N.06
Novembre/Dicembre 2020

La pena che vale

Il valore della fatica nel discernimento vocazionale

Vocazione, fatica e sport: sono questi i tre termini attorno ai quali vorrei costruire un piccolo ragionamento. Le prime due parole circoscrivono il tema su cui mi è stato chiesto di riflettere, ovvero la fatica che sempre accompagna la messa a fuoco, la maturazione e la piena espressione di una vocazione esistenziale. L’ultima parola, invece, vorrebbe suggerire una possibile chiave di lettura utile, almeno nelle intenzioni, a entrare in argomento seguendo una pista forse meno battuta, ma, credo, suggestiva. Poco più che una metafora, dunque, ma pur sempre qualcosa che può metterci sulla giusta strada.

Come nasce una passione sportiva?

Se proviamo a riflettere sulla genesi delle nostre passioni sportive, ci accorgiamo di come scaturiscano da un misto di casualità, curiosità e inclinazione personale. Si può iniziare un’avventura sportiva per seguire un amico con cui ci si trova bene, per imitare un campione visto in tv o per distinguersi dai più, scegliendo uno dei cosiddetti (a torto!) sport minori. In genere, ciò che cerchiamo è qualcosa che ci appaghi, regalandoci sensazioni positive; qualcosa, in buona sostanza, che ci aiuti a sentirci realizzati. Inevitabilmente ci si muove per prove ed errori; per lo più, si inizia senza alcuna garanzia che sia proprio quello lo sport adatto a noi, sempre pronti, se il caso (e se possibile), a cambiare.

La cosa interessante, rispetto al tema che qui vorrei affrontare, è che proprio l’esperienza della fatica ci aiuta a capire se stiamo percorrendo la strada giusta. Non mi riferisco solo alla fatica che può accompagnare la scelta di quale sport praticare (la difficoltà di decidere quando l’offerta è fin troppo abbondante o quella di convincere i propri familiari rispetto a una scelta non condivisa). Parlo, soprattutto, della fatica che accompagna l’avvio di un’esperienza nuova che, per quanto appassionante, richiede sempre un tempo di apprendistato impegnativo. Ogni sport, per diventare “il nostro” sport, richiede infatti dedizione, perseveranza e impegno; ci sono gli orari da rispettare, le priorità da riconsiderare, le difficoltà da superare. Proprio la fatica o, meglio, la nostra capacità di accogliere la fatica, si rivela essere un termometro affidabile per misurare la nostra passione. Tante più difficoltà riusciamo ad affrontare senza perdere il gusto del gioco, tanto maggiore è la riprova che quella pratica fa per noi. Solo chi ama non si cura del peso che sempre accompagna ogni impresa degna di questo nome; non perché non avverta la fatica, ma perché ne riconosce il senso. E il gusto della fatica sensata è qualcosa che ci gratifica enormemente [1].

L’esempio del maratoneta

Quando parlo del rapporto tra passione e fatica finisco spesso per parlare della corsa di resistenza; questo perché la corsa è la disciplina a cui mi dedico a tempo perso, senza dubbio; ma, soprattutto, perché aiuta, come poche altre, a cogliere il gusto della fatica sensata [2].

Correre a lungo, si sa, è faticoso. Una maratona può anzi risultare una vera sofferenza quando, per condizioni avverse o per errori personali nella gestione dello sforzo, ci si ritrova a tu per tu con i propri limiti. Quando, dentro di noi, prende parola una voce che domanda chi ce lo faccia fare, insinuando il dubbio che la fatica che ci stiamo infliggendo non abbia alcun senso. Eppure, proprio il confronto con la tentazione della resa, proprio il corpo a corpo con la fatica è quanto, deliberatamente, ricerca il maratoneta. Lo fa, io credo, perché vuole conoscersi più a fondo e sa che solo nel confronto con la fatica potrà avere una misura della propria determinazione e riuscirà a cogliere l’autentico valore di quel traguardo a cui sta dando la caccia.

Ecco una delle lezioni più interessanti: per quanto possa apparire paradossale, sono le sconfitte, più che i successi, che alimentano la passione e ci confermano nella bontà della nostra “vocazione sportiva”. Se non molliamo quando le cose non vanno come avremmo voluto, se non ci arrendiamo quando falliamo e ci pare di aver sprecato tempo ed energie; se ci rialziamo quando situazioni avverse ci buttano a terra lasciandoci senza fiato, significa che stiamo lottando per qualcosa a cui teniamo davvero. E quando, resistendo alla tentazione di gettare la spugna, riusciamo a vincere la sfida con noi stessi, per quanto banale agli occhi degli altri possa sembrare il nostro risultato cronometrico, la soddisfazione del traguardo sarà proporzionata alla fatica richiesta per raggiungerlo. Del resto, solo le cose che ci siamo faticosamente sudate sanno regalarci un senso di autentico appagamento. Chi ama camminare in montagna conosce bene questa sensazione.

Un criterio per scegliere

Proviamo ora a fare un passo avanti. Ad un primo sguardo, sembrerebbe che l’individuazione della nostra vocazione sportiva faccia perno, essenzialmente, sul senso di auto-realizzazione. Capire quale sia il “mio” sport significa capire quale sia la disciplina capace di soddisfarmi maggiormente, di gratificarmi, di regalarmi emozioni positive. Qualcosa che mi piaccia davvero e la cui pratica non mi stanchi, ma sappia, al contrario, essere rigenerante, pur assorbendo un sacco di energie psico-fisiche.

