Dio non fa preferenza di persone
Autorità e obbedienza evangeliche
Con i sacrifici s’immola la carne altrui,
con l’obbedienza si sacrifica la volontà propria
San Gregorio
È difficile separare l’esercizio dell’autorità dall’esercizio dell’obbedienza, se non addirittura impossibile. Autorità e obbedienza sono due facce dello stesso servizio, due espressioni della stessa chiamata. Lo ha ben capito Pietro, nella sua esperienza con Cornelio; lui, che è stato scelto per pascere il gregge del Signore, ha imparato quanta sapienza e discernimento c’è nel gregge e nelle “pecore sparse” che ancora non appartengono all’ovile e che forse non vi apparterranno mai.
Pietro che ha sperimentato l’autenticità dello slancio e del desiderio di consegnare la sua vita al Signore e si ritrova a volerla proteggere dalle chiacchiere di portinai davanti al fuoco. Pietro che con coraggio ha detto al Signore: non ti accadrà mai, sicuro che ci sarebbe stata una via alternativa alla croce, si ritrova per tre volte interrogato dal Signore Gesù sull’autenticità del suo amore. Pietro, la Pietra su cui verrà edificata la Chiesa, impara ad obbedire, impara a scarificare la sua volontà, per assumere quella di un altro. Perché è vero, profondamente vero, quello che molti anni fa mi ha detto una bambina davanti all’immagine dell’Agnello descritto nell’Apocalisse: “Ho capito! Gesù è un pastore perché prima è stato un agnello!” Solo chi ha sperimentato e continua a sperimentare l’essere agnello, può con autorevolezza e credibilità, fare il pastore.
Autorità, obbedienza e libertà sono dimensioni inscindibili. Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (Atti 5,29), diranno Pietro e i suoi compagni davanti al sinedrio e al sommo sacerdote; solo nella libertà si può obbedire, solo nell’obbedienza alla Parola del Signore è possibile esercitare il servizio dell’autorità. La sottomissione a Dio consente la ricerca delle tracce dell’azione dello Spirito in attivo nella vita di ogni donna e uomo che, umilmente, si mettono in ascolto. Questa sapienza autorevole, non è data una volta per sempre e nemmeno è frutto della somma di molte esperienze, è piuttosto un esercizio di vita, la si impara ponendosi costantemente in ascolto dei fatti, delle persone, di se stessi, di ogni mediazione della voce di Dio dentro la storia e nella particolarità delle nostre vite. Gli Atti degli Apostoli, descrivono questo processo sapienziale e pasquale di svuotamento di sé; il cammino di umiltà intrapreso da Pietro lo ha condotto a rivelare il volto carico di umanità del ministero dell’autorità che era stato chiamato ad esercitare.
Dagli atti degli Apostoli (At 10, 1-48)
Vi era a Cesarèa un uomo di nome Cornelio, centurione della coorte detta Italica. Era religioso e timorato di Dio con tutta la sua famiglia; faceva molte elemosine al popolo e pregava sempre Dio. Un giorno, verso le tre del pomeriggio, vide chiaramente in visione un angelo di Dio venirgli incontro e chiamarlo: «Cornelio!». Egli lo guardò e preso da timore disse: «Che c’è, Signore?». Gli rispose: «Le tue preghiere e le tue elemosine sono salite dinanzi a Dio ed egli si è ricordato di te. Ora manda degli uomini a Giaffa e fa’ venire un certo Simone, detto Pietro. Egli è ospite presso un tale Simone, conciatore di pelli, che abita vicino al mare».
Cornelio è un uomo di governo, un centurione che ha subalterni che gli obbediscono, un uomo che esercita autorità. Come tutti noi. Ciascuno, anche se in modo diverso, ha un potere ovvero delle possibilità che è chiamato a esercitare, delle decisioni da prendere che non coinvolgono solo e sempre se stessi, ma anche altri. Tutti noi esercitiamo il potere di scegliere, di orientarci, tutti noi ci muoviamo in un crocevia di possibilità da valutare prima di concretizzarle in azioni. Avere possibilità significa esercitare un’autorità, un servizio per la crescita, che ha come scopo accompagnare alla pienezza della vita le persone con le quali entriamo in relazione e che ci sono affidate. Un uomo, Cornelio, che vive il suo servizio in relazione al Signore, trova il tempo per pregare.
Quando l’angelo che gli parlava se ne fu andato, Cornelio chiamò due dei suoi servitori e un soldato, uomo religioso, che era ai suoi ordini; spiegò loro ogni cosa e li mandò a Giaffa.
