggi è possibile fare. L’imperativo del fare, l’ipercinesia della vita quotidiana (si pensi al multitasking), tolgono ogni dimensione contemplativa al vivere e lo disumanizzano rendendolo agitato, disordinato, senza direzione, ansioso, stressato. Siamo disorientati. Per orientarsi occorre fermarsi, scrutare l’orizzonte, guardarsi intorno: occorre tempo e quiete.
Questa distorsione del rapporto col tempo si manifesta nell’imperativo del consumo che è l’esatto contrario della contemplazione. Nella società dei consumi si disimpara ad attardarsi, a sostare, a contemplare. Attardarsi in uno stato contemplativo presuppone degli oggetti che durino. Ma l’obbligo del consumo abolisce la durata. Per la società dei consumi i prodotti devono diventare obsoleti rapidamente per essere sostituiti da nuovi prodotti per alimentare la catena del consumo. Oggi la durata è problematica: il consumo, infatti, consuma anche il tempo. Solo con il coraggio di soffermarci sulle cose possiamo scoprirne la durata, possiamo legare esterno e interno, possiamo fare l’esperienza dello stupore. Solo con un atteggiamento ascetico e contemplativo verso il mondo e le cose, noi possiamo accogliere la loro bellezza.
Inoltre, nella società della prestazione, che esige persone sempre all’altezza di performances alte soprattutto sul lavoro, nella società che produce scarti, che richiede la costruzione della propria identità al soggetto, che esige che si sia sempre all’altezza dei legami sociali, può insorgere facilmente la sensazione di non farcela, di non essere all’altezza, sicché fa capolino la tentazione di fuggire da se stessi, di scomparire. Le manifestazioni e gli esiti di questa tentazione contemporanea sono diversi ma a volte devastanti. Si pensi al sonno compulsivo, all’anoressia, alle dipendenze dall’alcool, al burnout prodotto dai ritmi frenetici del lavoro e dalla concorrenzialità spietata, alle depressioni, alle malattie psichiatriche. Si pensi ai giovani giapponesi hikikomori che si barricano nella loro stanza da cui non escono per anni navigando in internet e mantenendosi con lavoretti via web, o ai giovani che cercano lo sballo, che scompaiono dietro a un video o a connessioni in cui un nickname li mantiene nell’anonimato e li protegge dall’incontro faccia a faccia, o alle persone che fisicamente scompaiono senza lasciare traccia di sé e senza lasciare indirizzo. Insomma, nella crisi del tempo va annoverato il peso a volte insopportabile del quotidiano.
Il quotidiano
Abbiamo coscienza del quotidiano? Lo vediamo? È importante chiederselo perché nulla esiste fuori del quotidiano: anche l straordinario avviene nel quotidiano. Sappiamo dire e descrivere il quotidiano? Come si riflette in noi l’abituale? I muri in mezzo a cui viviamo, i negozi che frequentiamo, le vie che percorriamo, gli oggetti che usiamo, le persone che incontriamo, i discorsi che scambiamo, … Possibile che proprio ciò con cui più abbiamo a che fare ogni giorno non eserciti su di noi un’influenza? Possibile che lo possiamo tralasciare senza preoccuparcene? In verità le “cose” di ogni giorno parlano di noi, di quel che siamo. Dove le “cose” non sono da identificare semplicemente con gli oggetti, ma coprono l’ambito del materiale e dell’immateriale, del visibile e dell’invisibile, sono l’esterno che influenza l’interno e l’interno che si riflette sull’esterno, sono il dialogo ininterrotto che i sensi stabiliscono con il mondo e con cui il mondo tocca la nostra anima attraverso i sensi. Il quotidiano ha dunque una valenza antropologica, ma anche spirituale. E deve interpellare anche il cristiano. Non possiamo forse intendere riferito al quotidiano, alla piccolezza dell’ordinario, l’espressione evangelica che parla di chi è “fedele nel poco” (Mt 25,21.23) e riceverà autorità su molto? È importante riflettere sul quotidiano perché ciò che è familiare non per questo è conosciuto. Il quotidiano ci avvolge e proprio perché vi siamo immersi, esso richiede particolare attenzione e riflessione. Il rischio è di darlo per scontato. Occorre dunque rendersi coscienti e farsi presenti agli oggetti e agli ambienti, alle parole e ai gesti, alle relazioni e agli incontri del quotidiano che spesso sono sviliti dall’abitudine, o considerati senza importanza, o attraversati dalla noia, o minati dalla superficialità, o semplicemente rimossi, non più notati, non più visti. Squalificati perché feriali, banali, ripetitivi. “Tutto qui?”, ci porta a dire il quotidiano. Eppure, “anche in un cucchiaino da caffè si rispecchia il sole”[3], tanto che dobbiamo chiederci: esistono cose ‘banali’? O la banalità non risiede piuttosto in chi nutre tali giudizi? Come non ricordare le parole sapienti che Rilke rivolse al giovane che voleva diventare poeta:
“Se la Sua vita quotidiana Le sembra povera,
non la accusi; accusi se stesso,
si dica che non è abbastanza poeta
da chiamarne per nome gli aspetti preziosi;
per colui che crea, infatti, non c’è povertà,
e nessun luogo è povero o insignificante”[4].
