Edith Stein
Vocazione alla Verità
Edith Stein nasce a Breslavia, oggi Wrocław in Polonia, da una famiglia ebrea, il 12 ottobre 1991, quell’anno Yom Kippur. È la più piccola di una numerosa famiglia e resta, giovanissima, orfana di padre. Si specializza in discipline umanistiche, fino a quando non approda a Gottinga dove pratica la fenomenologia con Adolf Reinach ed Edmund Husserl di cui diviene assistente. Trentenne, le tenebre dell’incredulità che l’avevano raggiunta svaniscono: la conversione a Cristo sancisce per Edith tanto l’adesione al cattolicesimo, quando la riscoperta della tradizione ebraica. Conferenziera e docente per alcuni anni in una Germania sempre più a rischio del totalitarismo, entra al Carmelo a 42 anni nel 1933. Muore nell’agosto del 1942 ad Auschwitz. Beatificata nel 1987, canonizzata nel 1998, oggi co-patrona d’Europa, Edith Stein lascia numerosi scritti e le sono state dedicate molte monografie. Le citazioni sono tratte da: Edith Stein, Dalla vita di una famiglia ebrea e altri scritti autobiografici, Città Nuova – OCD, Roma 2007 e Id. La donna. Questioni e riflessioni, Città Nuova – OCD, Roma 2010. Per approfondire si segnala il recentemente riedito: C. Dobner, Il libro dai sette sigilli. Edith Stein. Torah e Vangelo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2018.
Estate 1921: la «dottoressa Edith Stein», trentenne, slesiana d’origine, nota all’ambiente culturale tedesco per le ricerche sull’empatia e il suo passato ruolo di assistente del fenomenologo Edmund Husserl, atea dichiarata dopo un’infanzia intrisa del credo ebraico della famiglia, è ospite a Bergzabern (nella regione del Palatinato) a casa di amici. Si sta concedendo un periodo di riposo e vacanza. Rimasta una sera sola, per ingannare il tempo estrae un volume a caso dalla ricca biblioteca: si ritrova tra le mani la Vita di Teresa di Gesù (d’Avila), lo scritto autobiografico con cui la santa riformatrice del Carmelo descrive ai propri direttori spirituali vita interiore e grazie mistiche straordinarie. È qualcosa del tutto estraneo a Edith Stein, sostanzialmente digiuna di cultura cristiana e cercatrice della verità attraverso la filosofia. Si dice che Edith, quella Vita di Teresa, l’abbia divorata in una notte. Forse vi impiegò qualche istante in più, ma è invece certa la sua reazione: “Questa è la Verità!”, affermò Edith. Che subito acquistò un Catechismo, un Messale e si presentò al parroco a chiedere il battesimo. Lo riceverà il 1° gennaio 1922. Edith in quel libro non aveva incontrato l’ennesima variazione di una verità logica: ma ciò che Kierkegaard avrebbe forse definito la verità “per me”. Meglio ancora: la «Verità in persona», Gesù Cristo.
La lettura di Teresa rappresenta perciò un incontro che marchia a fuoco Edith Stein, portando in lei a piena ed evidente sintesi alcuni incontri – la testimonianza di un amico; il lutto trasfigurato dalla luce della risurrezione della vedova di un collega; la vista di un’umile casalinga che nel vortice della propria quotidianità sostava, con le borse della spesa, dinanzi al Santissimo per parlargli come ad Amico – e li compie. Dai suoi maestri, Edith si era sentita continuamente rivolgere questa esortazione: «considerare ogni cosa con occhio libero da pregiudizi», «gettare via qualsiasi tipo di “paraocchi”»: ma solo quella notte aveva compreso cosa ciò davvero significasse. In termini agostiniani, la sua conversione era consistita nel risvegliare l’attenzione e apprendere ad «asserire indagando» (Conf., VI, 3.4) . Era una resa. La Stein aspira da quel giorno al Carmelo (il Carmelo di Teresa, ma anche il Carmelo nato in Terra Santa, intriso dell’esperienza ebraica da cui proviene). Vi approderà solo 12 anni più tardi, nel 1933, quando l’infuriare del nazionalsocialismo con la sua persecuzione antiebraica le renderà definitivamente impossibile la docenza in patria.
