Studi /

«Che cosa vedi?» (Ger 1,11-12)

Lectio Divina

  1. Il contesto della vocazione di Geremia

Geremia, uno dei “profeti scrittori”, è chiamato ancora giovane da Dio, e vivrà in prima persona l’ultimo periodo della riforma di un santo re, Giosia, riforma che però non servirà a fermare la crisi imminente, con la distruzione di Gerusalemme e del primo Tempio, dovuta anche agli sconvolgimenti che presero tutto il Vicino Oriente Antico. Per questa ragione, la tradizione giudaica addirittura immagina che Geremia, appena partorito inizi subito a piangere per Gerusalemme, annunciandone la distruzione[1].

Il primo capitolo del libro – suggerisce Alberto Mello – dovrebbe essere intitolato “In principio”: «In principio, prima di qualunque altra parola, c’è per Geremia il racconto della propria vocazione: prima di qualunque appello rivolto agli altri, c’è l’appello che Dio rivolse anzitutto a lui. Questo racconto è, in un certo senso, l’autopresentazione di Geremia, l’autenticazione dell’autorità profetica con cui egli parla. Geremia non si rivolge al popolo se non dopo avergli ricordato di essere stato chiamato da Dio a questo compito»[2]. Però, come si evince da Ger 25,3 («Dall’anno tredicesimo del regno di Giosia, figlio di Amon, re di Giuda, fino ad oggi sono ventitré anni che mi è stata rivolta la parola del Signore») sono ormai più di vent’anni che Geremia è stato chiamato dal Signore;  l’esperienza di questo incontro è quindi ancora vivida nella memoria del profeta (esperienza che è stata poi portata per iscritto dal suo discepolo e amico Baruc, come si legge in Ger 36,4: «Geremia chiamò Baruc, figlio di Neria, e Baruc scrisse su un rotolo, sotto dettatura di Geremia, tutte le cose che il Signore aveva detto a quest’ultimo»).

Potremmo far tesoro di questo elemento: ripensare alla propria vocazione – magari dopo decenni – è importante, come ha notato anche Pierantonio Tremolada commentando il nostro brano: «Raccontare la vocazione significa mostrare l’opera di Dio nella propria storia, unire insieme fatti non contemporanei, confrontarli, collegarli, riconoscere corrispondenze»[3]. È, in qualche modo, proprio quello che il Risorto ha fatto a Emmaus. Forse, ci sarebbero meno crisi se avessimo maggiori possibilità di dirci le nostre vocazioni. La condizione perché ciò avvenga, però, come vedremo meglio subito, è che esista un dialogo.

 

 

I primi tre versetti rappresentano il titolo del libro, e ne contestualizzano il messaggio, che riguarda il periodo della storia di Giuda immediatamente prima dell’esilio babilonese, ovvero dal 627 al 587 a.C. Geremia ricorda di provenire da una famiglia sacerdotale, residente vicino a Gerusalemme, nel territorio della tribù di Beniamino, ad Anatòt, un villaggio a circa 6 km a nord est della città santa. Dal punto più alto del villaggio – se ne è corretta l’identificazione – si possono vedere addirittura le mura di Gerusalemme, e Geremia avrà potuto ammirare anche il grandioso Tempio: con quanto dolore ne avrà annunciato ai suoi correligionari la distruzione, ricordando che non bastava frequentarlo, e ripetere «Questo è il tempio del Signore, il tempio del Signore, il tempio del Signore!”» (Ger 7,4) per considerarsi a posto e salvati.

 

2.La chiamata del profeta al celibato

Nei versetti Ger 1,4-5 viene narrata la chiamata del profeta. A Geremia è rivolta la Parola del Signore (alla lettera: “avvenne/fu per lui”; v. 2 e cf. v. 4). Si tratta di una formula stereotipica per dire l’esperienza profetica. Si ritrova anche nella chiamata di Abramo (Gen 15,1), invitato a stringere con Dio la prima alleanza, quella chiamata “dei pezzi”, e pure nella vocazione del profeta Samuele (1Sam 15,10). Ma oltre a questa espressione, ecco che Geremia riporta un altro e originale contenuto di quella Parola di Dio “per” lui: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni» (Ger 1,5).