La quotidianità è a rischio di restare sconosciuta o, almeno, misconosciuta, conosciuta male, svalutata rispetto alle cose ritenute grandi, importanti, eccezionali. Eppure è proprio il quotidiano il luogo in cui noi realizziamo la nostra umanità, discerniamo e viviamo la nostra vocazione, ci costruiamo come persone, costruiamo le relazioni che danno senso e sapore al nostro vivere: amicizie, amori, una famiglia. Ovvero, le piccole cose del quotidiano non sono poi così piccole.
Inoltre, il quotidiano è il luogo del culto esistenziale, la realtà di ciò che si celebra nel rito. Riprendendo un’espressione di Karl Rahner, tratta dal suo libretto Cose d’ogni giorno, possiamo affermare che il feriale, il quotidiano, per il cristiano è “lo spazio della fede, la scuola della sobrietà, l’esercizio della pazienza, il salutare smascheramento delle parole pesanti e degli ideali fittizi, l’occasione silenziosa per amare ed essere fedeli in modo autentico, la prova dell’obiettività, che è il seme della sapienza più alta”[5]. Dunque il quotidiano interpella la nostra umanità, ma interpella anche la fede. È nel quotidiano che costruiamo la nostra realizzazione umana e spirituale, la nostra vocazione o prepariamo la catastrofe della nostra vita. Il passo evangelico di Mt 24,37-39 ci dice la possibilità di un atteggiamento non vigilante che ci porta allo sfascio esistenziale (cf. Eb 11,7: Noè, avvertito di ciò che ancora non si vedeva, costruì un’arca). Si annega non nella profondità, ma nella superficialità.
Come guardiamo il quotidiano?
Una splendida pagina dello scrittore David Foster Wallace ci interpella sulla maniera in cui noi guardiamo il quotidiano: vediamo oltre o solo in superficie? Vediamo l’altro o solo in modo egoistico?
“Nel traffico, con tutti i veicoli che mi si piazzano davanti e mi intralciano, non è da escludere che a bordo del Suv … ci sia un padre che cerca di portare di corsa in ospedale il filioletto ferito o malato che gli siede accanto, e la sua fretta è maggiore e più legittima della mia: anzi, sono io a intralciarlo. Oppure posso scegliere di prendere mio malgrado in considerazione l’eventualità che tutti gli altri in fila alla cassa del supermercato siano annoiati e frustrati almeno quanto me, e che qualcuno magari abbia una vita nel complesso più difficile, tediosa e sofferta della mia … Se siete abbastanza consapevoli di offrirvi una scelta, potrete scegliere di guardare in modo diverso quella signore grassa con l’occhio smorto e il trucco pesante che ha appena sgridato il figlio: forse non è sempre così; forse è stata sveglia tre notti di seguito a stringere la mano al marito che sta morendo di cancro alle ossa. O forse è quella stessa impiegata assunta alla motorizzazione col minimo salario che so0ltanto ieri ha aiutato vostro moglie a risolvere un problema burocratico da incubo facendole una piccola gentilezza di ordine amministrativo. Non è molto verosimile, d’accordo, ma non è nemmeno da escludere: dipende solo da cosa volete prendere in considerazione”[6]
Uno sguardo altro sul quotidiano sta alla base della santità del quotidiano, della santità della porta accanto di cui parla papa Francesco nella Gaudete et exsultate: “Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio” (7). Sappiamo vedere questa santità diffusa, umile, senza voce, anonima? Papa Francesco, cogliendo bene l’umanità quotidiana e attenta al quotidiano di Gesù chiede vigilanza, attenzione ai particolari e ai dettagli, alle pieghe del quotidiano perché in ciò che facciamo di quel quotidiano sta la nostra santificazione, ovvero la risposta alla nostra vocazione. “Ricordiamo come Gesù invitava i suoi discepoli a fare attenzione ai particolari. Il piccolo particolare che si stava esaurendo il vino in una festa. Il piccolo particolare che mancava una pecora. Il piccolo particolare della vedova che offrì le sue due monetine. Il piccolo particolare di avere olio di riserva per le lampade se lo sposo ritarda. Il piccolo particolare di chiedere ai discepoli di vedere quanti pani avevano. Il piccolo particolare di avere un fuocherello pronto e del pesce sulla griglia mentre aspettava i discepoli all’alba” (144). Lo sguardo che vede l’invisibile è anche lo sguardo che vede il visibile e che coglie il frammento temporale e relazionale dell’oggi come occasione di vivere il tutto del vangelo.
