Crescere o diminuire?
Pensarsi insieme: non gonfiarsi ma seguire
«La crescita? Va liberata dal problema dei numeri, che sono importanti, ma anche una tentazione! Se siamo quattro gatti facciamo poco, certamente, e molte volte questo ci condiziona, ma dobbiamo affrancarci dalle cifre e ricordarci che c’è un valore in sé nell’essere insieme. In fondo, nostro Signore ha indicato numeri bassi con quei “due o tre riuniti nel Suo nome” considerati come sufficienti alla sua presenza! Ed è presente quindi anche quando siamo pochi e nessuna realtà è considerata insignificante perché “piccola”». Sorride il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, in una lunga chiacchierata che inizia dal legame tra crescita e missione e attraversa molti dei temi della Chiesa di oggi. Nel proseguire il discorso sull’assottigliamento dei cattolici praticanti e l’apparente dominio dei numeri, parte da una riflessione di un arcivescovo emerito: «Leggevo pochi giorni fa un’intervista al cardinale Scola che cercava di indagare le radici del problema degli abusi e la crisi della pratica religiosa [1]. Ebbene, Scola a un certo punto dice che per anni ci siamo illusi che andasse tutto bene perché avevamo le parrocchie piene e così abbiamo perso tante occasioni. Come se il numero significasse in sé, come se i gruppi ridotti di oggi potessero farci credere che non valga la pena e togliere valore, importanza, bellezza a quel che viviamo». Serve un modo per ricontestualizzare il “problema numero” coniugandolo con la crescita autentica e la missione. «Il numero va sempre visto in considerazione di un valore che lo supera», spiega il cardinale, «la crescita non è mai geometrica, eppure noi abbiamo continuamente la tentazione di definirci dai sondaggi, dalla verifica. Papa Francesco direbbe ‘dallo spazio’. Ecco, noi insistiamo a misurarci ‘nello spazio’, con tutte le conseguenze del calcolo, ovvero tanto abbattersi quanto esaltarsi. Invece è il tempo che è fondamentale. La crescita è qualcosa che riguarda il presente, ma soprattutto il dopo. Siamo sempre un seme che deve germogliare, ma occorre gettarlo nel terreno quando è solo un seme! Non si elude lo spazio, ma lo si attraversa». Attraversare, un verbo che riesce a descrivere in uno stesso concetto due dimensioni diverse: la superficie da percorrere e il tempo per percorrerla. «Il fatto è che la crescita è sempre qualcosa che riguarda il tempo» ribadisce l’arcivescovo, «Quando si pianta se cerchi subito il frutto puoi pensare che non sia servito a nulla, ma credi, pensi, speri che darà frutto. Questa consapevolezza libera dall’angustia dello spazio, dalla bulimia di prestazione, aiuta a guardare con serenità. Ognuno di noi è un seme che dà frutto e così la comunità cresce. Smette di crescere quando prevale la logica per cui si vive per sé stessi». Una comunità è qualcosa di vivo, che ha bisogno di tempo, maturazione, fecondità, unità, impegno: «La crescita ce la mette Cristo, ma noi ce la dobbiamo mettere tutta in quel seme che ci ha affidato».
Se pensiamo l’immagine della Chiesa come seme che cresce, non possiamo non chiederci con cosa vada annaffiata, nutrita, accudita. «Anzitutto è sempre la Parola di Dio che rende fertile la Chiesa, innaffiata dallo Spirito di amore», chiarisce il cardinale. «È il Vangelo che la fa crescere, che la rende capace di voler bene. Il Vangelo fa sentire amati e ci libera dalle tentazioni della vita, ci comunica quella forza per cui non siamo soltanto in difesa. Mettere la Parola di Dio al centro ci permette di ritrovare la nostra identità e la nostra forza. E poi si innaffia anche con l’incontro con gli altri, che è la chiave per capire la nostra vocazione. Quando ho iniziato il mio cammino, da adolescente, sono stati due dettagli a colpirmi: il primo è negli Atti degli Apostoli, con la descrizione della prima comunità, della comunione, degli amici, del pensarsi insieme; l’altro brano è nel Vangelo di Matteo, 9,35 e i primi versetti del 10, dove la chiave è la compassione. Gesù vede le folle, e vede che erano stanchi e sfiniti: Gesù visto questo chiamò e mandò. Se non c’è compassione non vedi la povertà, la stanchezza. È la compassione che fa sì che valga la pena gettare tanto il seme». E se poi ci fosse qualcosa da potare? «Da potare è il vivere per sé stessi. Noi non siamo esenti dalle tentazioni umane, dalla seduzione dell’individualismo, dall’accontentarci di un po’ di terreno comune e non di pensarci insieme. Si rischia di diventare cappellani dell’individualismo, cultori del fitness del benessere individuale. Invece dobbiamo sempre potare questi rami solitari che succhiano linfa: non si pota per punizione, ma per far crescere, ed è sempre segno di speranza. La potatura fa male all’orgoglio, alla conservazione, per questo aiutano le correzioni, che ci servono perché c’è poca fraternità, poca amicizia, ci diciamo troppo poco le cose. Certe parole possono ferire nell’orgoglio, ma restituiscono il cuore».