Quando muoviamo il nostro sguardo dal gioco alla vocazione esistenziale – ovvero al faticoso discernimento di ciò che può farci sentire realizzati nella vita – sembra che non operiamo in modo poi tanto diverso. Il ragazzo alle prese con la scelta del proprio futuro universitario, ad esempio, inizia a vagliare le possibilità che ha dinanzi adottando lo stesso criterio. Decidere in base alle proprie passioni appare infatti il criterio migliore, anche se talvolta si finisce poi per ripiegare su un più pragmatico approccio utilitaristico, orientandosi verso quei percorsi che dovrebbero garantire un più agevole successo professionale; col rischio, ovviamente, di rimpianti e pentimenti.

Dall’io al noi

Quel primo criterio è sufficiente? Per quanto importante, credo di no e penso ne occorra anche un secondo. Ancora una volta lo sport può offrirci un’indicazione preziosa.

Se ci pensiamo, si può giocare sulla base di due logiche diverse: solo per passare il tempo, godendo di quanto di positivo quella pratica sa offrirci e fintanto che rimane un’esperienza piacevole; oppure possiamo decidere di investire maggiormente nello sport, così che esso, pur restando un’esperienza ludica, venga via via assumendo un carattere sempre più “serio”. Quando ciò accade, non ci basta giocare, vogliamo farlo al meglio delle nostre capacità e chiediamo ai nostri compagni di fare altrettanto.

In questo, gli sport di squadra risultano particolarmente illuminanti. Quando il gioco si fa “serio”, infatti, non possiamo tirarci indietro solo perché le cose non sono più divertenti e scanzonate come in una partitella in spiaggia. Se facciamo parte di un’avventura collettiva, avvertiamo la responsabilità di contribuire al meglio al risultato del gruppo. Non è più, solo, una questione personale; ad un tempo è in gioco la realizzazione dell’io e del noi. Ecco allora che discernere la propria vocazione sportiva – se, come detto, allo sport attribuiamo particolare valore – significa interrogarsi non solo su ciò che ci appassiona, ma anche su ciò che di noi può fare la differenza all’interno della squadra. Dove posso, davvero, essere importante? Con quale ruolo? A quale livello?

Dando il giusto peso a simili domande, potrei anche accorgermi che il piacere del gioco non basta a giustificare il mio desiderio d’essere parte di una determinata squadra. Magari perché io, a differenza degli altri, voglio solo svagarmi e giocare in modo disimpegnato. Cercherò allora modi e tempi diversi per soddisfare questo mio desiderio. Ancora: se penso che lo sport rappresenti una dimensione importante della mia vita, dovrò chiedermi come viverla al meglio e, per farlo, non potrò pensare solo a ciò che mi piace, ma anche a ciò che posso fare davvero bene, risultando in tal modo una risorsa preziosa per i miei compagni.

Qualcosa di analogo, io credo, accade anche in altri ambiti di vita come quando, ad esempio, cerchiamo di riflettere su quale percorso di studi sia a noi adatto e, in filigrana, quale professione possa davvero realizzarci al meglio. Anche in quel caso, seguire le proprie passioni sarà un elemento importante; ma dare ascolto a ciò che ci piace non dovrebbe restare l’unico criterio guida. Potremmo amare il basket, il canto o il latino e al tempo stesso sapere, in cuor nostro, che in quei campi non potremmo davvero fare la differenza. In altri ambiti, invece, potremmo meglio coniugare il desiderio di realizzare noi stessi con la possibilità di essere utili per gli altri. Potrei accorgermi, ad esempio, che per quanto mi piaccia la letteratura classica, per le mie capacità e per il mio carattere potrei essere più utile come medico che come insegnante e decidere che, alla fin fine, sia proprio lo studio della medicina a meritare tutto il mio impegno e la mia tenacia. Ciò non toglie, sia chiaro, ch’io possa continuare a leggere i classici latini nel tempo libero (o continuare a giocare nel campetto dietro casa o a suonare la chitarra). Anzi: quei momenti di ri-creazione mi aiuteranno a perseguire con maggior energia il mio percorso di vita, allenando la mia sensibilità ad uno sguardo più profondo sulla vita.

Concludendo

Costa fatica capire cosa ci piace davvero; costa ancor più fatica capire cosa possiamo fare di buono per gli altri, oltre che per noi stessi. E poi, una volta chiarito l’obiettivo, bisogna saper faticare non poco per realizzare il proprio progetto di vita, portando il peso che ogni sfida esigente comporta e affrontando con coraggio le cadute e i fallimenti in cui, inevitabilmente, incapperemo lungo il cammino. Non c’è però fatica più sensata di questa.

 

 

 

 

 

[1] Cf. L. Grion, Sport e felicità. Filosofia per agonisti responsabili in P. Crepaz (a cura di), All we need is sport. Agonismo sociale e felicità inclusiva, Erickson, Trento 2019,  111-130; sul valore educativo della pratica sportiva rimando anche ad un altro mio lavoro dal titolo: Le virtù nello sport in L. Grion (a cura di), L’arte dell’equilibrista. La pratica sportiva come allenamento del corpo ed edificazione del carattere, Edizioni Meudon, Trieste 2015, 29-46.

[2] Cf. L. Grion, La filosofia del running spiegata a passo di corsa, Mimesis, Milano-Udine 2019.