Cornelio è un uomo capace di ascoltare gli “angeli”, la parte spirituale della nostra vita, quella meno razionale, meno afferrabile; non solo la sa ascoltare, ma sa darle credito e coinvolgere altri nella stessa visione. L’esercizio dell’autorità è proprio questa capacità di avere una visione, un orizzonte, e per quanto assurdo e spiazzante possa sembrare, di dare credito e continuità a ciò che spesso è simile a un’intuizione dai contorni indefiniti. Cornelio non ha tutto chiaro, ma coinvolge altri e li invia, spiega e manda. Lascia che siano altri a verificare la fattibilità del percorso intravisto, si fida di coloro che porteranno a termine la missione affidata. Cornelio è capace di rendere partecipi e protagonisti altri del sogno che lo ha visitato durante la preghiera.
Il giorno dopo, mentre quelli erano in cammino e si avvicinavano alla città, Pietro, verso mezzogiorno, salì sulla terrazza a pregare. Gli venne fame e voleva prendere cibo. Mentre glielo preparavano, fu rapito in estasi: vide il cielo aperto e un oggetto che scendeva, simile a una grande tovaglia, calata a terra per i quattro capi. In essa c’era ogni sorta di quadrupedi, rettili della terra e uccelli del cielo. Allora risuonò una voce che gli diceva: «Coraggio, Pietro, uccidi e mangia!».
Ma Colui che da sempre ha l’iniziativa e la capacità di coinvolgere è Dio stesso: non si accontenta del messaggio accolto e trasformato in azione da parte di Cornelio, ha una parola anche per Pietro. C’è continuità tra la preghiera di Cornelio e la preghiera di Pietro; loro sono già in comunione, sono coinvolti in una stessa vicenda, nella preghiera.
La cosa particolare, che merita attenzione, è che Dio parla a Pietro nel momento della sua estrema debolezza, nel momento della fame, quando percepisce la dipendenza della sua vita dalla generosità e dalla gratuità della creazione e delle creature. Il Signore spesso ci coglie nella debolezza, quando il bisogno, la fame, la sete ci rendono più vulnerabili e fragili e forse anche meno inclini alle resistenze. La Parola di Dio non coglie Pietro nel pieno delle forze, ma nella precarietà, nella fame e nel bisogno che distrae la preghiera, nelle visioni di tavole imbandite… il Signore passa, attraversa i nostri sogni, i nostri bisogni, le nostre distrazioni e ci parla con quel linguaggio che sappiamo comprendere: una tovaglia e l’invito a mangiare. E se fin qui poteva essere solo la fame di Pietro a creare la visione, proprio in questa debolezza interviene l’opera di Dio che spinge Pietro oltre il suo passato, oltre la forma della tradizione, oltre ciò che sa o che crede di sapere. Obbedienza ai sogni, obbedienza ai bisogni e obbedienza a un’intuizione che capovolge tutto l’impianto religioso su cui Pietro pensava di dover costruire. L’autorità è chiamata a lasciarsi sorprendere, a lasciarsi prendere dall’alto, a permettere a Dio di parlare quando la fame e la mancanza si fanno sentire e a credere a quella visione che nasce più dalla precarietà del bisogno che dalla sazietà delle certezze.
Ma Pietro rispose: «Non sia mai, Signore, perché io non ho mai mangiato nulla di profano o di impuro». E la voce di nuovo a lui: «Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo profano». Questo accadde per tre volte; poi d’un tratto quell’oggetto fu risollevato nel cielo. Mentre Pietro si domandava perplesso, tra sé e sé, che cosa significasse ciò che aveva visto, ecco gli uomini inviati da Cornelio: dopo aver domandato della casa di Simone, si presentarono all’ingresso, chiamarono e chiesero se Simone, detto Pietro, fosse ospite lì.
Se Cornelio sembra obbedire prontamente, Pietro ci mostra quanto faticoso sia l’esercizio di libertà che gli viene chiesto. Per tre volte controbatte, afferma le sue ragioni e, pur riconoscendo la voce del Signore, insiste nel dire: non sia mai… Un modo, uno stile di Pietro che conosciamo. La sua impulsività, la sua capacità di reazione non ci sorprendono, più volte lo abbiamo visto reagire, difendere, lanciarsi e altrettante volte, dobbiamo riconoscerlo, lo abbiamo visto capace di fare un passo indietro, di piangere, di chiedere perdono e di cambiare strada. Pietro è capace di interrogarsi, di farsi domande, di abitare la perplessità del nuovo che si impone e di dialogare con l’imprevisto. Pietro si aggrappa alla tradizione, a ciò che gli dà sicurezza: eventi, ricordi, fatti e parole, ma lascia entrare in tutto questo la perplessità tipica di chi non sia accontenta di proseguire il cammino senza chiedersi il perché degli avvenimenti.
