Il fardello della libertà
Tra i doni che il Consacrato del Signore viene a portare all’umanità compare «la libertà agli schiavi e la scarcerazione dei prigionieri» (Is 61,1). “Libertà” è una parola molto usata, e forse abusata, ai nostri giorni quasi quanto “amore”, quindi interpretata nelle chiavi più disparate e talvolta contraddittorie. In ogni caso rimane un valore altamente ambito e unanimemente riconosciuto fra i più importanti. Chi infatti alla domanda “vorresti essere libero?” risponderebbe apertamente di no? Eppure non dobbiamo pensare che essere liberi sia una cosa facile, soprattutto per chi è abituato a vivere da schiavo, e forse nemmeno lo sa. Non dimentichiamo la rana sul fondo del pozzo che, guardando il cerchio di cielo sul suo capo, credeva che quello fosse tutto l’universo possibile… Oppure il vecchio Brooks, il bibliotecario della prigione nel film Le ali della libertà, che, scarcerato dopo cinquant’anni, si impiccherà nella disperazione di non aver più un posto nel mondo dei cosiddetti liberi. Così come chi soffre di una dipendenza e inizia il proprio percorso di recupero, l’uomo liberato sperimenta momenti di vertigine e di paura di fronte alla inedita scoperta della libertà, e il richiamo del passato si fa sempre più seducente. Vivere nella libertà è una vita da funamboli. Ma questo non è un problema solo di noi moderni, già i nostri padri in Egitto dovettero confrontarsi con le fatiche della libertà rispetto alle sicurezze, seppur mescolate al pianto, della condizione servile, alla quale si volsero ripetutamente con nostalgia e rimpianto.
Origine e difficoltà della libertà
La libertà è un diritto umano, non scaturisce cioè dalla benevolenza o dalla concessione di un potere terreno ma nasce insieme a noi e pertanto non può essere revocato. È un dono connaturale che Dio ci fa nel momento stesso in cui ci crea. Eppure, benché sia un valore per cui molti sembrano essere disposti a dare la vita (se pensiamo agli eroi nazionali, ai martiri della patria e ai vari rivoluzionari di ogni tipo, ci accorgiamo che ciascuno è andato incontro alla morte in devozione al proprio ideale di libertà) la libertà talvolta ci ferisce. Vivere le relazioni umane nella libertà, in un mondo in cui la codipendenza affettiva sembra essere la norma, può apparire quasi come una bestemmia. Lo vediamo così spesso in vite di coppia ingottate dalla gelosia, dall’ossessione e dalla paura dell’abbandono. Queste non sono relazioni libere, sono agglomerati di egoismo che pretendono dall’altro un completamento esclusivista che mai può donare serenità e pace. L’immagine della mezza mela non rende l’idea dell’amore come ce lo insegna il Signore: l’altro non è la mia metà mancante, ognuno infatti è un’entità in sé perfetta, Dio non crea “mezzi uomini”. Ci si sceglie e si vive una vita insieme non per completarsi, ma per camminare insieme verso una stessa meta, aiutandosi e sostenendosi l’un l’altro. Il matrimonio non fonde le persone, le unisce – concetto molto diverso.
Proviamo a immaginare come avranno reagito gli Apostoli davanti alla frase di Gesù: «Volete andarvene anche voi?» (Gv 6,67). Alcuni si saranno di certo risentiti, se non offesi, sentiti non graditi, non desiderati o poco importanti per il Maestro. In pochi avranno compreso che la libertà di restare o di andarsene è quanto di più bello si possa offrire a una persona amata. Non è un castigo né una minaccia, è un dono d’amore vero e profondo. La libertà sgorga dal cuore stesso di Dio su noi uomini e donne, senza prendere mai ostaggi. Nella comunione con Lui si resta se lo si desidera, si esce se si preferisce andare altrove. In entrambi i casi, Dio rimane fedele. Sfogliamo qualunque pagina della Scrittura e ne avremo conferma. È Dio che amandoci in maniera totale ci ha dotato di questa facoltà tanto grande quanto scomoda, così che alla prima occasione proviamo a disfarcene. La libertà pesa perché ci obbliga alla responsabilità e all’assunzione di rischi, perché deve tener presente la variable dell’errore. E l’errore non è il disastro totale: l’errore è l’opportunità di imparare e di crescere. Dio ha contemplato l’errore prima di consegnarci il Mondo.
Il Magis
Perdere la libertà, rendendoci schiavi di persone, cose, situazioni o pensieri fissi è più facile, più familiare del dover scegliere ogni volta e ogni giorno quale sia la cosa migliore da fare. Ma cos’è questo “meglio” di cui parla anche Ignazio di Loyola? Ne esistono, a mio avviso, vari livelli.