Quotidianità e vangelo
Dal punto di vista del vangelo, il rapporto quotidianità – vangelo ci suggerisce di volgere uno sguardo altro e diverso sul vangelo stesso, ci indica un altro punto di vista da cui considerare Gesù e il vangelo. Cogliere Gesù in rapporto con le cose di ogni giorno, con le realtà elementari del vivere su cui spesso non ci interroghiamo e in cui non pensiamo Gesù. Che invece ha vissuto anche lui di quotidiano. E ha scoperto e dato forma alla sua missione nel concreto e piano contatto quotidiano con le realtà e gli incontri di ogni giorno. Gesù ha camminato (e quanto!, si spostava a piedi e costantemente), ha mangiato e bevuto, e spesso in compagnia di altre persone, in banchetti, e con compagnie non sempre raccomandabili, ha dormito, ha incontrato la realtà del lavoro e dei rapporti famigliari e sociali, ha intrattenuto conversazioni e relazioni di diverso livello e tipo, ha parlato e fatto silenzio. Gesù ha osservato il granello di senapa e la massaia che fa la pasta, il seminatore e il mietitore, il pescatore che getta le reti in mare e il pescatore che lava le reti dopo la pesca, ha soggiornato in una casa, ha avuto degli amici, ha osservato corvi e volpi, passeri e cani, gigli e anemoni dei campi e, come appare dalle parabole, ha fatto della sua osservazione del quotidiano la base del suo insegnamento teologico. Ha annunciato il Regno di Dio parlando di una chioccia che raduna i pulcini sotto le ali e di un uomo che ammannisce un banchetto per le nozze del figlio, ha osservato i movimenti e i colori delle nuvole in cielo per dedurne i cambiamenti del tempo, ha tastato i rami del fico, e, sentendone la tenerezza, ne ha dedotto la vicinanza dell’estate. Insomma, l’umanità di Gesù è stata plasmata dal confronto con il quotidiano. La bellezza della sua vita salvata è ciò che noi possiamo contemplare nelle pagine del vangelo e che possiamo far passare nella nostra vita grazie alla fede e all’azione dello Spirito. Come il vangelo ci chiama? Come Gesù, nei vangeli, ci chiama? Occorre anche qui assumere un determinato punto di vista nella lettura del vangelo.
Dall’umanità di Gesù alla nostra umanità
La sequela Christi a cui il credente è chiamato, è vocazione a vivere la propria umanità seguendo Cristo ed è dimensione che trova nell’umanità di Gesù di Nazaret il modello a cui conformare la propria umanità. Siamo chiamati a “seguire Cristo nella sua umanità”, a imparare dall’umanità di Gesù quale emerge dalla testimonianza evangelica. Infatti è l’uomo Gesù di Nazaret che ha narrato Dio ed è nell’uomo Gesù di Nazaret che “abita corporalmente la pienezza della divinità” (Col 2,9); è l’uomo Gesù di Nazaret che i credenti sono chiamati a seguire in una vita che sia anzitutto umana ed umanizzata. Egli, infatti, “ci insegna a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà” (Tt 2,12). La chiamata alla santità va declinata come chiamata a diventare umanamente santi. I santi sono, dice il Concilio Vaticano II, “i nostri compagni di umanità più perfettamente trasformati a immagine di Cristo” (Lumen Gentium 50).
