Iran e rappresentazione
Asghar Farhadi torna in patria e ritrova la forma perduta con “Un eroe”: bugie e verità, ipocrisie e apparenze in epoca social
Tre anni dopo la non felicissima parentesi europea di Tutti lo sanno, l’iraniano Asghar Farhadi torna in patria per realizzare Un eroe.
Presentato in concorso al Festival di Cannes 2021 (dove ha ottenuto il Grand Prix Speciale della Giuria), il film segue la vicenda di Rahim (Amir Jadidi), giovane uomo incarcerato per debiti.
In un giorno di permesso prova a sfruttare il colpo di fortuna occorso alla fidanzata, che ha trovato una borsa piena d’oro. Potrebbe essere il modo per convincere il creditore, l’ex cognato Braham (Mohsen Tanabandeh), a cancellare la denuncia. Ma poi ci ripensa e decide di riconsegnare la borsa a chi l’aveva perduta. È solo l’inizio di una lunga serie di peripezie.
Ritrovando il tocco felice di un cinema che segue persone umili e ordinarie chiamate a fare i conti con una situazione straordinaria, Farhadi – due volte premio Oscar per Una separazione (2011) e Il cliente (2016), questa volta rimasto fuori dalla cinquina per il miglior film internazionale – ambienta la storia a Shiraz (“città verso la quale proviamo nostalgia per il nostro passato”) e costruisce un intricato dedalo di azioni e reazioni che porteranno dapprima il protagonista ad essere considerato – appunto – un eroe, salvo poi essere stritolato dal bailamme social(e) e mediatico, che lo trasforma in anti-eroe.
Un gesto ammirevole (riconsegnare quella borsa alla legittima proprietaria, ammesso poi lo fosse davvero…) diventa dunque molla di un meccanismo paradossale, emblema di una società che per nascondere le proprie magagne (alcuni casi di suicidio all’interno della prigione) cerca in tutti i modi di cavalcare l’onda emotiva di un “semplice” atto d’onestà.
La potenza del film di Farhadi è nascosta però nel consueto rigore, di messa in scena e scrittura, che assicura al racconto la possibilità di ampliare i propri orizzonti, ragionando in maniera profonda sulle idiosincrasie della rappresentazione: contrapponendo il debitore e il creditore, il cineasta non è interessato a giudicare, piuttosto a creare intorno ad entrambi una rete di rapporti affettivi, umani, in grado di tenere sempre bilanciato l’aspetto emotivo della questione.
Alla resa dei conti, il dibattersi di Rahim finisce per rivelarsi esercizio inutile, le buone intenzioni che lo muovono non bastano a districarsi nelle maglie di un regime (la metafora della prigione, dalla quale esce e nella quale ritorna, con quella camera fissa nel finale che è poesia pura) ossessionato dalle apparenze – c’è spazio anche per una profonda riflessione sulla figura femminile – e stretto nel giogo di una contrattazione infinita.
Schermi paralleli: Giocato sui temi della giustizia, del carcere e della colpa è il dramma politico-esistenziale “Il collezionista di carte” (“The Card Counter”, 2021) di Paul Schrader, in concorso a Venezia78. Viaggio nelle pieghe del Male che apre però a orizzonti di riscatto e (forse) redenzione. Per un pubblico adulto (Sergio Perugini).