Verso una città in cui abitare (Sal 107,7)
Scrive André Chouraqui del Salterio: «Nasciamo con questo libro nelle viscere. Un librettino: centocinquanta poesie, centocinquanta gradini eretti tra la morte e la vita; centocinquanta specchi delle nostre rivolte e delle nostre fedeltà, delle nostre agonie e delle nostre resurrezioni. Più che un libro, un essere vivente che parla – che ti parla – che soffre, che geme e che muore, che risorge e canta, sul liminare dell’eternità – e ti prende, e trascina te e i secoli dei secoli, dall’inizio alla fine…».
Il Salmo 107 (106) è un grandioso inno di ringraziamento, con il quale si apre l’ultimo dei cinque libri dei Tehillim/Salmi, il quinto grado delle ascensioni a Dio. Inizia con il versetto: «Rendete grazie al Signore perché è buono (tov), perché il suo amore (ḥesed) è per sempre».
La lode viene innalzata in primo luogo da coloro che sono stati riscattati dalle mani dell’oppressore e radunati da terre diverse. Essi vagavano nel deserto, assetati e affamati, e la loro vita era in pericolo. Allora nell’angoscia gridarono al Signore, ed Egli li liberò, guidandoli per strade sicure fino a una città nella quale poter trovare acqua, cibo, riposo – un luogo dove poter abitare. Allora prorompe nella gioia un ringraziamento perché il Signore è fedele e mostra la sua fedeltà facendo uscire dalle tenebre e liberando coloro che sono oppressi.
Ci troviamo di fronte a un capolavoro della poesia religiosa di tutti i tempi, molto amato anche dalla liturgia ebraica e cristiana. Il salmo riconosce la raḥamim/misericordia di cui ogni fedele ha fatto e fa esperienza nella propria vita e dà espressione alla riconoscenza e al ringraziamento che ne derivano. Raḥamim è una parola interessante: intanto perché conosce solo il plurale, la misericordia non è mai isolata e, in secondo luogo, perché deriva da raḥum, utero: si tratta dell’amore materno, viscerale, del Signore per i suoi figli.
Al ringraziamento del viaggiatore smarrito, che finalmente arriva nella città abitata, fanno seguito quelli del prigioniero che viene liberato, del malato che viene guarito e del marinaio che giunge in porto. Tutte situazioni concrete in cui ci si può trovare che hanno un profondo significato come metafore delle diverse difficoltà che nelle loro esistenze uomini e donne devono affrontare.
Chi dunque, riflettendo sulla propria vita, può non riconoscere di essere stato salvato in diverse occasioni? E come può questo riconoscimento non suscitare sentimenti di gratitudine e non prorompere in un ringraziamento? A volte c’è chi preferisce abbandonarsi invece all’amarezza per le occasioni in cui la salvezza non è giunta, o sembra non essere giunta, o non è giunta nel modo in cui la aspettavamo.
La città costituisce il punto di arrivo: di quale città si tratta? Sia i commentatori ebrei che quelli cristiani pensano a Yerushalayim/Gerusalemme: la città terrena e la città celeste, il luogo nel quale i Cieli e la terra si incontrano. Come scrive il profeta Yeshayahu/Isaia, alla fine dei giorni tutti i popoli affluiranno verso di lei dicendo: «“Venite, saliamo sul monte del Signore, al Tempio del Dio di Yaaqov/Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”. Poiché da Siyyon/Sion uscirà la Torah e da Yerushalayim/Gerusalemme la Parola del Signore» (Is 2,3).
Imparare le sue vie e percorrere i suoi sentieri avrà per risultato, come è detto nel versetto successivo, che i popoli trasformeranno le spade in aratri e le lance in falci. Camminando alla luce del Signore, non ci sarà più bisogno di imparare l’arte della guerra.
È verso questo Shalom universale, la pace piena e completa, che siamo in cammino.