I verbi che descrivono la vocazione del profeta prima che questi venisse formato(espressione usata anche per la creazione dell’umanità in Gen 2,7) nel grembo materno sono tre: “conoscere”, “consacrare” e “stabilire”. Ci soffermiamo per commentarli.

Il verbo “conoscere” è il verbo dell’intimità, e viene usato per la prima volta nella Bibbia per dire come Adamo conobbe sessualmente Eva (Gen 4,1). Abbiamo già incontrato questo verbo nella professione di fede di Pietro – nella nostra prima meditazione – quando l’apostolo dice a Gesù «noi abbiamo creduto e conosciutoche tu sei il santo di Dio» (Gv 6,69). Il noto traduttore ebreo francese, Nathan André Chouraqui, nella sua versione della Bibbia rendeva spesso “conoscere” con “penetrare”, implicando nel significato del verbo la sfera sessuale, una relazione intima, un “penetrare in profondità”, l’“entrare in profondità”[4].

Per illustrare il significato del verbo, anticipiamo ora quanto viene scritto da Geremia al cap. 16 dell’omonimo libro: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: “Non prendere moglie, non avere figli né figlie in questo luogo, perché dice il Signore riguardo ai figli e alle figlie che nascono in questo luogo e riguardo alle madri che li partoriscono e ai padri che li generano in questo paese: Moriranno di malattie strazianti, non saranno rimpianti né sepolti, ma diverranno come letame sul suolo. Periranno di spada e di fame; i loro cadaveri saranno pasto agli uccelli del cielo e alle bestie della terra”» (Ger 16,1-4). Il verbo “conoscere”, allora, si può spiegare anche da questa prospettiva. Dato che Geremia sarà invitato a non sposarsi, commenta William Holladay, «e poiché vi è più di un indizio nell’affermare che Geremia ha inteso la sua vocazione profetica connotata dalla stessa intimità che una moglie ha col marito (Ger 15,6; 20,7), non è sbagliato vedere all’inizio della sua vocazione un riferimento a tale metafora»[5].

La dimensione celibataria sconvolge la vita del profeta e forse anche per questo nel libro non vi è alcuna prova che – pur essendo di famiglia sacerdotale – abbia svolto i compiti e gli uffici dei sacerdoti al Tempio, e anzi sono attestate nel libro accuse e rimproveri contro di essi (cf., ad es., Ger 2,26; 4,9; 5,31, ecc.). Ovviamente anche Geremia avrebbe dovuto adempiere il comando di “crescere e moltiplicarsi” (cf. Gen 1,28) – che esprime la vocazione originaria della persona alla fecondità – ma avrò dovuto vivere tale vocazione in altro modo. Il suo è infatti uno dei due casi in cui il celibato è visto nel Primo Testamento come una speciale chiamata (escludendo Giuditta, che se rifiuta le seconde nozze, era però già stata sposata; cf. Gdt 16,22-24), se l’altro, come si potrebbe ragionevolmente sostenere, è quello della figlia di Iefte[6].