Questa centralità teologica dell’umanità di Cristo deve diventare centralità spirituale per rinnovare profondamente la comprensione e la pratica della vita cristiana nel concreto della quotidianità. E per meglio inquadrare la tematica vocazionale in cui la mia particolare umanità è chiamata a assumere e innestarsi sull’umanità di Gesù quale emerge dai vangeli. Per questo suggerisco una chiave di lettura dei vangeli che, andando alla ricerca dell’umanità di Gesù Cristo, possa innervare e modellare la nostra vita. Ci si chieda, leggendo ogni episodio evangelico: qual è l’umanità dell’uomo Gesù? Che umanità esprime Gesù nel suo parlare, nel suo agire, nelle modalità dei suoi incontri con altre persone? Che umanità abita colui che entra nel Tempio e osa scacciarne i venditori degli animali per i sacrifici e rovesciare i tavoli dei cambiavalute? Che pratica di umanità esercita l’uomo che rimprovera i suoi discepoli che allontanano i bambini, e che accoglie questi ultimi con tenerezza abbracciandoli? Che umanità manifesta l’uomo che accoglie pubblicani e peccatori, mangia con loro, si lascia avvicinare scandalosamente da una prostituta durante un banchetto in casa di un fariseo e riesce a vedere l’amore là dove tutti i commensali vedono il peccato (cf. Lc 7,36-50)? Che uomo è colui che pronuncia parole potenti come le beatitudini? Le beatitudini (Mt 5,1-12) sono uno squarcio sulla vita interiore di Gesù. Che pratica di umanità vive colui che non esista a entrare in conflitto con le autorità religiose se si tratta di difendere il primato della volontà di Dio e il diritto dei poveri? Che uomo è colui che non esita a rivolgere parole dure e di rimprovero ai propri discepoli, vedendo la loro poca coscienza, la loro incapacità di ascolto e di comprensione? Che uomo è colui che sa osservare i movimenti delle nuvole in cielo per comprendere il tempo che farà il giorno dopo, e che sa osservare la natura traendone insegnamento e consolazione? Che umanità abita l’uomo che incontra tanti malati nel corpo e nella psiche mostrando capacità di con-sofferenza con loro e curandoli con dispendio di tempo ed energie? Che umanità abita colui che non esista a criticare ferocemente pratiche e tradizioni religiose e usanze sacrali come il qorban (Mc 7)? Che uomo è colui che sa leggere e interpretare con estrema libertà la Torah circa l’adulterio e la lapidazione dell’adultera? Che osa controbattere a scribi e farisei, a esperti della Legge, a uomini autorevoli sul piano religioso con parole anche di fuoco? Che uomo è che sa mostrare una libertà così profonda così distante dalle paure, dalle adulazioni, dai timori riverenziali di tanti ecclesiastici? Si potrebbe continuare a lungo. Il vangelo appare come scuola di umanità e la vita del credente è chiamata a declinarsi come vita umanizzata, come vita di maturità umana e cristiana.
Lo stupore
Per vedere l’invisibile è essenziale re imparare l’arte dello stupore. Solo lo stupore conosce, dice Gregorio di Nissa. Lo stupore sembra oggi essere un’esperienza sempre più rara. L’uomo di sabbia di cui parla la psicoanalista Catherine Ternynck per designare l’inconsistenza dell’individuo contemporaneo sgretolato nella sua soggettività, sembra “aver perso la capacità di stupirsi”[7]. Stanchezza, nervosismo, agitazione, ansia, preoccupazione, demotivazione, senso di impotenza: queste, e altre simili, sono le parole che descrivono lo stato d’animo dell’uomo contemporaneo a cui l’esperienza dello stupore appare ormai preclusa. Di cosa stupirsi quando il mondo è a portata di click? Come stupirsi se non ci si sofferma sulle cose, se non si lascia loro il tempo di manifestarsi a noi e se non ci prendiamo noi il tempo per immergerci in esse con la lentezza e la lunghezza dello sguardo che ascolta e si lascia illuminare dalle cose stesse? Lo stupore si apre alla contemplazione. “Lo sguardo lungo e contemplativo, a cui solo si dischiudono gli uomini e le cose, è sempre quello in cui l’impulso verso l’oggetto è spezzato, riflesso. La contemplazione senza violenza … impone all’osservatore di non incorporarsi l’oggetto: prossimità nella distanza“[8]. Lo stupore spesso trova proprio nel quotidiano il suo più grande nemico. Eppure “la commossa meraviglia è la parte migliore dell’umanità: l’uomo quando è stupito e commosso sente profondamente ciò che è infinito” (Goethe). Che cos’è lo stupore? Etimologicamente, siamo rinviati al verbo typto, che indica colpire. Chi si stupisce subisce un colpo, riceve un colpo, da qualcosa che vede, da qualche parola, da un’idea o un’immagine. Capacità di stupirsi è dunque capacità di lasciarsi colpire, raggiungere e ferire, è essere indifesi, senza troppe corazze protettive. Direi che noi siamo di fronte a un bivio: o lo stupore o la stupidità. O la meraviglia di chi è colpito e interrogato dal quotidiano, dalle sfumature dell’albeggiare, dall’abilità dei cani che guidano e indirizzano il gregge delle pecore, dal gusto di una pera e dal tutto che ci circonda, oppure la stupidità di chi dà tutto per scontato, da chi non vede nulla di nuovo sotto il cielo quando ogni giorno è rinnovamento miracoloso. Allora, evitando lo stupore, ci si chiude al nuovo, e ci si seppellisce nel già noto. Allora sì, si finisce in una povera vita, una vita istupidita, intontita, senza vigilanza. Stupirsi è la capacità di vedere il mondo come per la prima volta. In questo i bambini hanno molto da insegnarci circa lo stupore. Stupirsi è cogliere l’infinito mistero che vi è in ogni cosa: non solo nel volto di un bambino come di ogni altro, ma anche in un fiore, in una goccia d’acqua come in una pianta o negli occhi di un animale ferito. E lo stupore noi sappiamo che è la fonte prima e fondamentale per la conoscenza. Coltivare la facoltà dello stupore è la condizione di fondo per imparare a pensare. Chi si stupisce rompe con l’ovvietà: nulla è ovvio, banale, per l’uomo capace di stupore. Lo stupore partecipa del mondo ma ne prende anche una distanza, la distanza dell’ascolto, della visione, del lasciar risuonare la domanda, l’implorazione che il mondo stesso leva e vorrebbe fosse ascoltata e accolta. Paolo non avrebbe mai potuto parlare di gemiti inesprimibili della creazione se non fosse stato capace di intelligenza che si stupisce. Lo stupore è la gioia di essere al mondo e di nascere al mondo ogni giorno. Per Aristotele la filosofia, la ricerca della sapienza nascono dallo stupore e noi sappiamo che nell’educazione ciò che più è efficace è suscitare la meraviglia, lo stupore nell’allievo, il suo interesse, che diverrà in lui motore interno per ulteriore ricerca, indagine. E lì spesso è anche il desiderio di imitazione del maestro o del professore che agisce con forza sull’allievo. Un testimone credibile è ciò di cui oggi c’è tanto bisogno e tanta sete. Lo stupore, infine, ci apre alla rivelazione, a cogliere il mondo come roveto ardente, come rivelazione di Dio nell’opacità del terreno dell’umano.
