«Io sono la via» (Gv 14,6)
Tracce sul cammino
Ci mettiamo sempre in cammino animati dal nostro desiderio di vita, viviamo in costante ricerca per scoprire in fondo che la vita ci viene sempre donata gratuitamente (Ap 22,17). Riportiamo qui un testo di Paolo Rocca che ci accompagna in un viaggio nelle Scritture sulle tracce di questo desiderio.
“Singolare, non c’è dubbio; ma ogni cammino ha a che fare con un albero, una fiamma roteante e degli strani esseri con le ali.
Le pagine della Scrittura sono un crocevia, una matassa arruffata di strade e tragitti: raccontare una vita è tessere il suo viaggio. Abramo, Sara, Mose, Maria, Paolo. E poi ancora Giacobbe, Elia, Filippo, Tobia e tanti altri. Tutti gran camminatori, i personaggi biblici. Pure il sole cammina, il vento, persino gli alberi. E ciò che è dentro al libro è anche fuori: essi sono infatti cifra di ogni essere vivente. Dall’alba dei tempi, ogni atomo freme, ogni cosa è inquieta, corre. Tuttavia: per quale ragione? Perché camminare? Qual è il movente invisibile che ti spinge a partire, a lasciare un luogo per un altro? Quale impeto segreto accomuna il profugo, il migrante, il pellegrino? Che cosa immette nei tuoi piedi e nel cuore il fuoco santo del viaggio?
In principio Dio creò il cammino. E lo creò così: vi era un albero, una fiamma roteante e degli strani esseri con le ali. Siamo all’inizio della Scrittura, alle prese con Adamo ed Eva, i quali, per la loro disobbedienza, sono cacciati dal Signore Dio dal giardino di Eden. Cacciò l’uomo e pose a oriente del giardino di Eden i cherubini e una fiamma di spada turbinante, per custodire il cammino all’albero della vita. Il Signore Dio sistema dei cherubini – gli esseri con le ali – e una fiamma che turbina come lama affilata: tutto a custodia dell’albero. Essi non devono vietarne l’accesso in modo assoluto (come a prima vista potrebbe sembrare) ma solo custodirlo, come si fa con una cosa preziosa, che non tutti e subito possono toccare. Non è chiuso il varco: al contrario, installando un accesso, un limite ben custodito, Dio disegna per la prima volta un cammino che ha come meta l’albero della vita. Maestro nel trarre il bene dal male Dio si inventa il cammino, che dai confini della terra conduca lì, al centro di quel giardino.
Il Signore Dio, ponendo una meta e un limite, creò dunque il cammino. Da quel giorno ogni uomo lascia la sua terra, la sua parentela e la casa di suo padre, per andare verso il luogo che Dio ha indicato, per tendere verso il centro di quel giardino, verso l’albero della vita. Lui, Padre dal quale ogni paternità procede, pone una custodia a quel cammino, lo preserva, ne impedisce un accesso immediato, una consumazione rapida, rapace, e così innesta il desiderio. L’uomo non può più agguantarne il frutto come con l’albero della conoscenza del bene e del male, non può asservire la crea-zione ai suoi desideri, allungare la sua mano per carpire la sua gemma. No, deve partire per un viaggio. Con quell’albero nel cuore, forza invisibile di ogni suo passo, più intimo desiderio. Perché il cammino, dunque? Perché l’uomo desidera la vita, la vita autentica. Cerca il suo frutto migliore.
Tutta la Scrittura, da lì in poi, è la storia di molti cammini: da Ur dei Caldei a Canaan, dall’oriente a Betlemme, dall’Egitto alle steppe Moab, da Cesarea di Filippo a Gerusalemme, da Nazaret alla Giudea, fino a Damasco o in Samaria o a Roma o chissà dove. Chilometri e chilometri. Ogni volta che esci di casa o sorvoli l’oceano, solo col pensiero o con tutto te stesso, il tuo cuore cerca quell’albero: cerca la vita. Quando ti trasferisci per lavoro o quando vuoi ‘fare un’esperienza’, se ti accalchi in metrò o ti avventuri nel cuore di chi ami. L’albero della vita. Un luogo dove si possa nutrirsi di vita vera.
