Cambiamento antropologico e vocazione
La multidimensionalità della vocazione
Relazione tenuta al 34° Seminario sulla direzione spirituale
Assisi, 23 aprile 2019
Tra i cambiamenti antropologici del nostro tempo c’è la multidimensionalità della vocazione. Fino al Novecento, soprattutto nell’ambito vocazionale, la dimensione vocazionale era non solo la più importante ma diventava, di fatto, l’unico: ‘sono una salesiana’. Oggi anche le vocazioni più radicali convivono con altre dimensioni importanti, altrettanto fondatore della persona. Rischi: – presentare la vocazione oggi come nel Novecento, e attrarre le persone ‘sbagliate’Non riuscire ad avere persone disposte ad un impegno serio su una dimensione fondamentale e fondativa della loro esistenza: avere ‘dipendenti’, fan, simpatizzanti ma non vocazioni (dove si verifica l’esperienza del riconoscimento intimo). Un problema fondamentale è di tipo narrativo: le esperienze spirituali hanno in genere due nuclei narrativi: uno più intimo (A), legato al cuore del ‘carisma’; Uno (B) più sociologico e culturale, frutto di fare mediazioni. Rischi: la parte A è in genere legata al linguaggio del tempo in cui è stata formulata, spesso molto difficile da comprendere nel secolo correnteQuindi: si racconta la parte B: si è compresi, ma… non si attraggono vocazioni…
1. Il problema della doppia intimità
Il rapporto tra le comunità ideali e le persone che ne sono parte è una faccenda di reciprocità, che vive di una grande vicinanza unita a una reale distanza. Nulla, sulla terra, è più intimo di un incontro nello spirito tra persone chiamate allo stesso destino dalla stessa voce, quando nell’altro vediamo gli stessi desideri del nostro cuore, le stesse parole dette e non dette ci ritornano moltiplicate e sublimate. Si gioisce per le stesse cose, e la gioia aumenta nel vedere che l’altro sta gioendo per le medesime ragioni e allo stesso modo in cui stiamo gioendo noi.
Questa mutua inabitazione («s’io m’intuassi come tu ti inmii»: Dante, Paradiso) è però esperienza pienamente umana e umanizzante se convive con il rispetto di una forma di distanza, che protegge dalla tentazione di possedere l’altro, di appropriarsi di quell’eccedenza che si trova nel suo mistero.È principalmente dentro questo spazio libero e salvato dove vive e si alimenta la comunione, che però cresce e fa crescere finché lasciamo l’altro e il nostro cuore liberi entrambi di velare un “non ancora” che, solo in parte, domani potrà essere svelato.
Questa dinamica di vicinanza-distanza, già difficile tra persone, è ancora più ardua nei rapporti tra l’individuo e la sua comunità. Qui può infatti accadere che la comunione tra l’anima personale e quella comunitaria diventi un’operazione di sostituzione. La persona che arriva in una comunità ideale è affascinata e sommersa dalla bellezza e dalla ricchezza spirituale che incontra, che è molto più scintillante e seducente della piccola voce dentro che gli appare meno interessante e luminosa di quanto trova attorno e fuori di sé.Quella piccola dote con cui bussa alle porte della comunità non brilla e non può brillare, perché non è né una perla né un diamante: è, semplicemente, un seme. Ma è proprio in quella minuscola cosa che sta la possibilità di futuro buono, di innovazioni vere, di sorprese, di riforma, di grandi alberi e nuovi frutti, per la persona e per la comunità.
I responsabili dovrebbero allora far di tutto per tener viva e feconda quella intimità unica e speciale nella persona, che è precedente l’incontro con il carisma della comunità. E quindi dosare molto bene la trasmissione dell’eredità spirituale e ideale collettiva, con le necessarie cura e castità per non sommergere e soffocare quel piccolo seme primigenio.Il principio di sussidiarietà, pilastro dell’umanesimo cristiano ed europeo, vale anche per la gestione del rapporto individuo-comunità: ciò che arriva dall’esterno, dall’alto e da fuori, è buono se è di aiuto (di sussidio) a ciò che è intimo, vicino, personale.