La scelta celibataria di Geremia non è data né dal disprezzo del matrimonio, e nemmeno dal non aver trovato moglie, e si spiega alla luce della imminente distruzione di Gerusalemme. Lo spiega bene John Paul Meier, allorquando confronta la vita di Geremia con lo stato civile di Gesù: «Lungi dall’essere una sorta di positivo impegno religioso, il celibato era per Geremia un tragico segno personale, un simbolo profetico esterno della distruzione della vita che attendeva il popolo peccatore di Giuda (Ger 16,1-4). Abbiamo, dunque, almeno un esempio di un profeta dell’Antico Testamento per il quale il celibato non fu una questione secondaria, uno stile di vita opzionale»[7]. Lo aveva notato anche San Giovanni Paolo II nelle sue catechesi sull’amore umano (e forse sottovalutando un po’ il dato), affermando che «nella tradizione dell’Antico Testamento, a quanto ci risulta, non c’è posto per questo significato del corpo, che ora, Cristo, parlando della continenza per il regno di Dio, vuole prospettare e rivelare ai propri discepoli. Tra i personaggi a noi noti, quali condottieri spirituali del popolo dell’Antica Alleanza, non vi è alcuno che avrebbe proclamato tale continenza a parole o nella condotta», ma poi aggiungendo quanto segue (che si trova tra parentesi nel testo ufficiale pubblicato): «È vero che Geremia doveva, per esplicito ordine del Signore, osservare il celibato (cf. Ger 16,1-2); ma questo fu un “segno profetico”, che simboleggiava il futuro abbandono e la distruzione del paese e del popolo»[8].

Se la chiamata di Geremia prevede anche la rinuncia alla coniugalità e alla generatività biologica, dobbiamo anche dire che essa è possibile solo proprio perché è una vocazione all’amore, descritta, come abbiamo visto, con gli stessi termini che si usano per dire l’unione sessuale tra uomo e donna; si tratta qui, però, di un amore che si esprime nei confronti della Parola di Dio e del popolo di Israele, come anche degli altri popoli. La chiamata del profeta non è qualcosa di semplicemente personale o intimistico: Dio chiama Geremia perché abbia una vera relazione con lui, e con altri. Senza amore, il celibato non è possibile, e infatti l’unico caso di un rabbino celibe attestato nella tradizione giudaica sembrerebbe quello di Shimon ben Azzai, che poté rimanere tale, affermava, perché desiderava la Torah più di una donna[9].

Il secondo verbo della vocazione di Geremia è “consacrare”. La sua radice, “santo”, esprime l’essere messi da parte, l’essere differente, come lo è Dio stesso, il “Santo”/“differente” rispetto agli altri dèi. La tradizione rabbinica accentua a tal punto questo carattere del profeta Geremia, tanto da pensare che fosse nato già circonciso, e sin dal grembo materno fosse stato egli stesso a scegliersi il nome[10].

Il terzo verbo,“stabilire”, dice, come si evince dal significato letterale del verbo, “dare” (qui però seguito da due accusativi, che cambiano il significato, appunto, in “stabilire”), che è davvero come se Geremia venisse dato anche alle nazioni pagane, ai gōyyim. Così si può descrivere questa speciale missione, l’essere «chiamati e separati perché destinati ad altri. Non solo perché a essi inviati, ma anche perché testimoni di un comune destino, di una vocazione a cui ciascuno è chiamato. Geremia porta nel suo corpo il destino di tutti, sia quando con la sua solitudine annunzia la fine della nazione (cf. Ger 16) sia quando con i suoi gesti profetici annunzia la speranza futura (cf. Ger 32). Ogni chiamato è intermediario e figura del volere divino riguardo al mondo degli uomini. Era avvenuto così per Abramo, Giacobbe e Mosè. Sarà ancora così per gli apostoli di Gesù, intermediari e modelli della vita di ogni discepolo di Cristo (cf. Mt 28,16-20)»[11].

Non si dovrebbe però leggere nei verbi che abbiamo appena commentato un’idea di predestinazione. È vero, il testo dice che la vocazione alla vita, la consacrazione sacerdotale e la missione sono state viste da Dio prima del concepimento e della nascita del profeta, ma ciò va compreso nella dinamica del dialogo, sul quale torneremo tra poco. Quello che Dio dà al profeta non è un ordine, ma una parola all’interno di un dialogo – nel quale vi sono pure le obiezioni («Ecco, io non so parlare, perché sono giovane»; Ger 1,6) caratteristiche di ogni vocazione (cf. ad es. Es 4,10; Gdc 6,15, ecc.) –, e tale parola richiede la risposta di Geremia e un conseguente atto libero della volontà.

