L’esilio come patria
La dinamica vocazionale e la formazione alla povertà a partire dalla proposta di Maria Zambrano
Maria Zambrano è ritenuta una delle maggiori protagoniste della storia della filosofia del ‘900. È nata nel 1904 in Andalusia ed è morta a Madrid nel 1991. Filosofa spagnola, espulsa dalla sua patria a causa della guerra civile e della dittatura franchista, trascorse da esule quarantacinque anni oltreoceano, a Cuba, in Messico, a Puerto Rico, e partire dalla rilettura della sua esperienza personale, creò “il pensiero dell’esilio”. La situazione di estraneazione le apparve come la caratteristica comune di ogni essere umano. Si tratta come di una rivelazione per la Zambrano, che nasce dall’esperienza fatta nella propria carne, sentita in maniera viscerale. «Era come sentirsi ancora una volta sul punto di nascere» – annota la filosofa e letterata spagnola – perché chi non era morto, nella tragedia degli eventi, scopriva di doversi destare e rinascere continuamente. Nella solitudine, priva di legami affettivi, senza protezione, l’esiliato è uno sconosciuto per gli altri, ma anche per se stesso, senza più punti di riferimento e di sostegno. L’esiliato è visto dalla Zambrano – secondo la rilettura che ne fa Armando Savignano introducendo l’edizione italiana delle sue opere – come esempio estremo di decifrazione del proprio essere in vista di una più autentica rinascita; è una manifestazione della condizione umana originaria, della “prima patria” dove la nudità dell’essere si espone senza vincoli ne fingimenti. Queste categorie entrano in perfetto dialogo con la sapienza dell’Antico Testamento simboleggiata dall’antico popolo dell’Alleanza, chiamato da Dio ad essere “perennemente in esilio”; liberato dalla schiavitù dell’Egitto per mano di Mosè e di Aronne, per quarant’anni fa l’esperienza di un cammino di liberazione. Il popolo doveva liberarsi dalla voracità di possedere la terra all’accoglienza di riceverla come dono, e tutto questo con i tempi e i modi di Dio. Ecco l’identità senza possesso del popolo di Israele, caratteristica peculiare della relazione tra l’uomo e Dio. Da Dio si può solo ricevere in dono e colui che entra in relazione vera con lui, può solo predisporre il cuore ad accogliere senza pretesa alcuna. L’espulsione dal giardino dell’Eden fu il primo vero esilio dell’umanità (Gen 3, 23-24), per non parlare dell’esilio amaro del popolo di Israele nella terra di schiavitù. Abramo stesso visse nella terra promessa come straniero (Gen 23, 4; Eb 11, 1-10). Potremmo continuare a presentare quasi tutti i libri della Sacra Scrittura, dall’Antico al Nuovo Testamento, evidenziano i vari esili provocati dall’uomo o da Dio stesso. Il popolo per restare vivo nel suo rapporto con il Signore dei viventi, è chiamato sempre ad uscire dalla sua patria e a fare esperienza di esilio, di attesa, di abitazione in una terra di passaggio. Ecco perché per Maria Zambrano l’esilio è come la “prima patria” dell’uomo, la sua più vera e ancestrale condizione antropologica che lo connota come essenzialmente povero e in cammino verso un’altra patria. Nel cambio epocale che stiamo vivendo, credo sia interessante recuperare tale categoria e applicarla anche alla formazione vocazionale dei futuri presbiteri. Nella terra di mezzo della storia, i discepoli di Gesù sono chiamati ad annunciare che il “regno di Dio è vicino”: non che stia arrivando ne che abbia già avuto i tratti della pienezza, ma che “è vicino” (Mt 1,14-20). La vicinanza di una realtà indica la sua prossimità ma ne rivela anche l’assenza, la distanza che è data dallo sguardo che la intravede senza possederla. Il discepolo è chiamato ad abitare questa povertà poiché, seguendo Gesù in cammino, non avrà mai “un luogo dove posare il capo” (Mt 8,20). Ecco la prima povertà richiesta per seguire Gesù: fare la sua stessa esperienza di esilio, abitando la promessa di un tempo che è già compiuto ma che nello stesso tempo attende il proprio compimento. Comporta abitare l’annuncio di una logica scomoda e non compresa, che crea persecuzione e anche morte. Questo significherà per il discepolo di Gesù adottare stili di vita e chiavi di lettura storici essenziali ed altamente eloquenti come la condivisione delle povertà dell’umanità, la prossimità alla fatica degli uomini e l’annuncio coraggioso della vicinanza del Regno. Significherà la rinuncia a privilegi e a logiche mondane di carriera e di adolescenziali instabilità pastorali che fanno sognare il ritorno ai propri affetti familiari come “meta sicura” di un viaggio che forse non è mai iniziato. L’esiliato ama i suoi compagni di cammino e condivide con essi la fatica di ogni giorno, allo stesso modo il discepolo del Signore è chiamato ad amare comunità concrete, volti e storie che gli daranno l’alfabeto storico per parlare la lingua umana di Dio altrimenti incomprensibile.
L’esilio per la Zambrano fa uscire l’uomo dal suo io e lo immette in una condizione di “perenne rinascita”, ecco perché è necessario sentirsi pellegrini e in cammino verso la Patria, annunciatori di una Parola scomoda perché di un altro mondo. “L’esiliato, pur avendo compiuto azioni eroiche in una storia in cui si vide compromesso per vocazione o per occasione, non diventa mai un eroe” così si esprime Marìa Zambrano. La stessa cosa la possiamo dire dei martiri, resi “eroi” solo a partire dalla loro arrendevolezza alla violenza e all’odio mentre però “guardavano il cielo aperto”: orizzonte vero che da senso ad ogni fatica (cfr. l’esperienza del primo martire Stefano in At 7,56 che prima di morire ripete le stesse parole del Maestro di Nazareth). L’esiliato è colui che “abbandona la terra ferma” così come il discepolo di Gesù, chiamato ad allontanarsi dalla riva per inoltrarsi nel mare aperto e poter così pescare abbondantemente (Lc 5,1-11). Il discepolo, seguendo l’esempio e la parola di Gesù, scoprirà di essere realmente povero, sempre in cammino, con una tunica soltanto, inzuppata di pioggia e asciugata sempre sulla stessa sua pelle. Nella misura in cui farà esperienza di non avere ne argento ne oro da dare o promettere, farà l’esperienza del Figlio che da ricco che era si fece povero per arricchirci con la sua povertà: ecco l’esperienza della resurrezione ed ecco anche la gestazione di un mondo nuovo. Per concludere, possiamo dire che sono essenzialmente tre i luoghi dell’esilio della Zambrano che possiamo applicare alla dinamica vocazionale di chi si prepara ad essere presbitero: sentirsi in cammino, non proprietari di niente, neanche del proprio desiderio vocazionale da consegnare al discernimento storico della chiesa e delle comunità ecclesiali; sentirsi parte di un popolo anch’esso in cammino: faticare con loro condividendo tutto, ansie e paure, dolori e fatiche, gioie e soddisfazioni (cfr. Gaudium et Spes 1); infine significa “guardare la patria”, fissare lo sguardo su di essa in modo tale che chiunque guarderà il discepolo, mirando la direzione del suo sguardo, possa trovare la giusta direzione.