Buono è il Signore (Sal 34,9)
Il Salmo 34 è un Salmo alfabetico: ogni versetto inizia con una delle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico da alef a tau, dal principio alla fine. Una prima ipotesi sulla ragione dell’impiego dell’acrostico come forma compositiva di questo Salmo, potrebbe essere fatta pensando alla facilità con cui componimenti poetici di questo genere possono essere memorizzati. Tuttavia è possibile considerare anche altre motivazioni. Secondo la tradizione rabbinica, Dio avrebbe creato il mondo tramite le lettere dell’alfabeto. Il Salmo dunque elencherebbe consecutivamente tutte le lettere nel tentativo di abbracciare la totalità del Creato e dei gesti che si possono compiere per vedere e gustare la bontà dell’Eterno. Un altro motivo potrebbe risiedere nei limiti del linguaggio umano, dovuti all’inesistenza di parole adeguate a comunicare con la Parola. Così all’apertura del Salmo, dopo aver espresso il desiderio di benedire il Signore in ogni tempo, se ne palesa subito l’irrealizzabilità: una simile benedizione è infatti impronunciabile poiché trascende qualunque sistema linguistico. Forse solo il silenzio potrebbe esprimere adeguatamente la lode a Dio. Occorre allora andare al di là del versetto (E. Levinas) e al di là degli alfabeti:
«Alef, Bet, Ghimel… Signore, non ci bastano tutti gli alfabeti a cantarti! Né le ore della notte e del giorno per dire quanto è soave il Signore» (G. Ravasi, D. M. Turoldo, «Lungo i fiumi…»).
Se da un lato, è certamente innegabile che le parole non siano sufficienti a celebrare il Signore, dall’altro, con le ventidue lettere dell’alfabeto ebraico, è possibile comporre tutte le voci, anche quelle che il cuore non può conoscere e che solo l’udito di Adonaj può ascoltare.
Il versetto 9 è inaugurato dalla lettera che ha lo stesso valore numerico, la tet, come tov, buono. Non è un caso, la parola buono è la protagonista del versetto:
«Gustate e vedete come è buono il Signore».
Tra i tanti aggettivi che troviamo nella Bibbia quello al quale non si potrebbe assolutamente rinunciare è buono, perché la bontà crea legami, predispone alla fiducia e all’amore. Il termine “buono” compare già nel primo capitolo di Genesi, quale aggettivo qualificativo dell’operato del Signore. Ulteriore prova, questa, che la bontà è il sigillo di Dio, il suo marchio di garanzia. Si è indotti a pensare che la bontà cui fa riferimento il versetto sia una benevolenza piena, tutta da assaporare e da assimilare per diventare a Sua immagine (cf. Gen 1,27). In più, se come dice Feuerbach – siamo ciò che mangiamo – seguire la raccomandazione del Salmo, nutrirsi di un simile alimento, significa gustare la Sua presenza nella vita.
Gustare è un verbo da contemplativi. Sicché, per conoscere, amare e fare propria la bontà divina, occorre assaggiarla. Il Salmo invita a percepire l’Eterno con tutti i sensi di cui si dispone, presentando una molteplicità di verbi che indicano come gustare la Sua presenza e vedere i segni della Sua grazia nella vita. Tra questi troviamo l’invito a porsi in ascolto per rallegrarsi; a magnificare ed esaltare il suo Nome; a guardare al Signore perché, ponendosi di fronte alla luce, si diventa raggianti; a gustare, affinché dalla bocca escano parole di benedizione; a custodire se stessi dal male attraverso la ricerca costante della pace e del bene.
Siamo di fronte alla spiritualità degli ‘anawim, i poveri di IHWH che non hanno nulla da difendere né da perdere coloro che si rifugiano senza ripensamenti nel Signore. Gli effetti di un tale abbandono sono la gioia e la pace, la liberazione dalla paura e dalle angosce.
Infine, quali sono la vocazione, la beatitudine e il compimento di ogni uomo?
Attingere alla sorgente di ogni bene, contemplare e assaporare la bellezza affinché, conoscendo la bontà dell’Eterno, si diffonda la grazia su tutti e su ciascuno. A tal proposito si acclamano le parole del Salmo:
«Com’è buono il Signore,
beato l’uomo che in lui si rifugia».