Molto della qualità e tenuta di una storia vocazionale dipende dal dialogo sussidiario tra queste due intimità, soprattutto nei primi tempi; dalla capacità di non sostituire la prima intimità (piccola, ingenua, semplice) con la seconda (grande, matura, spettacolare). Perché è la prima intimità quel luogo dove vive e cresce un pensiero libero, attento, coltivato, critico, perché attinge a falde più profonde di quelle che nutrono il carisma comune.Pesca acqua direttamente nella tradizione spirituale che alimenta lo stesso carisma comunitario, e nelle tradizioni delle civiltà umane che fondano entrambe. È nutrita dalle preghiere di tutti, non solo dalle nostre preghiere, dalle poesie, dai romanzi e dall’arte dell’umanità intera, dall’amore e dal dolore di ogni essere umano e della terra.
Ma è quasi impossibile che questa sostituzione tra le due intimità non si compia, perché è prima di tutto cercata e voluta dalla singola persona. Questa sente forte il fascino delle nuove parole grandi che trova arrivando, anche perché avverte che ciò che le arriva da fuori era già presente dentro di lei, e che nella comunità carismatica viene potenziato ed esaltato. Conosce intimamente quanto le viene donato da fuori perché mentre lo riceve lo riconosce come qualcosa che le era già intimo.Quando invece trattiamo quella giovane come se arrivasse spiritualmente tabula rasa in materia francescana non facciamo altro che far morire in lei quella prima intimità che conteneva già cromosomi essenziali per far diventare autenticamente francescana se stessa e la sua comunità. I cammini spirituali autentici non iniziano ma continuano in una comunità, perché erano già cominciati fuori, in una prima intimità.
Dopo che Saulo incontrò il Signore sulla via di Damasco, arrivò da Anania, che lo battezzò e da quella comunità ricevette la fede cristiana. Ma Paolo ricordò e rivendicò sempre che la sua vocazione era stata precedente all’incontro con Anania, e quella voce continuò ad alimentarlo insieme alla stessa voce che gli parlava nella sua comunità, e che gli diceva ogni tanto parole che non capiva (Galati 1,11-12).Nelle comunità il principale meccanismo di discernimento spirituale parte dall’intimità della persona e si compie nell’intimità collettiva che diventa l’esegeta finale delle parole individuali. Ma è essenziale anche il processo inverso, quando si torna nel dialogo della prima intimità per comprendere le parole collettive che non capiamo, e che una volta comprese dentro e ridonate fuori arricchiscono tutti. Quando manca questo secondo movimento, i membri della comunità tendono a diventare tutti troppo simili tra di loro, perché il luogo della biodiversità antropologica e spirituale, e quindi della ricchezza e generatività dei carismi, non è la seconda intimità, ma la prima.
Nelle nascite naturali, i bambini nei primi giorni si assomigliano molto e sembrano tutti uguali, e solo crescendo si differenziano e assumono i loro tratti specifici. Nelle nascite spirituali avviene invece l’inverso: all’inizio siamo tutti molto diversi, ciascuno con colore degli occhi e dei capelli unici; poi, una volta entrati in una comunità, tendiamo nel tempo a diventare spiritualmente sempre più simili, perché la seconda intimità vocazionale collettiva cresce a scapito della prima.E la fusione inebriante dei primi anni lascia il posto a parole comuni e uguali che parlano sempre meno.
Le comunità spirituali e profetiche fanno sempre molta fatica a riconoscere il valore della prima intimità per la grande stima e considerazione che hanno (e devono avere) per la seconda intimità spirituale collettiva. Spesso la vedono come l’unica necessaria, che ingloba e comprende la prima, che viene considerata come i “denti da latte” del bambini, che devono cadere per poter far crescere i denti adulti e definiti.E così non poche volte determinano, in buona fede, l’atrofìa progressiva del primo luogo vocazionale che sostiene anche il secondo – molti danni sono prodotti da molta buona fede, che però non annulla le conseguenze e il molto dolore.
Più una comunità ha una forte dimensione profetica e carismatica più le viene naturale e spontaneo sottovalutare l’esperienza spirituale precedente all’arrivo. Dimenticando così che ogni organizzazione, anche la più genuinamente carismatica, ha un continuo bisogno di auto- rigenerarsi, e il primo strumento di questa auto-generazione è la profezia delle sue persone, che però deve essere riconosciuta e poi avere lo spazio per essere coltivata. Anche il popolo di Israele ebbe bisogno di essere accompagnato per secoli da profeti giganteschi, nonostante fosse già una nazione santa e profetica.Senza i profeti che l’hanno continuamente rinnovata (e che il popolo continuava a uccidere) anche quella comunità diversa si sarebbe trasformata in un monolite religioso senza spirito. E che cosa sarebbe diventata la Chiesa senza le migliaia di profeti e di santi che l’hanno richiamata mille volte alla sua vocazione e alla conversione? Così accade anche per ogni comunità già carismatica per vocazione: l’arrivo provvidenziale di profeti, che custodiscono le due intimità, la salva e la converte ogni giorno.
