N.01
Gennaio/Febbraio 2020

Spingi lo sguardo (Gen 13,14)

Dimmi dove guardi e ti dirò cosa diventerai. Si potrebbe parafrasare così l’invito che YHWH rivolge ad Abramo e, tramite lui, a ciascuno di noi, perché, come insegna san Paolo, Abramo è nostro padre nella fede (Rm 4,16), nel senso che tutti coloro che si avvicinano a Dio e ai suoi doni rivivono, che lo sappiano o no, l’esperienza del primo patriarca.  

Poco prima del nostro versetto, anche Lot, il nipote che si era aggiunto (Gen 12,4) al viaggio di Abramo, «alzò gli occhi» (Gen 13,10) e vide il paese di Sodoma per insediarvisi. Era nata, infatti, una contesa tra Lot e Abramo dopo il loro ritorno dall’Egitto. La cosa interessante è vedere come Abramo risolve il conflitto con il nipote. Contro ogni aspettativa – lui è l’anziano, è lui che ha ricevuto le promesse, mentre Lot è più giovane e si è aggiunto alla decisione di Abramo di partire – Abramo fa scegliere proprio al nipote dove insediarsi, rinunciando così ad un proprio diritto in nome della fratellanza (Gen 13,8). Lot avrebbe potuto restituire il favore accordatogli dallo zio, invece ne approfitta e sceglie «per sé» (Gen 13,11) un bene che, momentaneamente, lo soddisferà (Gen 13,10), ma poi sarà fonte di schiavitù (Gen 14,12). 

È in questo contesto che il Signore invita Abramo a spingere oltre il suo sguardo. Ma “oltre” rispetto a che cosa? Lo sguardo, infatti, rischia di rimanere imprigionato dal ripiegamento su di sé che, come per Lot, all’inizio può risultare appagante ma poi si rivela un inganno che lascia delusi e a mani vuote. 

Per allargare lo sguardo occorre allargare il cuore, curare gli affetti che interagiscono con la capacità di valutare e vedere. Basti ricordare i due discepoli di Emmaus che hanno a fianco il Signore risorto e non riescono a riconoscerlo perché il loro cuore è triste (Lc 24,17), deluso dal come è andata a finire la loro storia con il Maestro. E, non a caso, Gesù dice loro, come a noi, che per rieducare lo sguardo occorre, tra le altre cose, saper leggere le Scritture da Mosè fino ai profeti, quindi a partire da Abramo (Lc 24,27). Da cosa doveva essere guarito Abramo? Certamente doveva riconciliarsi con il suo passato recente. L’episodio accaduto in Egitto (Gen 12,10-20) lo aveva messo a contatto con le proprie fragilità e i propri fallimenti. Dove erano finiti il coraggio e una certa dose anche di spavalderia giovanile con cui aveva accondisceso all’invito di YHWH di partire, lasciando la sua casa, senza sapere dove andare, certamente contro il parere del buon senso dei suoi amici e familiari che avranno scosso la testa davanti alla sua decisione? Anche Sara lo aveva seguito, probabilmente con molti interrogativi rimasti nel suo cuore. Poi le conferme una volta arrivati in Canaan (Gen 12,7) e subito dopo la doccia fredda della carestia (Gen 12,10) e la decisione improvvida di trasferirsi in Egitto e qui, al confine, l’incontro doloroso con le proprie paure: «Quando gli Egiziani ti vedranno… mi uccideranno, mentre lasceranno te in vita. Di’ dunque che sei mia sorella, perché io sia trattato bene per causa tua e io viva grazie a te» (Gen 12,13). Cedere così la moglie amata, la compagna di una vita segnata dal dolore dalla sterilità.  

È con i propri fallimenti dunque che Abramo si deve riconciliare, per accogliere l’invito insperato di Dio che, nonostante le sue fragilità, rilancia la promessa, facendogli intuire che essa non è legata ai suoi meriti. Abramo comincia ad entrare così nella logica del vangelo, nella logica della gratuità di un Dio che interagisce con l’uomo a partire da come lui è di fatto e non da come dovrebbe essere.  

Nell’aver accettato questo invito sta la sua grandezza e la sua vicinanza con noi, alle prese con i suoi stessi fallimenti e perplessità, che Dio vuole illuminare e avvolgere con la sua luce, per farci vedere orizzonti insperati, che conducono a frutti di fertilità, a promesse di vita piena ed inesauribile (Gen 13,15-17).