Lo sguardo compassionevole
In uno splendido e celebre passaggio de Il piccolo principe, viene riportato un profondo dialogo tra la volpe e il piccolo principe in cui quest’ultimo viene edotto sul senso della parola e della realtà dell’addomesticare. E rilegge le cure che ha profuso per una rosa, irrigandola, proteggendola dal freddo con un paravento, liberandola dai bruchi, come addomesticamento, ovvero, creazione di legami. “Credo che una rosa mi abbia addomesticato”, dice il piccolo principe. E quando viene il momento della separazione tra volpe e piccolo principe, la volpe gli consegna il suo segreto: “Si vede solo con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi.” E aggiunge: “Il tempo che hai perso per la tua rosa è ciò che fa la tua rosa tanto importante. E tu divieni responsabile per sempre di ciò che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa”. Chi passa accanto a un roseto vede rose che si assomigliano tutte. Ma il piccolo principe sa cogliere l’unicità della sua rosa, ovvero della rosa di cui si è preso cura. La compassione vede l’unicità di ognuno, coglie ciascuno nella sua unicità, nella sua preziosità e precarietà. Vede il profondo, la sofferenza, l’intimo. Lo sguardo compassionevole è anche lo sguardo capace di sperare. La speranza non è un intravedere, in qualche modo, ciò che ancora non c’è?
L’altro occhio della speranza
“Ciò che si spera, se visto, non è più speranza: infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza” (Rm 8,24-25). La speranza spera l’invisibile, dunque l’eterno (2Cor 4,17-18). L’oggetto della speranza è sottratto al potere di chi spera, non gli è disponibile.[9] La speranza non spera ciò che è razionalmente pre-vedibile, ma suppone un’assenza e un ignoto, un non possedere e un non sapere. In certo modo la speranza suppone anche un non vedere. Eppure la fiducia e la perseveranza che caratterizzano la speranza dicono che essa vede qualcosa. Forse vede l’invisibile, come Mosè che lasciò l’Egitto e senza paura e con saldezza fece il suo cammino “come se vedesse l’invisibile” (invisibilem tamquam videns). Homo viator spe erectus, recita un antico adagio: è la speranza che indica la via all’uomo, che lo guida, lo orienta nel cammino e che lo situa nella posizione eretta propria dell’uomo. Ma che significa vedere l’invisibile? Forse bisogna chiedersi: come vede la speranza? Gabriel Marcel parla di una forma di visione velata: “Non si può certo dire che la speranza veda ciò che sarà; ma essa afferma come sevedesse; si direbbe ch’essa attinga la sua autorità da una forma di visione velata, ascosa, della quale non può godere, ma su cui può fare assegnamento”.[10] Una visione su cui si può fare assegnamento è quella fondata sulla memoria, e quella di cui non si può godere è quella del futuro che ancora ci sfugge. Forse questa visione velata è quella dell’occhio che piange, dell’occhio velato dalle lacrime. Vede la morte e invoca la resurrezione. Vede il dolore e anela la sua redenzione. Ricorda la sofferenza e opera in modo da non ripeterla. Ci si può chiedere: e se il proprio dell’occhio umano fosse il pianto, più che il vedere? Se gli animali con gli occhi vedono, l’uomo sa anche piangere.[11] E anche gli occhi del cieco sanno piangere. “Se le lacrime vengono agli occhi, se possono anche velare la vista, forse rivelano, nel corso stesso di questa esperienza, un’essenza dell’occhio, in ogni caso dell’occhio degli uomini … Nel momento stesso in cui velano la vista, le lacrime svelerebbero il proprio dell’occhio. Ciò che fanno uscir fuori dall’oblio in cui lo sguardo le tiene in riserva sarebbe niente meno che la verità degli occhi di cui le lacrime rivelerebbero così la destinazione suprema: avere in vista l’implorazione piuttosto che la visione, indirizzare la preghiera, l’amore, la gioia, la tristezza piuttosto che lo sguardo”.[12]