Pietro non ha mai mangiato nulla di profano o di immondo, e il cibo che è preparato su questa tovaglia calata dal cielo è un cibo a cui non si può accostare, perché chi lo mangia, in quel modo, in quelle condizioni, contrae impurità.
Pietro non capisce, sta pensando, sta ragionando, è sconvolto perché la “voce” che ha ascoltato dichiara che le norme stabilite e osservate fin dal tempo dei Padri, espresse nel Libro del Levitico, commentate da tutta la Tradizione… ora non valgono più: sono aboliti i confini tra ciò che è puro e ciò che è impuro. Ciò che Pietro inizia a comprendere è che tutto, d’ora in poi, può essere compreso solo in relazione al Signore Gesù, Colui che è disceso e risalito, che ha attraversato e colmato la distanza che separa il cielo dalla terra.
Pietro stava ancora ripensando alla visione, quando lo Spirito gli disse: «Ecco, tre uomini ti cercano; àlzati, scendi e va’ con loro senza esitare, perché sono io che li ho mandati». Pietro scese incontro a quegli uomini e disse: «Eccomi, sono io quello che cercate. Qual è il motivo per cui siete venuti?». Risposero: «Il centurione Cornelio, uomo giusto e timorato di Dio, stimato da tutta la nazione dei Giudei, ha ricevuto da un angelo santo l’ordine di farti venire in casa sua per ascoltare ciò che hai da dirgli».
Pietro si trova immerso nei suoi pensieri, alla ricerca di un senso in ciò che è accaduto, alla ricerca di una direzione da percorrere. Non sa e non pretende di sapere. È un uomo obbediente a Dio, che si pone in ascolto delle mille sfumature in cui Dio può parlare, accoglie l’imprevisto e impara a dialogare con ciò che non può né possedere, né dominare. E in questa situazione di apertura estrema, coglie che l’unica azione sensata è quelle di muoversi, di andare incontro all’altro, di visitarlo nella sua realtà. È a Pietro che è chiesto di muoversi, è all’autorità che è chiesto di abbracciare un dinamismo e una itineranza. Prima il movimento e poi, se saranno necessarie, le parole.
Ma è lo Spirito che, come sempre, precede e rende gli uomini profeti. È lo Spirito che irrompe nella ricerca affannata e problematica di Pietro, per rimuovere gli scrupoli che ancora lo affliggono circa la possibilità di instaurare un rapporto interpersonale con quegli estranei che sono i pagani; ma è lo stesso Spirito che irrompe nella vita di Cornelio e lo porta a sentirsi degno che Pietro entri nella sua casa, sicuro che attraverso di lui, Dio stesso ha una Parola da dirgli.
Pietro allora li fece entrare e li ospitò. Il giorno seguente partì con loro e alcuni fratelli di Giaffa lo accompagnarono. Il giorno dopo arrivò a Cesarèa. Cornelio stava ad aspettarli con i parenti e gli amici intimi che aveva invitato.
Ma prima ancora di “andare”, a Pietro è chiesto di ospitare, di accogliere e di ascoltare. Ogni ricerca di cammino, di senso, comporta la rinuncia ad una ricerca solitaria. Abbiamo bisogno di compagni e compagne di viaggio che ci sostengano dentro gli avvenimenti, che ci accompagnino nella ricerca del significato e del passo possibile. L’esperienza di Dio, la ricerca della Sua Volontà è inseparabile dal mondo delle relazioni e dallo svolgersi della storia che ci lega agli avvenimenti che caratterizzano la vita umana e ne dischiude il senso. Per questo la capacità di crescere nell’ospitalità è un compito dell’autorità, non solo come capacità di accogliere, ma anche e soprattutto nella progressiva capacità di chiedere di essere accolti, di chiedere il permesso che altri ci lascino entrare nelle loro vite; chiedere di essere ospitati senza la pretesa di togliere il dolore o di dare la gioia, ma chiedere di essere accolti nell’intimità della vita, unico luogo dove la gioia e il dolore possono essere condivisi. L’ospitalità ci porta ad abitare luoghi di soglia, di transito, di confine, ci porta ad appartenere a spazi e luoghi diversi che ci ospitano per il tempo necessario e sufficiente, per accogliere ed essere accolti, per accostare le vite di altri non perché investiti di un compito o di un ruolo, ma semplicemente perché capaci, innanzitutto, di vivere umanamente. Accogliere e mettersi in movimento, ma non da soli. Pietro parte, fidandosi di una parola ricevuta, in compagnia di fratelli che assieme a lui percorreranno il cammino. A Cesarea troveranno una comunità pronta ad accoglierli: Cornelio con parenti e amici li stavano già aspettando.
