N.04
Luglio/Agosto 2022

La paura della responsabilità

La questione aperta dei processi decisionali

 

Vantaggi e limiti del decision making

Negli ultimi decenni si sono ampiamente diffuse le pubblicazioni e i programmi di formazione che spiegano come prendere decisioni. Si tratta di una vera e propria disciplina che prende il nome di decision making.[1] Generalmente queste tecniche ruotano intorno a un modello rappresentato da una struttura ad albero: si parte da una casella, che rappresenta la situazione in cui ci si trova, e da qui si diramano delle possibilità tra cui scegliere per arrivare al proprio obiettivo. L’idea quindi è che c’è sempre un percorso possibile per arrivare da dove sono a dove desidero. Questi modelli nascono all’interno di una cultura pragmatista dove l’impegno e la volontà sono la base del successo. Ma nella vita reale, soprattutto quando abbiamo a che fare con desideri, sentimenti e mondo interiore, funziona ugualmente così? A ciò si aggiunga che talvolta siamo chiamati a scegliere per altri, quando ne abbiamo la responsabilità (per esempio come genitori, formatori, superiori, ecc.), oppure ad accogliere le scelte che altri operano per noi o che ricadono su di noi.

Alcuni aspetti, tra quelli che emergono dal decision making, possono però essere utili anche per la nostra riflessione. Innanzitutto, come abbiamo notato, si parte da una casella che rappresenta la situazione in cui ci troviamo. Effettivamente ogni percorso di discernimento – cioè quel processo che a nostro avviso presiede alla decisione e che, come vedremo, non si riduce alla prassi del decision making – parte dal principio di realtà ovvero dalla consapevolezza del presente: qual è la mia condizione in questo momento? Il desiderio di essere questo pomeriggio a New Delhi deve fare i conti con il fatto che in questo momento mi trovo a Roma!

Nella struttura ad albero proposta dal decision making gli snodi indicano le possibilità tra cui scegliere: anche qui notiamo che generalmente non possiamo tenere aperte più possibilità contemporaneamente, ma per andare avanti dobbiamo necessariamente scegliere una direzione. Quella diramazione è una possibilità e rimane tale fino a quando qualcuno non la percorre e solo se qualcuno la percorre. A volte però capita anche che la realtà ci costringa a percorrere una di quelle possibilità, soprattutto quando per molto tempo abbiamo esitato e scegliere. Accade infatti che sia la realtà a scegliere per noi e non sempre nel momento più opportuno. È il caso per esempio dei Superiori religiosi che hanno il compito di chiudere delle attività: questa operazione, fatta in un tempo adeguato di discernimento potrebbe consentire anche uno spazio di creatività, ma procrastinando la decisione, come talvolta avviene, si finisce con l’essere costretti a chiudere un’opera senza avere un margine di scelta.

Quando scegliamo di percorrere una delle possibili diramazioni, stiamo agendo non soltanto sulla nostra vita, ma sempre anche sulla vita di altri: se scelgo di non sposare X, non sto lasciando solo un segno nella mia vita, ma anche in quella di X, che subirà la mia scelta di non essere sposata da me. Ciò vuol dire che il percorso delle nostre scelte non è mai solo un affare nostro. Ogni scelta comporta sempre una responsabilità. Occorre tenere presente che non siamo mai dei soggetti isolati nelle nostre decisioni.

Ciò che forse il decision making non è in grado di contemplare è il cambiamento che avviene nel soggetto che decide. La scelta implica infatti che chi progetta si riconosca nel soggetto che agisce.[2] Si tratta cioè di vedersi in anticipo rispetto a un futuro che non c’è ancora. È uno degli aspetti più faticosi del discernimento perché significa giocarsi su qualcosa che possiamo per ora solo immaginare. Questa fatica è ovviamente tanto più grande quanto più impegnativa è la scelta.

Si può dire che una scelta sia stata effettivamente compiuta solo nel momento in cui è avvenuto un taglio con le altre possibilità. Non a caso il verbo decidere ha la stessa radice di recidere.[3] Anche dal punto di vista psicanalitico possiamo comprendere la fatica di scegliere, si tratta infatti di uccidere in qualche modo le altre alternative: fin quando le altre possibilità non muoiono nel nostro cuore non si può dire che sia stata operata fino in fondo una scelta!

 

Strategie di evitamento

Alla luce di tali premesse, possiamo provare a riflettere su cosa implichi il lavoro di chi per ruolo o per responsabilità si trova a prendere decisioni che hanno conseguenze sugli altri, decisioni a cui altri sono poi chiamati a obbedire. In questo caso occorre prestare attenzione a quelle strategie che vengono non di rado messe in campo per evitare di assumersi le proprie responsabilità. Tali strategie sono per lo più socialmente accettate e si presentano sotto apparenza di bene: mi riferisco a un atteggiamento apparentemente democratico, quando per esempio si cerca di far ricadere la responsabilità su un consiglio o su un’assemblea.