Gli occhi velati dalle lacrime vanno al di là del vedere e del sapere e ci avvicinano “all’essenza delle cose: alla verità, almeno a quella del dolore e della speranza”.[13] Ora, tutto questo ha un sorprendente riscontro biblico. È l’Apocalisse che ce lo mostra: l’Apocalisse spera l’insperabile, spera la morte della morte, la fine del peccato e del male, spera un Dio che asciugherà le lacrime da tutti i volti, spera un mondo in cui “non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno” (Ap 21,4). La Gerusalemme celeste o, se vogliamo, il paradiso, è espressa nell’Apocalisse con l’immagine del Dio che asciuga le lacrime dai volti degli umani (Ap 7,17; 21,4). Una simile immagine del mondo redento chi la elabora? Chi la coltiva? Chi nutre una simile speranza se non chi patisce nel quotidiano l’esperienza del soffrire e del piangere? Chi intravede una simile salvezza se non chi guarda al futuro con occhi velati da lacrime per l’oppressione che sta attualmente vivendo? Quale contesto produce una simile immagine se non l’esperienza storica del patire e del soffrire? Questa immagine della salvezza è l’equivalente su scala universale della beatitudine evangelica: “Beati gli afflitti perché saranno consolati” (Mt 5,4; cf. Lc 6,21: “Beati voi che ora piangete, perché riderete”). Un mondo simile è sperato da chi soffre, dalle vittime della storia, non da chi è soddisfatto. Questa speranza, o forse, la speranza cristiana sempre, è la speranza sperata dai poveri. E in tale speranza consiste anche la loro beatitudine. Ma questa immagine del mondo salvato nasce anche dall’esperienza storica dell’asciugare le lacrime a chi soffre, dall’attiva compassione, dal rifiuto dell’indifferenza, dalla lotta contro il male. L’occhio della speranza è l’occhio della compassione, l’occhio che sa vedere il dolore del mondo e crederne la redenzione. Dice papa Francesco nella Gaudete et exsultate 76: “La persona che vede le cose come sono realmente, si lascia trafiggere dal dolore e piange nel suo cuore è capace di raggiungere le profondità della vita e di essere veramente felice”.
Del resto, ricorda Paolo, la speranza si forgia nelle tribolazioni e nelle prove: “La tribolazione produce la perseveranza, la perseveranza la qualità provata,[14] e la qualità provata la speranza” (Rm 5,3-4). Essere gioiosi nella speranza e perseveranti nella tribolazione (Rm 12,12) sono aspetti di un’unica realtà. La speranza, poi, che per Paolo ha una dimensione creazionale e cosmica, si accompagna a gemiti e pianti: essa si fa strada in mezzo alle “sofferenze del momento presente” (Rm 8,18). Il discorso escatologico presente nei sinottici getta uno sguardo disincantato sui mali che affliggono il mondo e la storia (guerre e carestie, terremoti e pestilenze) e invita a non vedervi un segno della fine del mondo, ma un inizio, l’annuncio di una nascita, l’inizio delle doglie, come di un parto (Mc 13,5-8). Questo sguardo consente la perseveranza (ypomoné), o se vogliamo, la resistenza, la pazienza, la sopportazione, che è una delle declinazioni della speranza (cf. Mc 13,13). Nella redazione lucana di questo discorso, l’acme delle tribolazioni storiche e cosmiche viene assunto da Gesù come momento topico in cui il credente può levare il capo (e alzare gli occhi) “perché la sua liberazione è vicina” (cf. Lc 21,28). Là dove tutti vedono rovina e catastrofe, lo sguardo del credente intravede la liberazione incipiente. E non a caso, la redazione lucana del discorso escatologico presenta l’annuncio della venuta del Signore nelle reazioni che produce sugli uomini: paura, angoscia, smarrimento, confusione, sono le reazioni interiori di chi non vede che i segni negativi, gli aspetti catastrofici della storia e della quotidianità, sono le reazioni non ancora evangelizzate dalla speranza nella venuta del Signore, di chi vede il disastro e il male e non sa vedere l’invisibile, non sa vedere ciò che sta dietro e più in profondo del male che si impone con la sua spettacolarità e pervasività, con la sua grossolanità e volgarità. È per l’avventura del credente nel mondo come per chi intraprende un viaggio di scoperta: non si tratta di andare in cerca di nuovi posti, ma di “avere nuovi occhi” (Marcel Proust).