Siamo chiamati a riconoscere che il servizio dell’autorità non può essere affrontato da soli: è troppo pesante la situazione per te, non puoi affrontarla da solo… Alleggerisci così il carico su di te ed essi lo porteranno con te (Es 18,18.22), ricorda Ietro a Mosè. Abbiamo bisogno di qualcuno con cui condividere “il carico”, fosse anche il carico di una novità sorprendente che destabilizza, qualcuno che possa testimoniare al nostro fianco le opere di Dio che accadono, si realizzano e si rivelano e che ci spingono ad un cambiamento di rotta e di orizzonte.
Mentre Pietro stava per entrare, Cornelio gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Àlzati: anche io sono un uomo!». Poi, continuando a conversare con lui, entrò, trovò riunite molte persone e disse loro: «Voi sapete che a un Giudeo non è lecito aver contatti o recarsi da stranieri; ma Dio mi ha mostrato che non si deve chiamare profano o impuro nessun uomo. Per questo, quando mi avete mandato a chiamare, sono venuto senza esitare. Vi chiedo dunque per quale ragione mi avete mandato a chiamare».
Pietro, nel servizio che gli viene chiesto, vive l’esperienza dello smarrimento. Più volte chiede la ragione dell’invito, si è messo in cammino senza conoscere con chiarezza la domanda e senza sapere la risposta. Ha obbedito a Colui che lo ha inviato in un luogo, in una relazione fino ad ora completamente sconosciuta e, a poco a poco, in lui si è fatto spazio un modo nuovo di comprendere le vicende, di accogliere le storie di vita di altri. Pietro è figura dell’umiltà di chi si lascia guidare dalle domande dell’altro, di chi non teme né di non sapere, né di cercare assieme. Il Signore ha mostrato con chiarezza che nessun uomo è profano o impuro, che nessun uomo è privato dell’esperienza di un Dio capace di accostarsi alla sua vita, in qualunque circostanza si trovi e che nessun uomo è veramente incapace di ascoltare la voce leggera dello Spirito.
Il compito di coloro che sono chiamati a un servizio di autorità è quello di riconoscere la sacralità della vita di ogni uomo e donna e, in loro, ascoltare la voce di Dio; si tratta quindi di imparare a obbedire a Dio e all’uomo, a quel cammino che il Signore stesso sta tracciando nella vita dell’altro.
Cornelio allora rispose: «Quattro giorni or sono, verso quest’ora, stavo facendo la preghiera delle tre del pomeriggio nella mia casa, quando mi si presentò un uomo in splendida veste e mi disse: “Cornelio, la tua preghiera è stata esaudita e Dio si è ricordato delle tue elemosine. Manda dunque qualcuno a Giaffa e fa’ venire Simone, detto Pietro; egli è ospite nella casa di Simone, il conciatore di pelli, vicino al mare”. Subito ho mandato a chiamarti e tu hai fatto una cosa buona a venire. Ora dunque tutti noi siamo qui riuniti, al cospetto di Dio, per ascoltare tutto ciò che dal Signore ti è stato ordinato».
All’umiltà di Pietro fa eco l’umiltà di Cornelio il quale, raccontando gli avvenimenti dichiara di aver “solo” obbedito a una Parola autorevole che riconosce essere la voce di Dio. Questo dialogo tra Cornelio e Pietro ci porta nel delicato ambito delle mediazioni. Ciò che caratterizza entrambi i percorsi è che il Signore, a tempo opportuno, avrà parole da suggerire a Pietro e avrà creato la disponibilità in Cornelio per poterle ascoltare. L’esercizio dell’autorità comporta una continua ascesi: lasciar cadere ciò che si presume di poter dire e accogliere la creatività dello Spirito che si rivela in modi e tempi puntuali. Pietro non ha a disposizione un bagaglio di parole da usare nelle diverse circostanze, ha invece bisogno di imparare a fidarsi del leggero soffio dello Spirito e della sua capacità di riconoscerlo e di aderirvi. Ciò che avviene tra Pietro e Cornelio è l’antica pratica della conversazione spirituale, la condivisione della propria relazione intima con il Signore, nella certezza che l’esperienza dell’altro illumina e arricchisce la mia e che la mia esperienza può essere luce e conferma per ciò che Dio sta compiendo nell’altro.
