N.02
2019 Marzo/Aprile

Una porta di speranza

San Miniato al Monte

Oltre le mura trecentesche e alle sue monumentali porte turrite miracolosamente sopravvissute almeno in parte alle vicende urbanistiche di fine ‘800, Firenze ha una porta quasi sospesa fra cielo e terra, edificata mille anni fa per custodire il mistero della sua più vera storia e più ancora del suo futuro. Una porta di luce che brilla nella notte perché raffinato intarsio di marmi giunti qui da tutto il bacino mediterraneo, una porta di perfezione perché ritmata da severe geometrie, riflesso della trascendenza quasi pitagorica del divino, una porta di speranza perché per architrave ha il bagliore dorato di un mosaico bizantino che svela alla città intera il volto benedicente del Cristo Pantokrator.

Cardine affidabile di questo varco posto ad oriente di Firenze è la più che millenaria sepoltura dei suoi primi martiri, che in Miniato, leggendario nobile soldato armeno, riconobbero il loro campione e il loro ispiratore. I suoi e i loro venerandi resti mortali furono nascosti sotto la terra di questa santa collina perché la memoria del loro sangue ricordasse l’esperienza pasquale della libertà evangelica al cuore e alla fede di tutti coloro che per amore di Cristo sono oppressi in ogni angolo della terra e in ogni frammento di storia.

 

Il 27 aprile del 1018, il Vescovo Ildebrando, per quella nuova porta così importante nel mistico urbanesimo della sua città, non scelse il freddo e meccanico marchingegno di una pur inattaccabile serratura, ma la presenza fragile e tuttavia appassionata di una piccola comunità di monaci. Da allora fino ad oggi è, infatti, la vita di alcuni fratelli radunati dalla creativa pazienza dello Spirito Santo ad aver reso superfluo ogni ossessivo chiavistello perché finalmente si realizzasse il sogno antico di Osea «Perciò, ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Le renderò le sue vigne e trasformerò la valle di Acòr in porta di speranza. Là canterà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto» (2, 16-17).

Una dozzina di monaci mille anni dopo si sentono eredi di quell’antica missione: custodire lo speranzoso dono di una porta dischiusa dalle mani del Signore fra la città degli uomini e la città del cielo, una varco di luce finalmente capace di far risuonare melodie di ritrovata pace e armonia fra Dio e l’uomo. Passano i secoli, mutano le idee, scorrono le generazioni: al ritmo incalzante delle nostre campane, la liturgia monastica, in canto gregoriano, segnala e misura un altro tempo, quello che non consuma, non invecchia e non logora. E’ il tempo che ci avvicina alla sua misteriosa sorgente, proprio quel Cristo che nella conca absidale è immerso nel vertiginoso scintillio dell’oro e siede in trono a ricordarci in quali mani per divina grazia siano poste le redini della storia. Immediata, seppur esigente, è per questo la frequenza della nostra preghiera che scaturisce dal cuore dell’incontro trinitario del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo nella cui amorosa dinamica si innesta notte e giorno la nostra grata lode e memore intercessione secondo le scrupolose indicazioni, vecchie di secoli, ma sempre agilissime, del nostro santo padre Benedetto. La liturgia ricama bellezza gratuita, sobria e toccante, indisponibile ad una razionale motivazione che non sia l’esubero incontenibile di un amore necessariamente melodico. Sostanzia la leggerezza del canto la stoffa robusta e consistente del lavoro capace di assimilare il nostro monastero a quel giardino degli inizi, affidato dal Dio Creatore alla responsabile operosità dell’uomo «perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2, 15). A San Miniato al Monte il nostro giardino è soprattutto una limpida ed efficiente pasticceria dove i fratelli, molti dei quali giovani, sono impegnati nella creazione di torte, biscotti e gelati che proponiamo all’esigente palato dei tanti fedeli e visitatori. A chi sale la collina disilluso della vita e rassegnato al grigiore di una sterile penombra, offriamo le nostre candele in cera d’api che raccontano di una sublime alleanza fra l’uomo e l’animale per inondare di luce duratura i nostri cuori.

Nessun chiavistello, nessuna serratura, nessuna combinazione: le porte millenarie di San Miniato sono aperte a chiunque, congedando la città, affronta il disagio di erte canine e di impervi crinali solo per il sacrosanto desiderio di trovare più ampi orizzonti alla propria visione e finalmente uno sguardo di sintesi sulla vita intera, miracolosamente distesa fra cielo e terra.

La nostra accoglienza vorrebbe inscrivere il cuore e le pupille di chi ci visita nella luce che promana dallo sguardo del Cristo Pantokrator, ogni giorno vigile e attento custode delle vicende di un’intera città.  Già, perché il bellissimo effato di Riccardo di San Vittore – ubi amor ibi oculus[1] – è l’intuizione propiziata da quel canto millenario che il Signore intona con le nostre povere voci non per sedurci, ma per restituire tutti noi alla nostra più vera e necessaria consapevolezza: essere figli generati da una Parola di vita e da uno sguardo di incontenibile passione e resi per questo capaci di un amore che si fa profetico anticipo di quel futuro che qui, su questa terra, quasi nessuno più attende.

[1] Riccardo di San Vittore, Benjamin minon, XIII; PL, CXCVI, 10.

 

Foto di Mariangela Montanari, per gentile concessione.