Nonostante il tono deterministico dell’affermazione di apertura, per tutto il prosieguo del racconto il tono sottostante è quello della libertà umana e della capacità di risposta alla chiamata divina. Non si deve poi dimenticare che questa vocazione è narrata più di vent’anni dopo l’inizio della missione del profeta, ed è quindi il risultato di una rilettura, di una comprensione ulteriore della vocazione originaria: Geremia torna indietro con la mente non solo fin all’inizio del suo ministero, ma ha uno sguardo di fede capace di andare ancor più a ritroso, fino, appunto, a quando non era nemmeno nato.

 

  1. Geremia e il dialogo sul ramo di mandorlo

E veniamo ora agli ultimi versetti della nostra pagina (Ger 1,11-12), che si trovano ancora all’interno di quella parte del libro del profeta che può arrivare, dal cap. primo, fino al venticinquesimo, e che trasmette gli oracoli e le azioni simboliche contro Giuda. Siamo di fronte a una visione profetica, in forma di dialogo, un interessante banco di prova, perché è la prima visione del profeta.

L’esegesi di questi due versetti ha rappresentato una cruxper molti esegeti, perché il testo è davvero complicato, da tanti punti di vista, soprattutto per coloro che tentano di collocare la profezia del mandorlo nel contesto della vita del profeta e della storia di Giuda[12]. Noi sottolineiamo soltanto alcuni aspetti, il primo dei quali è che il lettore viene da subito coinvolto all’interno di un dialogo.

Il dialogo è – come ha notato John Willis[13]– un espediente retorico che si sviluppa per tutto l’intero libro e che ne costituisce la struttura, insieme ad altre forme letterarie come il chiasmo e l’inclusione[14]. Se un modo tipico di dialogare, presente nel libro di Geremia, è quello che si sviluppa tra l’autore e il lettore (e John Willis ne presenta sei esempi, in Ger 3,21–4,4; 5,12-17; 8,13-17; 8,18-23; 14,1-10; 14,17–15,4), nel nostro testo siamo di fronte ad un dialogo tra Dio e il suo profeta. Questa forma di dialogo non ha luogo solo all’inizio del libro, ma anche più avanti, come in Ger 12,1-6 o 15,15-21, quando il profeta entra in un contenzioso (rib) con il suo Dio. Il dialogo poi si instaurerà anche con altri, come con i leader del popolo, o con alcuni interlocutori particolari, o, ancora, con l’insieme del popolo. La cosa importante da notare è la differenza tra la forma di un monologo e quella di un dialogo. Nella vocazione del profeta, e nelle sue prime esperienze profetiche, non è solo Dio a parlare, ma è coinvolto Geremia stesso. È, come accade in altre storie di vocazione, ciò che porterà a ripetere uno schema ricorrente: a fronte della chiamata, vi è un’obiezione e poi una risposta da parte di Dio.

Il dialogo è attivato da Dio stesso, e prende l’avvio da una domanda: «Che cosa vedi, Geremia?» (1,11a). Cosa implichi qui “vedere” si può dire attraverso la negazione di due opposti: non si dovrebbe pensare a una visione extrasensoriale, ma nemmeno a una visione di qualcosa che è “fotografabile”[15]. Diremo meglio tra poco.

La risposta del profeta – «Vedo un ramo di mandarlo» (1,11b) – è comprensibile solo con un gioco di parole tra le parole in ebraico “mandorlo” (shaqed) di questo versetto e “vigilare” (shoqed) del versetto seguente, che suonano in modo simile.

La terza parte del dialogo è la conferma da parte di Dio: «Hai visto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarla» (1,12). È quanto ha capito anche l’esegesi rabbinica, che confluisce poi nel commento di Rashi, quando il rabbino medievale osserva che l’albero di mandorlo è quello che fiorisce prima degli altri, e perciò Dio si affretta a mettere in pratica la sua parola.

