Scoprire l’intima connessione di eventi e parole
L’elaborazione
«Questa economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi»: con questa espressione della Dei Verbum (n. 2) i Padri Conciliari compendiarono un lungo dibattito teologico, che non intendiamo ripercorrere, ma semplicemente indicare come orizzonte entro cui avviare percorsi per riflettere insieme se e come l’“elaborare” abbia a che fare anche con la Scrittura. Se «eventi e parole [sono] intimamente connessi», non sono forse la storia e la parola, anche quella biblica, che chiedono un ascolto articolato, in qualche modo “laborioso” da parte della comunità credente perché le si riveli oggi il volto di Dio?
Tale “lavorio” fu propriamente ciò che rese Maria discepola autentica del Figlio fin dall’inizio, quando, di fronte allo sconcerto del ritrovamento di Gesù nel Tempio, pur non comprendendo «ciò che aveva detto loro […] custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (Lc 2, 50.51). Maria custodiva, alla lettera potremmo dire “teneva in mezzo”, tutti gli accadimenti e tutte le parole dette da Gesù, insieme a quelle consegnatele dalla tradizione del suo popolo e a quelle ascoltate dall’angelo: non ha “tirato subito la riga”, non ha separato gli eventi dalle parole, non ha disgiunto la realtà da una promessa udita, ma si è data tempo per “tenere in mezzo” entrambe, come per “farle dialogare” nel cuore. Maria ha abitato il tempo dello scavo interiore, dell’attesa… un po’ come nella gestazione: lei, che aveva custodito Gesù nel grembo per nove mesi, diventa capace, giorno dopo giorno, di attenderne la rivelazione pasquale! E lei sa bene che la gestazione è tempo prezioso e delicatissimo, che chiede molta attenzione, ma è processo per lo più “non volontario”: la madre può solo custodire, può solo prestare molta cura, ma non è lei a far crescere in sé il figlio… allo stesso modo Maria sapeva di non essere lei a poter portare a compimento la promessa! Sapeva di poter solamente tenere desto il desiderio, aperto il cuore, perfino quando la realtà sembrava smentire la promessa… ad un Altro spettava di portarla a compimento!
Come lei, ogni credente è pertanto chiamato a “tenere nel mezzo” «eventi e parole», a darsi il tempo necessario perché che se ne sveli l’intima connessione, cioè ad elaborare quanto accade alla luce della Parola, della promessa ascoltata per poter riconoscere l’opera di Dio nella propria vita, per poterne accogliere il dono che Lui intende fare di se stesso, perché solo così Dio ha scelto di rivelarsi, non altrove e non diversamente da così: non solo nella storia, ma come storia, implicando così anche la nostra libertà di accoglierlo e lasciarlo operare in essa[1].
Ma non è forse questa la medesima dinamica sottesa al processo di formazione della Scrittura? La promessa di liberazione di Israele dalla schiavitù dell’Egitto ed il suo compimento nell’esodo costituiscono l’evento fondante a cui il popolo continuamente ritorna per poter riconoscere il volto di Dio che ne accompagna la storia come Alleato. Non solo la Torah (il Pentateuco), ma anche le altre due raccolte di libri in cui essa è suddivisa, Neviim e Ketuvim (rispettivamente i Profeti e gli Scritti) nascono come lettura e rilettura, scrittura e riscrittura elaborata della “intima connessione” della storia e della Parola, della promessa del Dio negli accadimenti, in ultima analisi della storia che è Parola, della Parola che accade. I Profeti sosterranno la speranza di Israele soprattutto davanti alla smentita degli eventi in virtù dell’Alleanza a cui il Dio dell’esodo non potrà certamente venire meno! Così gli autori degli Scritti affronteranno la crisi della storia più recente elaborandone il senso alla luce di un patto, attestato nei testi già disponibili ad Israele, che Dio intende certamente continuare ad onorare pur in condizioni storiche avverse, a volte perfino disastrose[2].