Pietro allora prese la parola e disse: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga. Questa è la Parola che egli ha inviato ai figli d’Israele, annunciando la pace per mezzo di Gesù Cristo: questi è il Signore di tutti”. […] Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio. Allora Pietro disse: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?». E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni.
Anche Pietro si racconta, si mette in gioco, condivide la sua esperienza, si accorge che qualcosa sta accadendo, prima di tutto in lui. Il cambiamento è possibile nell’ascolto, nel contatto con la realtà che sempre è sorprendentemente diversa da come l’avevamo immaginata. Pietro, e con lui ogni autorità, è invitata e chiamata a non chiudere l’esperienza dell’altro dentro le proprie categorie, a non considerare Cornelio un “problema da risolvere”, ma un’occasione offertagli da Dio per allargare il proprio orizzonte e aprirsi al nuovo e all’inaudito. E tutto questo ha bisogno di tempo, perché la cura dell’altro, la cura delle relazioni, hanno bisogno di tempo e di pazienza. È necessario fermarsi alcuni giorni, ospiti della vita e degli affetti più significativi dell’altro – anche dopo il battesimo, dopo l’immersione della vita in Dio – per non dimenticarsi che ogni missione si radica e si nutre di gratuità. Pietro sarà ospite qualche giorno e poi ripartirà, l’autorità è un servizio “dispensabile”. Dopo aver accompagnato Cornelio e la sua famiglia alla pienezza della vita, Pietro riprenderà la via di casa, non lega a sé, non crea dipendenza, ma offre all’altro il servizio più alto che si possa offrire: la capacità di scegliere per chi dare la propria vita.
Come per Gesù al Giordano, l’immersione è una sottomissione. Questo gesto apre veramente i cieli, toglie ogni separazione tra Dio e gli uomini. In ogni immersione nelle acque tortuose della realtà, delle vicende, delle vite che ci accolgono, riviviamo la possibilità di ascoltare le Parole del Padre: tu sei il mio figlio prediletto e in te mi compiaccio, tu sei mio Figlio in te mi riconosco, io oggi ti ho generato, tu sei l’Amato, io sono con te, al tuo fianco (cf. Mc 1,9-11). Ogni autorevolezza nasce dalla fiducia in queste parole, proprio perché amati possiamo perderci, svuotarci, metterci a servizio della pienezza di vita di altri. Il battesimo ci dà il potere di imparare ad ascoltare una sola voce nella vita, quella che ci chiama ‘figlio amato’. Questa voce è sempre lì, ma è più facile ascoltare altre voci che chiedono una dimostrazione: fai qualcosa di significativo, di spettacolare, di potente… allora sarai amato, allora sarai autorevole. La nostra autorevolezza si fonda nell’esperienza di essere amati gratuitamente, prima di ogni decisione e di ogni esposizione, si radica nell’esperienza che questo amore non ci può essere tolto nemmeno dal fallimento, dall’errore, dall’incomprensione o dal mancato riconoscimento del servizio che stiamo svolgendo. Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo! (cf Mc 9, 7); l’autorevolezza, ciò che ci rende capaci di una parola da dire e da ascoltare, nasce da questa relazione intima e familiare con il Padre, perché amati possiamo prenderci cura della vita di altri, perché amati possiamo lasciare che altri consolino la nostra vita. Possiamo trovare gesti da vivere e parole da dire nella certezza di un Amore che è da sempre e per sempre e dal quale niente e nessuno potrà separarci. Anche perché il servizio dell’autorità non si esprime solo nella capacità di dare la vita a favore di altri, ma anche nella capacità di rinunciare alla propria. Gesù trasmette vita, guarisce la vita ferita, risana l’umano perché è capace di svuotamento e questo lo rende anche capace di imparare da ogni altro che incontra lungo il suo cammino, non teme di condividere con altri la sua autorità perché immerso nella profonda libertà anche nei confronti della sua stessa vita.
Pietro e Cornelio ascoltano e si immergono nel mistero di un amore gratuito e incondizionato che li conduce a riconoscere la presenza di Dio in coloro che fino ad ora erano distanti.