Ma quale segno è dato al profeta? Che cosa vede, se non un ramo di un albero, e cosa non ode da Dio, se non una conferma con un gioco di parole? La prima esperienza profetica che Geremia ricorda è, a guardar bene, disarmante nella sua semplicità ed essenzialità. Ma al giovane che ha iniziato a rispondere alla vocazione già dal ventre materno, anche il ramo di un albero – tra i tanti che avrà osservato nella campagna di Anatòt – sarà sufficiente per dare l’avvio a qualcosa di ben più grande, e che porterà Geremia ad essere tra i più importanti e certamente il più tragico dei profeti.

È il paradosso della fede, che è – come si legge nella Lettera agli Ebrei – «la prova di ciò che non si vede» (11,1). Per chi crede, bastano le cose più semplici come prova per compiere la propria missione.

A guardar ancora meglio, però, ciò che qui conta veramente non è tanto quello che il profeta ha visto – che è solo un ramo di un albero –, ma la risposta di Dio: è su questa che il profeta può far affidamento, sulla rassicurante promessa di chi si impegna ad accompagnare quella Parola che d’ora in avanti non sarà più solo di Geremia, ma di Dio stesso (cf. Ger 1,9: «Io metto le mie parole sulla tua bocca»).

[1]Cf. L. Ginzberg, Legends of the Jews, II, The Jewish Publication Society, Philadelphia, PA 2003, 1067.

[2]A. Mello, Geremia. Commento esegetico-spirituale, Qiqajon, Magnano (BI) 1997, 18.

[3]P. Tremolada, «La vocazione di Geremia (Ger 1,1-19). Un’opera di Dio tra storia ed eternità», La scuola cattolica 132 (2004) 451-478; 477.

[4]Cf. A. Chouraqui, La Bible, Desclée de Brouwer, Paris 1974; Gen 4,1: «Adâm pénètreHava, sa femme». Ma vedi la versione di Ger 4,5: «Avant que je ne t’aie formé dans le ventre, je te connaissais», e di Gv 6,67, di cui si è detto nella prima meditazione: «Nous avons adhéré, nous savons que toi tu es le consacré à Elohîms».

[5]W.L. Holladay, Jeremiah 1. A Commentary on the Book of the Prophet Jeremiah, 1–25, Fortress Press, Philadelphia, PA 1986, 33.

[6]Cf. G. Gillini – M. Zattoni, G. Michelini, Il Libro dei Giudici. Lettura esegetica e contestuale familiare, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2012 e G. Bruscolotti, Figlie di Iefte, Cittadella, Assisi (PG) 2017.

[7]J.P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico.1. Le radici del problema e della persona, Queriniana, Brescia 2002, 334-335.

[8]Udienza generale del 17 marzo 1982.

[9]Cf. L. Clenman, «The Fire and the Flesh. Self-Destruction of the Male Rabbinic Body», in J.E. Taylor (ed.), The Body in Biblical, Christian and Jewish Texts, Bloomsbury, London – New York 2015, 212-214.

[10]Cf. Tehillim 9,84.

[11]M. Grilli, Il Pathos della Parola. I profeti di Israele, Paoline, Milano 2000, 106-107.

[12]Cf. P.C. Craigie – P.H. Kelley – J.F. Drinkard, Jeremiah 1–25, Word Books, Dallas, TX 1991, 16.

[13]J. Willis, «Dialogue Between Prophet and Audience as a Rhetorical Device in the Book of Jeremiah», Jounral for the Study of the Old Testament 33 (1985) 63-82.

[14]È una forma ben nota e molto importante della narrazione biblica, e infatti basterà pensare al dialogo di Dio con Abramo circa la distruzione di Sodoma e Gomorra (Gen 18,22-33) o, per passare subito al Nuovo Testamento, ai dialoghi di Gesù con diversi interlocutori nel Quarto vangelo.

[15]Cf. W.L. Holladay, Jeremiah 1, cit., 33.