“Il meglio per me”, dettato dall’egoismo, è solo un’altra forma di rinuncia alla propria libertà per assoggettarsi ai capricci insaziabili dell’ego. In quest’ottica gli altri e le cose non sono che oggetti pensati per soddisfare i miei bisogni, pedine che posso muovere a mio piacimento sullo scacchiere della vita. Me al centro del mio cuore (proviamo a cantare il famoso canto sostituendo “Te” con “me” e avremo un preciso ritratto della vita ripiegata su se stessa), e gli altri sul perimetro esterno: li attiro dentro se mi servono, li respingo fuori, quando ho finito.
Ma c’è anche un “meglio per me” che nasce da un sano e dovuto amor proprio, che dovremmo perseguire sempre e con perseveranza. È ciò che ci insegna che va bene dire no, tanto quanto sì; che va bene porre agli altri dei paletti invalicabili per far sì che non ci invadano e devastino; che va bene non tentare di compiacere gli altri ad ogni costo, che va bene fare ciò che è bene per me (andiamo a cercare nel Vangelo quante volte Gesù si è rifiutato di accondiscendere a una richiesta!). Questo “meglio” si differenzia dal primo perché, contrariamente all’altro, è pronto a correre rischi e a perdere vantaggi e privilegi. Il rispetto di sé non è egoismo, ma il presupposto per il rispetto verso gli altri; dice infatti la Scrittura: “amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18).
Il terzo livello è “il meglio per Dio”, che risponde all’esigenza di compiere in questo oggi ciò che la vita/Dio richiede da me. Significa percepire la vita come un servizio all’umanità e riconoscere che «nessuno vive per se stesso, né muore per se stesso» (Rm 14,7). È importante arrivare a capire che siamo mandati nel mondo per svolgere una missione che avrà il suo impatto sugli altri e che se non lo facciamo per paura, per eccesso di prudenza o per egoismo, avremo mandato in fumo il sogno di Dio. Martin Buber nella sua famosa conferenza divenuta poi un classico, Il cammino dell’uomo, alla luce degli insegnamenti hassidici, ha affermato l’importanza della consapevolezza dell’unicità di ogni vita umana. Dio non ci crea in serie: uno come me, con i miei pregi e i miei difetti, non c’è mai stato prima né mai ci sarà dopo di me. E la mia vocazione è quella di apportare nel mondo qualcosa di nuovo, non quella di ripetere quanto fatto da qualcun altro. Anche chi si consacra alla vita religiosa in un ordine o in una congregazione non è chiamato a imitare pedissequamente quanto fatto dal proprio fondatore ma ereditarne lo spirito e tradurlo in maniera creativa e personale nel suo tempo e nel suo mondo. Per riprendere le parole di rabbi Zuscia, citate da Buber: «quando sarò al cospetto di Dio non mi sarà chiesto perché non sono stato Mosè, ma perché non sono stato Zuscia». Lo stesso vale oggi per i figli di don Bosco o di san Francesco…
Diventa così importante interrogarsi su cosa oggi la vita richieda da me e pregare perché Dio ci conceda l’energia necessaria per compiere ciò che ci viene posto davanti agli occhi. Le parole più dure del Vangelo sono rivolte a quel servo che per paura aveva sotterrato l’unica moneta affidatagli dal suo padrone, restituendogliela tale e quale, senza che avesse prodotto alcun vantagio. Così saremmo noi se ripresentassimo a Dio la stessa vita che abbiamo ricevuto, senza averla mai spesa, perché ci siamo preoccupati di salvagiardare solo noi stessi, la nostra salute e i nostri unici interessi. Uscire dall’ossessione di sé è un’alta forma di libertà ed è possibile soltanto quando abbiamo in Dio la radice della nostra sicurezza. Con Lui come roccia il nostro edificio può crescere saldo.
Una sana distanza fra noi e gli altri è la condizione perché ciascuno cresca e maturi nella propria libertà. Uno dei principi cardine del programma di Al-anon, per familiari e amici di alcolisti è infatti: io sono responsabile per me, l’altro per se stesso. Può stridere ai nostri orecchi abituati alla responsabilità verso gli altri, all’obbligo morale di aiutare chi è in difficoltà (negli anni Settanta in Francia, in alcuni circoli teologici di avanguardia era in voga lo slogan “non senza mio fratello”), ma non lo è nell’ottica dell’antico proverbio “nessuno dà ciò che non possiede”. Possiamo diventare più umili e più fiduciosi nella potenza di Dio se prendiamo coscienza dei nostri limiti, facendo ciò che possiamo e lasciando a Dio i risultati. Farsi carico dei problemi altrui, quando ancora annaspiamo nella palude dei nostri, non solo non aiuta ma diventa molto pericoloso.
Scopriamo allora che la libertà, gratuitamente ricevuta, è una grande responsabilità ed è maggiore quanto più stretto attorno a noi è il nostro recinto, quanto più cerchiamo di vivere svincolati dalla tirannia dell’ego e quanto più ci apriamo al servizio del mondo, che è di Dio. Non siamo più liberi se facciamo sempre e solo ciò che vogliamo ma lo diventiamo quando sciogliamo il cuore da ogni laccio di idolatria e ci volgiamo al Dio vero, di cui uno dei nomi è proprio libertà.