Siamo chiamati a lasciarci coinvolgere dalla vita in Dio e dalla vita dell’altro, a lasciarci coinvolgere dalla parola che pronunciamo e che risuona come autentica se verificabile nello svolgersi della vita.
Per questo è prima di tutto il gesto compiuto da Pietro che sancisce l’evangelizzazione di un pagano. Poi verranno i discorsi, le catechesi, le omelie. Ma è il gesto che evangelizza. Pietro apre la porta della casa di Cornelio, entra in quella casa, prende dimora tra loro, siede a quella mensa. Il gesto compiuto da Pietro è vissuto nella piena consapevolezza, mostrando che, finalmente, ha trovato la spiegazione di quello che ha visto quando il cielo si è aperto, la tovaglia è scesa e la voce ha detto: tu non dichiarare più profano nulla di ciò che Dio ha purificato. Pietro ha fatti esperienza che nel nome di Gesù, nel mistero della sua morte e resurrezione, ogni creatura è capace di Dio e ogni persona è chiamata a condividere la pienezza della vita.
Pietro non conosceva gli interrogativi che Cornelio gli avrebbe posto, ma sapeva che, entrando in quella casa, avrebbe annunciato la Buona Notizia. Il grande dono e il grande impegno che il Signore ci ha affidato è quello di essere Sacramento visibile di quell’amore con il quale Lui stesso ci ama. E la nostra missione è semplicemente quella di rendere questo amore visibile e concreto nella nostra vita e nella vita di altri.
Casa e strada, sono i luoghi in cui siamo chiamati a vivere il mistero dell’obbedienza a Dio, agli altri, agli avvenimenti. La strada come risposta alla chiamata da parte di tutti quelli che ci aspettano, che sono in attesa… La casa come luogo di gratuità e essenzialità, un luogo per stare, lasciarsi ospitare e ripartire, dove esercitarci nella radicalità evangelica di un amore libero e liberante perché vissuto senza condizioni.
Il Signore Gesù ci coinvolge, dandoci il Suo potere, il potere di liberare, di guarire, di prenderci cura, di vincere il male, di accogliere, di perdonare, di consolare e non ci esime dalla vigilanza. Tra i discepoli di ogni tempo la tentazione del dominio sugli altri è presente. Il Signore ne è ben consapevole, per questo avverte: se uno veramente vuole essere il primo – e la vostra discussione sembra indicare tale volontà – deve essere l’ultimo di tutti e il servitore di tutti (cf. Mc 10, 43). Servitore indica una funzione: è colui che durante un pasto non mangia, ma si mette a disposizione degli altri perché mangino. Servitore è il diacono, chi si mette a disposizione di qualcuno, chi si interessa vivamente dei bisogni dell’altro ed agisce concretamente a suo favore. Ma servire rivela anche la paura che abbiamo di perdere la vita, di non essere valorizzati e riconosciuti, di non avere un “ruolo”. Davanti all’obbedienza che ogni servizio dell’autorità impone, sperimentiamo la paura che “qualcosa ci venga tolto”. Per questo lo sguardo di chi vuole essere primo non può fissarsi sulla ricerca della propria grandezza, o sull’affermazione del “proprio primato”, ma deve dirigersi verso le necessità di ogni altro. È un atteggiamento continuo che viene richiesto, un impegno permanente; il criterio che guida non può essere la simpatia o la preferenza, ma la necessità di qualsiasi persona. Esercitare l’autorità significa semplicemente servire, aprire la porta per entrare e lasciare entrare l’altro nell’ambito della propria vita e della propria cura e premura.
Tutto ciò trova la sua radice nel desiderio umile e autentico di una condivisione di vita, nel desiderio di solidarietà con quella porzione dell’umano che vive nella sua carne il mistero pasquale. Servire è l’occasione per allargare il cuore alla misura del cuore di Cristo per crescere in umanità.
Forse per questo la triplice domanda sull’amore (cf. Gv 21) che conferma Pietro nel suo ruolo autorevole davanti alla comunità dei discepoli, non è basata sulle sue capacità organizzative o decisionali, ma sulla fiducia di imparare a voler bene al Signore Gesù, attraverso la cura delle pecore che gli saranno affidate.
“Non v’è maggiore libertà che quella di lasciarci portare dallo Spirito, rinunciando a calcolare e a controllare tutto, e permettere che Egli ci illumini, ci guidi, ci orienti, ci spinga dove Lui desidera” (EG 280).