La sostituzione della prima con la seconda intimità è anche la radice di molto malessere nelle comunità ideali e spirituali. La ripetizione e reiterazione per anni della stessa intimità collettiva, non più accompagnata e alimentata da quel primo dialogo intimo profondo, genera nelle persone progressive e radicali malattie identitarie. La grande energia investita nell’apprendere l’arte di rispondere alle domande sul “chi siamo noi?” consuma giorno dopo giorno la capacità di rispondere all’altra domanda radicale: “ma io, chi sono?”. Qualsiasi persona che conosce l’essenziale dell’universo spirituale sa bene che “io chi sono?” è una domanda che non ha una risposta soddisfacente.Il costante e continuo esercizio di coniugazione dei verbi della vita al plurale ha consumato la possibilità stessa di un logos al singolare; non si risponde non perché la domanda non ha risposte convincenti, ma perché abbiamo dimenticato le regole grammaticali e sintattiche per capire la domanda.
Quando invece riusciamo a custodire quella prima intimità (e, grazie a Dio, capita spesso), a difenderla con tutte le nostre forze da noi stessi e dalla nostra comunità, ci ritroviamo con un grande tesoro nella vita adulta. Essa diventa il bene essenziale quando la seconda intimità della comunità si ritira – e deve ritirarsi –, e nel suo ritirarsi porta via con sé le parole, le immagini, i simboli con i quali avevamo abbellito la nostra vita spirituale e tutto il nostro mondo. Lì ci accorgiamo che in quella terra c’era ancora un albero. Lo abbracciamo, ci nutriamo dei suoi frutti e godiamo della sua ombra. E poi scopriamo commossi che è lo stesso “albero della vita” che avevamo visto nell’Eden del primo paradiso, perché era germogliato dalla custodia tenace di unsuo seme vero. Sotto quell’unica ombra iniziano poi a radunarsi vecchi e nuovi compagni, e una nuova storia ricomincia.Se invece nel giorno del grande ritiro delle acque nella nostra terra non trovassimo alcun albero, possiamo metterci alla ricerca disperata di un seme buono e affidarlo a quella terra feconda. Non sarà il nostro albero, sarà l’albero dei figli, e forse è più bello ancora.
2. I segni vocazionali
La prima e più preziosa dote che porta con sé chi approda in una comunità, è l’esperienza della voce che lo ha chiamato. La natura di questo dialogo mirabile, fatto di poche parole e di molto corpo, è l’impronta digitalespirituale della persona. Si forma nel ‘seno materno’ e poi non cambia più per tutta la vita. In caso di ferite la pelle ricresce con le stesse caratteristiche uniche e irripetibili.E non è raro che quando abbiamo conosciuto una persona nel tempo del primo incontro vocazionale e poi l’abbiamo rincontrata dopo decenni molto cambiata, prima di riconoscerla nei mutati tratti somatici la riconosciamo da quell’impronta spirituale, che era rimasta oltre le vicende che avevano trasformato il corpo e l’anima – possiamo diventare molto diversi, a volte anche molto brutti, ma quell’impronta è lì, sarà lì con noi fino alla fine, e anche se decidiamo di cancellarla o di rimuoverla con la chirurgia, lei resta tenace, ad attenderci fedele, più fedele di noi.
Le vocazioni vere non sono mai astratte: ‘Vai nella terra che io ti indicherò’; ‘Va e libera il mio popolo schiavo in Egitto’. Non c’è niente di più concreto di una vocazione – e quando è astratta quasi mai è autentica. Non si è chiamati genericamente all’arte, ma alla poesia – si è artisti perché si è poeti, non viceversa. Non si è chiamati a farsi suora, ma a diventare salesiana – anche se a volte ci vuole un po’ di tempo per capirlo.Nelle vocazioni, in tutte le vocazioni vere, tutto sta nella voce. È un evento uditivo. Si fa una esperienza reale, misteriosa e concretissima diuna voce che chiama, parla, chiede. Una vocazione è questo dialogo tra voci: quella che chiama, quella che risponde, quella della comunità che ci accoglie. Non c’è quasi mai la certezza di chi chiama, c’è solo la certezza della presenza di una voce. È una voce plurale, che non ci chiama mai a diventare una sola cosa.