Edith intanto – donna dalla vivace affettività, che a più riprese aveva ambíto a una relazione sentimentale stabile e, più tardi, ancora laica, era stata consigliera e formatrice di molte donne, anche consacrate o in cammino verso la consacrazione – scopre che per potersi dire “donna carmelitana” deve prima apprendere a essere davvero anzitutto donna, quindi donna cristiana. È un lungo cammino, non privo di contraddizioni e della fatica del pazientare: per 8 anni insegna dalle Domenicane a Spira, e intanto traduce in tedesco il De Veritate dell’Aquinate; ogni anno trascorre il triduo pasquale a Beuron, abbazia benedettina che va formandola al gusto del bello e alla sensibilità liturgica. La famiglia vive come un dramma la sua conversione al cattolicesimo, come una tragedia il suo ingresso in clausura: pensa che Edith cerchi un rifugio dietro le grate mentre il mondo è in fiamme e il suo popolo sterminato. Ma lei sa che non è così. Entra al Carmelo a Colonia. Si trasferisce nel 1938 a Echt in Olanda per aver salva la vita. Viene arrestata all’inizio dell’agosto 1942 in ritorsione al proclama antinazista dei vescovi olandesi. Chi la vede nei campi, la ricorda impegnata a fare da mamma ai numerosi bambini abbondonati a se stessi dalle loro madri, rese folli dall’eccesso del dolore. Muore, verosimilmente il 9 agosto, nelle camere a gas di Auschwitz.
La vocazione di Edith Stein, divenuta poi suor Teresa Benedetta dalla Croce, a ben guardare non è mai coincisa con uno stato di vita o con una condizione esistenziale univoca: atea e credente, cattolica che riscopre le proprie origini ebraiche, donna indipendente e assetata d’amore, infine consacrata con voti pubblici. Persino il Carmelo per lei – filosofa a casa dalle Domenicane e vicinissima alla spiritualità benedettina – si giustifica con un assenso di tipo strumentale: Edith sapeva (e lascia scritto!) che esso in fondo era solo il posto in cui sapeva di essere chiamata per realizzare qualcosa: qualcosa che le era chiesto ma, in quel momento, ancora non conosceva né capiva. Qualcosa che oggi siamo noi a contemplare.
Piuttosto Edith ha sempre coltivato la vocazione alla verità: cercare la verità, dire la verità, fare la verità e contemplarla bella. Sfidarla, questa verità: chiederla, supplicarla, incontrarla, di nuovo metterla alla prova e infine accoglierla. Anche per questo, oggi si ricorda più Edith che Teresa Benedetta: perché tutta la vita è vocazione; tutta la vita è ricerca, promessa e compimento. «Chiunque cerca la verità cerca Dio, che lo sappia o no», lei afferma. E nella sua ultima opera – Essere finito ed essere eterno – Edith affianca Aristotele, Seneca, Agostino, Tommaso d’Aquino, Heidegger, Husserl, la santa di Avila e molti altri: qualcosa di inconcepibile anche a un azzardo accademico, ma garanzia in fondo di quel suo incessante ed eclettico indagare un verum cui si era infine arresa quando lo aveva incontrato “vivo” in Cristo Via, Verità, Vita. Scrive: «L’anima della donna deve essere […] ampia e aperta […], calda […], luminosa […], riservata […], vuota di sé». Ecco la più profonda vocazione che Edith oggi incarna – essere credenti nella concretezza della propria umanità, nell’anelito a fare verità –, da lei testimoniata in quel cammino lungo e a tratti complesso che ne ha contraddistinto l’esistere.
«Fu così che venni per la prima volta in contatto con un mondo che, fino ad allora, mi era stato completamente sconosciuto.
Ciò non mi condusse ancora alla fede, tuttavia mi dischiuse un campo di “fenomeni”
dinanzi ai quali non potevo più essere cieca.
Non per niente ci veniva continuamente raccomandato di considerare ogni cosa
con occhio libero da pregiudizi, di gettare via qualsiasi tipo di “paraocchi”».
E. Stein, Dalla vita di una famiglia ebrea e altri scritti
«L’anima della donna deve, perciò, essere ampia e aperta a tutto ciò che è umano;
[…] deve essere vuota di sé per lasciare ampio spazio alla vita altrui».
E. Stein, La donna
«È Lui che chiama: ogni uomo a ciò cui ogni uomo è chiamato;
ogni singolo a ciò cui ogni singolo è chiamato in modo totalmente personale;
e, inoltre, l’uomo in quanto uomo
e la donna in quanto donna […]».
E. Stein, La donna
«Un caso particolare è, dunque, quello di una decisione per una vita di vocazione […]
nella sua accezione più alta e pregnante.
La vocazione […], la dedizione esclusiva della vita […],
consiste nel fatto che il soggetto [vi] è legato anima e corpo,
dal centro più intimo della personalità».
E. Husserl, Lezioni sull’idea di Europa