La comunità come donazione
Che cosa significa la parola “comunità”? L’etimologia del termine communitas contiene in sé il termine munus. Munus ha due significati: da un lato è il dovere, l’obbligo, il compito, dall’altro è il dono, ma il dono che si deve fare, non quello che si riceve. Munus è il dono che si dà, è il dono da dare, è l’evento di una donazione. Coloro che vivono una vita comune, vivono l’obbligo del dono, la legge del dono, che non significa tanto una costrizione o l’obbligo di dover donare qualcosa, quanto l’esigenza di uscire da sé per donare se stessi, per fare di se stessi e della propria vita un dono. Quando Paolo scrive ai cristiani di Roma e dice loro: “Non abbiate alcun debito verso nessuno, se non quello dell’amore vicendevole” (Rm 13,8), esprime in termini molto concreti quanto stiamo dicendo. Paolo si rivolge ai cristiani, a persone che dunque vivono la vita ecclesiale, la vita comune radunata dalla parola di Dio, e afferma che essi hanno un debito gli uni verso gli altri: la carità, l’amore reciproco. E qual è, ci si potrebbe chiedere, il limite della carità? Fin dove deve spingersi l’amore per l’altro? In un’ottica cristiana, la misura della carità è illustrata dalla pratica di umanità di Cristo, dalla sua vita. E la carità di Cristo ha come limite la croce. La comunità è dunque l’insieme delle persone unite non tanto da un possesso, da un “di più”, da una proprietà, ma da un “di meno”, da un debito. Coloro che vivono in comune sono coloro che riconoscono il debito della carità e dell’amore verso l’altro.
Condivisione delle povertà di ciascuno
Una vita comune riuscita, quale che ne sia la forma, non dipende mai dalla somma delle ricchezze e delle forze, delle competenze e della abilità di ciascuno, ma piuttosto dalla condivisione delle debolezze e delle fragilità, della povertà e dei limiti di ognuno. Questa è una legge della vita comune: ciò che la edifica è la condivisione delle mancanze e delle povertà personali. Solo allora, infatti, ciascuno si espone agli altri nelle proprie debolezze e nella propria inermità, rendendosi amabile. La vita comune mi conduce a conoscere i miei limiti e le mie debolezze e negatività, e al tempo stesso, a conoscere quelle degli altri. Così essa chiede che accettazione di sé e accettazione degli altri vadano di pari passo. Assolutamente invivibile è invece una comunità di persone forti, dotate, capaci, che si sentono superiori agli altri, che non riconoscono di avere difetti o lacune. Che non sentono di avere debiti verso gli altri, ma di essere solo creditori. Persone simili non si rendono amabili e non lasciano spazio all’amore.
La vita comune mette alla prova la carità e vive grazie alla concretissima carità. La comunità vive e respira grazie al dinamismo per cui una persona si sente donata e a sua volta sente di dovere e volere dare, di dovere e volere fare della propria soggettività un evento di relazione, di comunione e di donazione per gli altri: in questo dinamismo, le debolezze personali da ostacolo diventano un saldo fondamento della vita comune, potendo essere accolte nella fede come “debolezza in Cristo” (cf. 2Cor 13,4).
Dare ascolto
Che cosa richiede la comunità? Innanzitutto dare ascolto. L’espressione “dare ascolto” è molto più impegnativa e pregnante del semplice “ascoltare”. Il dono più significativo, più essenziale, più vitale, e spesso, più gradito, che posso dare a un altro è l’ascolto. Anche a livello di azione pastorale l’opera più importante è il “dare ascolto”. Nella vita comune cristiana l’atto di dare ascolto è fondante la comunità. Si tratta infatti, da un lato, di ascoltare la Parola di Dio che convoca ciascuno personalmente creando un gruppo e, dall’altro lato, si tratta di ascoltare l’altro, il fratello e la sorella che mi stanno accanto. Così, mentre io do ascolto all’altro, lo faccio esistere dandogli parola. Dare ascolto è anche dare parola. L’ascolto è il fondamento imprescindibile di una relazione sana e piena con l’altro. Ascoltando, io faccio emergere la soggettività dell’altro, gli do vita, confesso di credere in lui e di volermi impegnare e coinvolgere con lui. Donando ascolto io faccio la mia confessione di fede nell’umanità dell’altro: accolgo la tua umanità, la tua unicità accogliendo le tue parole con cui tu non consegni solo dei contenuti, ma te stesso. Certo, non è semplice dare ascolto perché esige l’uscita dal monologo, esige che si smetta di ritenersi detentori della verità, che si cessi di voler essere al centro del mondo, i destinatari unici o privilegiati delle attenzioni e della cura degli altri. Mali, questi, che normalmente la vita comune fa emergere in modo impietoso.