Chiama nella condizione ordinaria del vivere, con tutte le sue bellezze, contraddizioni, ferite. Alcuni che si sposano non sono meno affascinati dalla mistica e dalla spiritualità di molte suore di clausura. Quelli ai quali la voce chiede di restare celibi non hanno una struttura psicologica diversa di quelli che si sposano. Hanno, in media, gli stessi desideri, le stesse passioni, lo stesso eros di tutti. Non sono stati chiamati perché avevano una predisposizione antropologica per la castità o per l’obbedienza: sono stati chiamati e basta, senza previ colloqui motivazionali e attitudinali.E non è vero che la voce che chiama dà anche gli strumenti per poter realizzare il compito che chiede. Sarebbe troppo semplice e quindi banale e non vero – queste cose accadono per i compiti aziendali ma non per svolgere il nostro compito al mondo.L’inadeguatezza è la condizione ordinaria di ogni vocazione, e forse di ogni persona onesta.
Così, tra le persone che hanno ricevuto una vocazione autentica si trovano persone equilibrate e nevrotiche, sane e malate, sante epeccatrici, in genere non più sagge né intelligenti della media della popolazione. Qualche volta l’onesta risposta alla vocazione fa acquistare nel tempo alcune virtù e le persone migliorano eticamente, altre volte no.Queste chiamate convivono accanto e dentro malattie croniche, depressioni, incidenti, ferite, e alcuni restano inchiodati su croci in un eterno venerdì santo e attendono per tutta la vita una resurrezione che non sempre arriva.
Nelle comunità migliori si trovano alcune persone portate alla spiritualità e altre meno, qualcuno che ama le lunghe preghiere, qualcun altro che non le ama affatto.
Altri ancora che hanno iniziato con grandi esigenze religiose e dopo decenni si sono ritrovate con una vocazione diventata impegno civile in mezzo ai poveri, dove imparando ad ascoltare le voci delle vittime hanno dimenticato il timbro della prima voce – per poi, qualche volta, scoprire alla fine che la voce del primo incontro si era smarrita perché era diventata la voce del dolore degli altri.
Questa biodiversità della popolazione delle comunità pone questioni importanti, a volte decisive, riguardo i processi di selezione e di discernimento.
Il solo vero e essenziale discernimento che servirebbe nell’aurora di una chiamata è appurare la presenza della voce che chiama, che tende a confondersi con altre voci che, da giovani, le assomigliano molto. Ma i ‘maestri’ capaci di questi discernimenti sono rarissimi, oggi più di ieri. E così, nell’incapacità di trovarel’unico vero indicatore della autenticità di una vocazione, si usano criteri secondari che colgono aspetti secondari e accidentali ma non la vocazione. Questo infausto esito dipende tutto dall’idea, oggi radicata, che si debbano ricercare nelle persone le pre-condizioni della chiamata.Si cercano (nell’ambito della vita consacrata, ad esempio) presunte predisposizioni per la castità, per la vita comunitaria, o magari per l’obbedienza. Si ragiona come se fosse possibile individuare una attitudine astratta per la comunità prima di vivere davvero in una comunità concreta, o per la castità dimenticando che l’esperienza della castità a quaranta o a cinquanta anni è radicalmente diversa da quella immaginata a vent’anni nell’età dell’incanto.
Le vocazioni sono sempre ‘beni di esperienza’ , cioè beni dei quali si può conoscere il valore vero solo dopo che sono stati ‘consumati’. Si inizia un cammino con l’idea di vocazione, e finché non si è dentro una esperienza vocazionale non sappiamo quasi nulla sulla nostra vocazione concreta. Ecco perché ogni esperienza vocazionale vera è tragica, perché porta iscritta in sé la possibilità del suo fallimento. Tra chi lascia una comunità ideale non vi è solo chi ha ‘sbagliato vocazione’.Ci sono anche molti che avevano avuto una chiamata vera, ma facendo l’esperienzahanno capito che non riuscivano a vivere nella condizione concreta nella quale quella chiamata li poneva esistenzialmente – per proprie fragilità o per nevrosi comunitarie ed errori di governo. Il fallimento di una esperienza vocazionale concreta non dice allora molto sulla presenza o assenza di una chiamata vera all’inizio. Ci sono persone che restano benissimo per tutta la vita dentro esperienze vocazionali senza aver mai avuto una vocazione, e altre che lasciano pur avendo avuto una chiamata vera, e continuando a averla per tutta la vita. Come ci sono comunità salvate da riformatori che avevano brutti caratteri e grosse fragilità, ma che erano stati, semplicemente, chiamati.