Il desiderio di quell’albero ci fa eterni pellegrini, dispersi e dovunque forestieri, dove ogni terra è nostra patria ma ogni patria è in fondo straniera. C’è sempre un incompiuto, nel viaggio di tutti. Pare non arrivare mai a destinazione. Abramo, al quale è stata promessa una terra, si dovrà comprare a caro prezzo alcuni metri quadrati di sepolcro. Il popolo d’Israele arriverà sì nella terra, ma scoprirà che essa è già occupata e ancora tutta da conquistare, mai data una volta per sempre. Ogni pellegrinaggio, giunto alla meta, prevede una discesa, un ritorno. Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra. Chi parla così, mostra di essere alla ricerca di una patria. Non è forse un grande paradosso? Nella fede morirono. Dentro l’uomo è seminato Il desiderio di quell’albero, ogni nostra fibra si strugge agognando il suo frutto. All’apparenza, però, i nostri giorni scorrono più veloci di una spola verso il suo opposto, verso sorella morte. Alla ricerca di una casa, di acque tranquille, di un giardino nel quale trovare vita e pace, l’uomo si trova a camminare inesorabilmente verso il buio, verso una dimora niente affatto familiare. Nessuna meta è mai davvero raggiunta: la morte, puntualmente, sempre si frappone tra partenza e arrivo. Cammini interrotti, quelli degli uomini. Perché, di grazia? Perché Dio ha inventato il cammino e ha posto nel cuore un desiderio che mai è appagato davvero, se mai si raggiunge un traguardo?
È l’ultima pagina della Scrittura che svela il segreto. Lì, finalmente, si parla di una patria, di una destinazione. Il posto dove trovar requie, meritato riposo di ogni viandante. Una città che al centro ha una piazza d’oro ed è tutta un tripudio di preziose costruzioni. A quale grande popolo appartiene, di chi è l’ingegno che l’ha costruita, a chi dobbiamo la meta di ogni nostro viaggio? No, questa città non è fatta da mano d’uomo, ma può solo scendere dal cielo. Da Dio, unica nostra vera dimora. Dio ha preparato per noi una città, unita e compatta.
Una città, dunque, e al suo cuore una piazza d’oro. E al centro della piazza, al centro del centro cosa c’è? Eccolo: un albero di vita che dà frutti dodici volte all’anno, portando frutto ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni. Prima di chiudere le Scritture, ritroviamo quell’albero. La meta di ogni cammino non è il frutto delle fatiche del viaggio: la destinazione è donata soltanto. Così come il suo frutto: non se ne mangia per appropriazione, non si prende la vita, come Eva alla vista dell’albero. La si accoglie soltanto. Al vincitore darò da mangiare l’albero della vita, dice il Signore. Lui darà il frutto. È il Padre colui che nutre, colui che dà. Tu sei figlio suo, tu vieni nutrito.
Chiudendo il libro, dunque, si scopre la cosa più semplice del mondo, che si impara alla nascita: la vita è un dono. La vita vera è un dono. Benché io abbia in me il desiderio di quell’albero, immesso da Dio per mettermi in cammino, non è il mio desiderio che me lo procura. Tutto Il mio viaggio sarà forse la ricerca disperata di darmi quel frutto, di fabbricarlo con le mie stesse mani. Tenterò di darmi la vita da me stesso. E ogni viaggio resterà senza meta, senza terra, proprio perché io mi educhi all’attesa e all’accoglienza di un dono. La morte m’insegnerà che la vita viene solo dal Padre, perché è il Padre che dà la vita. Solo un padre dà la vita; non la si può prendere ma soltanto accogliere, colmi di gratitudine.”
(Paolo Rocca, in Il grano è maturo, a cura di M. Gianola, F. Bustaffa, pp. 86-87).