Ma non sarà anche, meditando il Vangelo di Giovanni, che sia necessario “diminuire” per far crescere il messaggio di Gesù? Il cardinale accoglie la provocazione: «È sempre un passaggio necessario, perché noi indichiamo Lui. Quando lo dimentichiamo, e andiamo in una dimensione di protagonismo, di riduzione al nostro piccolo, è pericoloso: la tentazione è parlare di noi e non essere, invece, Giovanni Battista che si fa umile e indica solo Gesù. Quando un certo protagonismo cresce in noi, di fatto diminuisce Cristo». Zuppi mette in guardia anche su un altro aspetto delicato, che ha a che fare con la mediocrità: «La Chiesa ha paura di crescere perché ha paura di prendersi responsabilità. E crescere vuol dire pensarsi non mediocri, mentre molte volte ci accontentiamo della mediocrità, che è un’altra cosa. Quando le cose si confondono si creano cortocircuiti: non sappiamo più crescere e fare cose grandi, quando invece il Signore ha fatto cose grandi in noi». Ritornare ad essere grandi senza aver paura, con lo sguardo però sempre alla finitezza: «Se non sai crescere, non sai diminuire. Noi dobbiamo crescere e, allo stesso tempo, anche saper diminuire, accettare che non siamo grandi come pensiamo, accettare la nostra debolezza, vedere quello che siamo. Diminuire vuol dire cambiare i criteri della propria considerazione».
Cambiare vuol dire anche riformare e, nell’avviare un processo di questo tipo, bisogna ben capirsi sui termini, ma Zuppi ha le idee chiare: «Riformarsi significa anzitutto convertirsi: non c’è storia. Non a caso tutte le riforme della Chiesa sono state spirituali. Dopodiché, si può anche fare la riforma strutturale, ma non cambia niente. La vera riforma è soprattutto di cuore, scegliere il Vangelo, viverlo sul serio. Liberi dal pensiero che la forma, in quanto tale, garantisca anche il contenuto: il vero contenuto è credere nel Signore, seguirlo, accorgersi della sofferenza. E pensarsi come Chiesa, non come club. Pensarsi insieme». Un rinnovamento prima di tutto interiore quindi, le cui radici affondano nel terreno fertile della realtà: «Le riforme in laboratorio, per quanto ultramoderno, non funzionano. Non cerchiamo formule astratte, ma di essere comunione. Questo ci porta a trovare tutte le riforme necessarie perché la Chiesa sia sé stessa e risponda con compassione alle sfide cui deve dare risposta. La riflessione senza la vita è pericolosa: il rischio è produrre piani sterili, come quei generali sempre sconfitti, ma orgogliosi e compiaciuti».
La crescita avviene perché lo Spirito soffia e, spesso, si impara a riconoscerlo nello sguardo, nell’incontro. «Ho tre immagini in mente. La prima volta in cui ho compreso la presenza dello Spirito è stato vedendo mio padre che pregava, perché ne coglievo l’intensità, il raccoglimento. Questa è stata la prima immagine di una dimensione spirituale nella vita», ricorda il cardinale, «Poi, con la comunità di Sant’Egidio, perché ho riconosciuto la presenza viva del Signore in quelle prime riunioni in cui si capiva insieme, ci si ascoltava, nelle preghiere, nei silenzi, nella bellezza della celebrazione liturgica. La terza è l’incontro coi poveri, i bambini, gli anziani. Di fronte alla sofferenza si apre una grande dimensione spirituale che chiede di fare spazio allo Spirito, all’amore di Dio, per poter offrire una risposta che sia autentica. Ecco, nel sentire la chiamata del Signore si cresce: in una crescita che non è gonfiarsi stando fermi, ma seguire per capire e capire seguendo».
[1] «La Chiesa dopo la seconda guerra mondiale riempiva le parrocchie di gente con le varie associazioni che pullulavano di impegno e fervore, senza che ci si chiedesse il perché e il per chi di questo stesso impegno, perché si andava massicciamente a Messa, perché ci si dedicava al volontariato. Prevaleva la convenzione sulla convinzione» (https://www.repubblica.it/esteri/2022/02/09/news/papa_ratzinger_benedetto_abusi_intervista_cardinale_angelo_scola-337152461/)