Ma se per voler prevenire i fallimenti (intenzione nobile e doverosa) cerchiamo di individuare le predisposizioni psicologiche o caratteriali delle persone chiamate, e trascuriamo di capire se all’inizio c’è stata una esperienza vocazionale vera, impediamo a persone con delle fragilità ma chiamate di poter occupare il loro posto al mondo, anche quando questo posto rischia seriamente, per quelle fragilità, di essere scomodo e doloroso, persino di dover fare i conti con un fallimento.Perché nessuno può sapere, né prima né dopo l’evento, il valore spirituale e morale di un anno, dieci e o trenta vissuti cercando di essere fedeli ad una chiamata vera, anche quando quell’esperienza si è interrotta, e a volte per errori e cattiverie di chi stava attorno e sopra di noi. Qualcosa di molto simile accade anche per ogni esperienza matrimoniale: l’amore che ci siamo voluti, i figli che abbiamo messi al mondo, restano benedizione anche quando non siamo riusciti a vivere insieme per sempre, se all’inizio c’era stata una chiamata vera.Mentre ci sono esistenze vissute senza traumi e fallimenti magari solo perché abbiamo seguito soltanto gli incentivi e gli interessi, ma all’inizio non c’è stata nessuna voce vera. Non è il successo l’indicatore di verità di una esistenza – anche qui i profeti sono maestri eterni ed infiniti. È la verità di quanto stiamo vivendo e di quanto abbiamo vissuto che dice il valore di una esperienza e di una vita.
Non dobbiamo commettere nella valutazione delle nostre esperienze esistenziali l’errore cognitivo degli ‘effetti di picco-fine’. Commettiamoquesti errori quando, ad esempio, ascoltiamo una sinfonia con il vecchio vinile, e dopo un’ora di splendido ascolto di Beethoven, succede che verso la fine il disco è rovinato e inizia ad emettere suoni brutti e fastidiosi. In genere quando valutiamo quell’esperienza ci dimentichiamo l’ora di musica di paradiso e estendiamo il fastidio dell’ultimo minuto (la fine) a tutta l’esperienza uditiva, esprimendo un parere negativo sull’intero evento.In realtà, abbiamo avuto un’ora splendida e un finale difficile. La bellezza e la verità di anni spesi inseguendo generosamente una voce vera non si misurano sulla base del ‘minuto’ finale infelice, per il disco rovinato o perché il vecchio giradischi che si era rotto. Nessuno può e deve rovinarci la verità e la bellezza di aver trascorso quella prima ora in compagnia di Beethoven.
Quando, invece, si vanno a cercare i segnali vocazioni nel carattere e nella personalità, si finisce per individuare persone predisposte che però non sono quasi mai quelle chiamate da una voce vera, ma attratte dagli aspetti sociologici del mestiere vocazionale.Perché se nelle comunità entrano persone che amano molto la vita comunitaria e/o che non hanno gli stessi desideri affettivi di tutti, che hanno meno eros e passioni umane degli altri, ci si ritrova con comunità impoverite di normalità antropologica, con poca biodiversità e generatività, con persone troppo simili e ‘a umanità ridotta’ perché entrati già simili e ridotti – ma la vita è generosa, e anche se siamo entrati in una comunità con le motivazioni sbagliate possiamo sempre ricevere una chiamata vera fino all’ultimo giorno, purché, il giorno prima, desideriamo di essere chiamati per nome.
Nelle comunità ideali ci si ritrova insieme perché ciascuno chiamato. Non si entra perché ci piace il noi, ma perché diciamo di sì ad un tu.Nella Galilea non si creò una comunità perché gli apostoli furono attratti da una qualche forma di vita in comune o di stato di vita – e non sappiamo se fosse Pietro o Giuda quello più sociologicamente e psicologicamente predisposto per la vita comunitaria.Quasi sempre le esperienze comunitarie più vive e vere accadono tra persone che non avrebbero i tratti caratteriali ideali per vivere le une insieme alle altre, ma proprio lì fiorisce un’autentica fraternità improbabile che converte e genera. Comunità formate da persone attratte dalla comunità produce quasi sempre comunità che non attraggono nessuno – le comunità con poca biodiversità non superano le seconda generazione.
Molti pittori non conoscevano le tecniche pittoriche il giorno che ricevettero la vocazione. Impararono poi le tecniche ma erano già artisti.
Si può imparare la vita comunitaria, si può persino imparare a vivere la povertà e la castità, ma non si può imparare una vocazione.La possiamo solo ascoltare, e poi iniziare a camminare.
(Testo tratto dalle slides della relazione)