Quando si parla di ascolto, biblicamente si intende qualcosa che riguarda tutta la persona: è il cuore, infatti, nell’antropologia biblica, la sede dell’ascolto. In 1Re 3,9 si parla del “cuore che ascolta” come di una facoltà di cui abbisogna il re per governare bene. Il cuore è il centro della persona, il sé, la sua coscienza, il luogo dell’intelligenza e della volontà, del discernimento e delle decisioni. L’ascolto è dunque l’elemento essenziale per l’edificazione di una vita comune. Ascoltando l’altro io lo faccio sentire riconosciuto e così nell’ascolto reciproco la comunità può diventare l’insieme di coloro che si riconoscono gli uni gli altri nel senso più pregnante e profondo del termine.
Dare ascolto diviene così un dare presenza. Un esserci, un essere lì con. Ma tutto questo ha come radice quel dare la vita che è, molto semplicemente e quotidianamente, dare il proprio tempo.
Dare il proprio tempo
Vivere insieme implica anche il dono del tempo all’altro. Anzi il dono del proprio tempo. La vita comune esige che l’uno attenda l’altro, che l’uno si sottometta ai tempi dell’altro, che la temporalità precisa che ciascuno è si adatti alla temporalità anch’essa precisa e diversa che l’altro è. Dare tempo significa dare vita. Il tempo è infatti la sostanza della vita. Dare tempo è una forma di sacrificio. In questo senso si può parlare di una forte dimensione di obbedienza nella vita comune. Dare tempo e ascolto all’altro significa vivere un’obbedienza che è sottomissione all’altro. Nel dono del proprio tempo, dono che fa vivere la comunità, si vive una dimensione pasquale, una morte vivificante, una partecipazione al mistero della Pasqua di Cristo.
Abitare il tempo, con un atteggiamento contemplativo che fugga la fretta, il consumo, l’attivismo e scelga il sostare, l’otium, perfino, conduce a quel dono del tempo che è elemento decisivo per costruire una comunità, mettendo in atto quelle virtù che vanno sotto il nome di pazienza, attesa, perseveranza, coraggio. E ponendo in essere attitudini quali immaginazione e creatività. E poi capacità di silenzio e di parola perché solo una comunicazione matura fa vivere una comunità. E fa sì che i rapporti interni siano trasparenza dell’amore di Dio. Diventando narrazione dell’invisibile Dio tramite la visibilità delle relazioni abitate dall’amore fraterno.
[1] P. Celan, Poesie, Mondadori, Milano 1998, p. 59 (è la poesia “Corona”).
[2] M.-J. Rondeau, “Actualité de l’exégese patristique?”, in Les Quatre fleuves 7 (1977), p. 98.
[3] S. Giedion, L’era della meccanizzazione, Feltrinelli, Milano 1967, p. 12.
[4] Cito dalla traduzione presente in R. M. Rilke, Lettere a un giovane, Qiqajon, Bose 2015, p. 30.
[5] K. Rahner, Cose d’ogni giorno, Queriniana, Brescia 20164, pp. 6-7.
[6] D. F. Wallace, Questa è l’acqua, Einaudi, Torino 2009, p. 155.
[7] C. Ternynck, L’uomo di sabbia. Individualismo e perdita di sé, Vita e Pensiero, Milano 2012, p. 11.
[8] Th. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1994, p. 97.
[9] Riprendendo Tommaso, Josef Pieper scrive: “Ciò che è sperato, in senso stretto, è sottratto il potere di colui che spera. Nessuno dice di sperare ciò che egli stesso può fare o provocare” (Speranza e storia, Morcelliana, Brescia 1969, p. 20).
[10] Marcel, Homo viator, pp. 64-65.
[11] T. Lutz, Storia delle lacrime. Aspetti naturali e culturali del pianto, Feltrinelli, Milano 2002.
[12] J. Derrida, Memorie di cieco, Abscondita, Milano 2003, pp. 152-154.
[13] Borgna, L’attesa e la speranza, p. 114.
[14] La Bibbia CEI traduce il greco dokimé (latino: probatio) con “virtù provata” ma “non si tratta di una ‘virtù’, né della ‘virtù’, bensì dell’uomo irrobustito dalla prova vissuta nella fede o della fede purificata dalle scorie” (S. Légasse, L’épître de Paul aux Romains, Cerf, Paris 2002, p. 342). Il termine indica il “carattere temprato” (Fitzmyer), la “qualità provata” di una realtà o di una persona (in Gc 1,3 e 1Pt 1,7 si tratta della fede) grazie alla perseveranza nelle tribolazioni. Commenta Karl Barth: “Se sappiamo che è in Dio che soffriamo e periamo, che siamo gettati sopra Dio, legati a Dio, e perciò tolti e portati da Dio, appunto questo fatto è la ‘confermazione’ della fede, che attende tutto da Dio e da Dio tutto, la dimostrazione esemplificata, l’incoraggiamento a sperare sempre di nuovo, che ci viene offerto proprio a quella porta ove si perde ogni speranza” (K. Barth, L’Epistola ai Romani, Cura, introduzione e traduzione di Giovanni Miegge, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 133-134).