Pur riconoscendo l’importanza del discernimento in comune, è bene non confondere questo processo con un metodo per non deludere nessuno e mettere tutti d’accordo.[4] I processi che prevedono una condivisione servono ad ampliare le prospettive e i punti di vista, ma non possono sostituire l’impegno in prima persona di chi ha il compito di prendere la decisione. È frequente infatti ravvisare in coloro che si trovano a svolgere questi ruoli di responsabilità una dinamica simile a quella che nel Vangelo viene individuata in Pilato, colui che è dilaniato dal conflitto tra coscienza e immagine: Pilato intuisce ciò che è bene, ma teme il giudizio della folla e le conseguenze politiche. Alla fine propende per dare più peso all’opinione su di lui che non al suo giudizio.

Il capo insicuro, che non riesce a essere leader, di solito si circonda del cerchio magico, un gruppetto di collaboratori che, pur di avere un po’ di considerazione, visibilità e potere, sono pronti a confermare il capo nelle sue decisioni e di solito nutrono le paranoie del capo nei confronti dei nemici che essi stessi preferiscono eliminare. Di solito però i membri del cerchio magico non realizzano che proprio ciascuno di loro può diventare prima o poi la futura vittima.

Viviamo in una cultura che fatica a generare leader. Ne è un esempio la difficoltà che spesso i genitori incontrano nell’educazione dei figli. Soprattutto con gli adolescenti è necessario saper dire anche dei no, perché in questo modo offriamo limiti e confini che aiutano la strutturazione della personalità. Eppure i genitori hanno spesso paura di perdere l’affetto dei figli o di essere giudicati inadeguati. Si può ben capire che queste paure le ritroviamo anche in coloro che hanno la responsabilità di chiedere un’obbedienza per esempio nella vita religiosa.

 

Responsabilità personale e scelta vocazionale

La responsabilità personale è un aspetto fondamentale anche nella scelta vocazionale. Anche in questo caso è infatti in agguato la tentazione di voler delegare ad altri la decisione sul proprio progetto di vita. Talvolta infatti si incontra in alcuni giovani la convinzione che ci sia un disegno preconfezionato da parte di Dio che siamo chiamati a scoprire.[5] La Parola di Dio ci insegna invece che Dio ha una volontà salvifica universale, vuole infatti che tutti gli uomini siano salvi.[6] Dentro questo progetto salvifico universale, ciascuna creatura è chiamata a esercitare la propria libertà scegliendo se e come entrare in questo disegno di salvezza. Ciascuno infatti è chiamato a rispondere a una domanda fondamentale: come posso amare di più? A partire dalle mie risorse e dai miei limiti, dalla mia storia e dalle mie esperienze, considerando i miei desideri e i miei valori, qual è per me il modo migliore per realizzarmi nella mia vocazione all’amore? In questo processo decisionale, Dio non è passivo o indifferente, ma ci spinge verso il nostro bene, verso la nostra salvezza, cioè la pienezza di vita.

 

Libertà e obbedienza

Quando ci troviamo in contesti nei quali siamo chiamati a vivere l’obbedienza, può nascere un dubbio sull’esercizio della libertà e della responsabilità personale. L’obbedienza è un baluardo della vita religiosa, non perché i superiori abbiano sempre ragione, ma perché, obbedendo (escluso il caso in cui ci venga chiesto qualcosa contro coscienza), creiamo lo spazio in cui Dio può operare. È lo spazio dell’abnegazione e dell’umiltà che crea la condizione in cui la grazia entra e trasforma la storia.

I processi decisionali rimangano ancora oggi nella Chiesa una grande questione aperta. Possiamo auspicare che l’attenzione portata sul cammino sinodale possa aiutare a crescere anche in questa dimensione fondamentale per la vita spirituale ed ecclesiale.

 

 

[1] T. Connolly – H.R. Arkes – K.R. Hammond, Judgment and Decision making, Cambridge University Press, Cambridge UK, 20022.

[2] P. Ricoeur, Filosofia della volontà 1. Il volontario e l’involontario, Marietti, Bologna, 1990, 57.

[3] E. C. Rosenthal, The Era of Choice. The Ability to Choose and Its Transformation of Contemporary Life, MIT Press, Cambridge, Mass.-London, England 2005, 2.

[4] M.J. Jurado, Il discernimento spirituale. Teologia, storia, pratica, San Paolo, Milano 1997, 177.

[5] Il testo di un articolo di M. Rondet su questo tema può essere trovato qui http://gesuiti.it/dio-ha-una-volonta-particolare-su-ciascuno-di-noi-p-michel-rondet-sj/.

[6] Cf 1 Tm 2,4.