Una cosa nuova (Is 42,19)
Dalle prime pagine della Genesi scopriamo che l’essere umano fa parte di un groviglio di relazioni, con i suoi simili, con Dio, con gli esseri viventi e la natura inanimato. Ognuna di queste relazioni implica, nel bene e nel male l’altra. Fanno parte di un’”ecologia integrale”.
Lontano da una terra promessa, raggiunta, abitata, ma ormai votata alla distruzione, Israele si chiede “che cosa ho fatto per meritare questo?”. Cercando risposte, percorre a ritroso su per giù mille anni di storia fino ad arrivare all’evento fondante della propria esistenza, l’esodo.
Di quell’evento ciò che più si è impresso nell’immaginario e rimasto nella memoria è l’attraversamento del Mar Rosso. «Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti», dice Isaia (43,16). Ricordiamo come Mosè, seguendo istruzioni precise, «stese la mano sul mare. E il Signore durante tutta la notte risospinse il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto» (Es 14,21). Su quella terra asciutta Israele entrò nel mare e uscì dall’Egitto. «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Os 11,1; Mt 2,15).
Con il passaggio del Mar Rosso assistiamo alla vera e propria nascita di Israele. Nascita (molto vicina ad un parto) che richiama la creazione del mondo. Infatti, se il secondo giorno Dio separò le acque, creandone in mezzo una distesa, il terzo giorno raccolse le acque di sotto in un unico luogo cosicché potesse apparire l’asciutto. Lo stesso “asciutto” sul quale, fuori dal tempo mitico, Israele s’era incamminato verso la Terra Promessa.
La creazione, quindi, è convogliata nella liberazione di Israele e nella generazione di un popolo speciale. Liberazione e creazione s’intrecciano. Tuttavia l’interesse del passato da parte di Israele è motivato dalla preoccupazione per il futuro. L’esodo potrebbe ripetersi? Non questa volta dall’Egitto bensì dalla Babilonia dove il popolo è stato deportato? È una domanda fondamentale, che anche noi facciamo: Dio può operare la stessa liberazione di ieri nelle circostanze radicalmente diverse di oggi? Scopo della Scrittura (e del nostro commentarla) è rispondere in modo affermativo a questa domanda.
Il secondo Isaia, (qui al capitolo 43,16) richiama il Dio che aprendo “una strada in mezzo al mare e un sentiero fra le acque potenti” creò, formò, riscattò e chiamò per nome Israele. E la creazione di Israele rimanda, come abbiamo visto, al principio quando Dio creò i cieli e la terra. Eppure, dice il profeta, non bisogna fissarsi sulle cose passate né considerare “le cose antiche” perché, dice il Signore, «Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa» (43,18s.). Dio sta per fare una cosa nuova ma non così nuova che non la possiamo riconoscere. La possiamo riconoscere perché Isaia riprende le immagini della salvezza creativa e della creazione salvifica e le inverte!
Non sarà più la terra asciutta a formare un sentiero in mezzo alle acque, ma le acque a rendere feconde la terra asciutta. Dio sta per fare una cosa simile (se no, non la riconosceremmo), ma diversa (se no, non sarebbe nuova). Se le acque che si separavano per fare passare Israele sulla terra asciutta erano strumenti di morte (in quanto sommersero carri e cavalieri), le acque che Dio farà sorgere nel deserto saranno fonte di vita destinate a dissetare il popolo diletto e far glorificare Dio dalle bestie del campo (cf. 43,20).
Sono parole pregnanti alla luce delle recenti catastrofi. Tuttora c’è chi ha disperatamente bisogno di trovare della terra asciutta in mezzo alle acque torrenziali, da una parte, e acque feconde in zone desertificate, dall’altra. Il creato stesso geme in attesa del proprio esodo “dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli e figlie di Dio” (cf. Rm 8,21). In risposta al suo grido il profeta annuncia “Io sto per fare una cosa nuova”. Le Scritture ci aiutano a riconoscerla, quando essa germoglia, in modo che fin da ora viviamo nella speranza.