Solo verso il II secolo d.C. il processo di scrittura sarà dichiarato “chiuso”: la definizione del canone giudaico, cioè dell’elenco dei testi considerati attestazione normativa della rivelazione di Dio, permetterà ad Israele di riconoscere in essi il riferimento della propria identità etnica e religiosa nonché di continuare a “leggere” la storia alla luce di quella Parola, per rintracciare in essa l’agire del Signore. Se la sua “scrittura” è compiuta, lo è perché se ne conservi la possibilità di lettura e non venga meno l’intima connessione tra eventi e parole in cui riconoscere Dio che continua a donarsi. Lo stesso Gesù attingerà anche alla Scrittura del suo popolo per discernere la volontà del Padre, così come la Chiesa delle origini farà altrettanto per comprendere il mistero del Figlio e, a sua volta, riconoscerà per se stessa una Scrittura che per sempre sarà Parola a cui attingere per rintracciare la presenza di Dio che continua a fare storia con l’umanità.
Elaborare «eventi e parole» alla ricerca della loro intima connessione chiede quindi tempo e se, ad un certo punto, tale operazione si cristallizza nella forma della scrittura, non è per chiuderne il processo, ma per consegnarlo ad ulteriori “connessioni”.
Proviamo a sondare tale dinamica attraverso la vicenda di Paolo, in particolare l’elaborazione che la comunità credente ha consegnato nel proprio canone relativa alla sua vocazione, alla lettura e rilettura di quell’evento per lui fondativo del nuovo rapporto con il Signore e della sua missione nella Chiesa.
Ciò che accadde a Paolo lungo la via di Damasco è offerto al lettore tre volte nella narrazione di Atti (9, 1-19; 22, 1-21; 26, 2-23), dove il suo incontro con il Signore viene intrecciato come perla nella trama della genesi della nuova comunità dei credenti in Cristo, che sorge come opera di Dio attraverso la prassi degli Apostoli. Pur con sfumature differenti, le narrazioni riferiscono di una luce accecante e di una voce che si rivela ‒ «Saulo, Saulo […] io sono Gesù che tu perseguiti» ‒ e che chiama Paolo alla missione specifica dell’annuncio del Vangelo alle genti, fino ai confini della terra, quegli stessi raggiunti dal racconto di Atti: una vera e propria teofania personale, funzionale però a fondare l’intera missione ecclesiale nell’iniziativa di Dio.
Anche lo stesso Paolo offre una personale elaborazione della vicenda nei suoi stessi scritti, facendone esplicito riferimento in quattro passaggi. Ne parla innanzitutto come di una visione in 1Cor 9,1: «Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro?» nel contesto del dibattito sul diritto dell’apostolo di essere mantenuto dalla comunità, diritto al quale egli liberamente rinuncia a tutela del vangelo stesso. Egli infatti prosegue dichiarando: «Infatti annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato» (1Cor 9, 16-17): l’Apostolo non fa che ribadire in tal modo che il mandato missionario di annunciare il vangelo è di origine divina e non sua iniziativa. Nello stesso scritto, in un passaggio seguente dell’argomentazione Paolo usa un’altra immagine per descrivere il medesimo evento lungo la via di Damasco: in 1Cor 15, 8 parla di un’apparizione singolare: «Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto». Il verbo greco è il medesimo di 1Cor 9, 1, ma nella forma passiva: ancora in qualche modo una “visione”, seppur “subìta” per l’azione di un Altro che si è mostrato, si è fatto vedere… un’apparizione appunto. Dicevamo “singolare”: quel «come un aborto» potrebbe indicare anche il nato prematuro, cioè l’Apostolo chiamato “fuori tempo” rispetto agli altri, eppure Apostolo a tutti gli effetti in virtù dell’iniziativa divina.
«Dio che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alla genti» (Gal 1, 15.16): un dono di rivelazione personale per una missione specifica sembra essere la configurazione che l’Apostolo individua per presentare ai Galati l’origine del Vangelo che egli annuncia, così da persuaderli a rimanervi fedeli, senza cedere alle lusinghe di chi vorrebbe introdurre pratiche giudaiche che rischierebbero di insinuare l’insufficienza della fede in Cristo in ordine alla salvezza.
Un altro scritto nel quale Paolo consegna ai suoi destinatari l’elaborazione della propria vocazione è la lettera a Filippesi. L’Apostolo aveva annunciato il vangelo a Filippi durante il suo secondo viaggio missionario, plausibilmente nei primi anni ‘50 (cf. At 16); ne era sorta una piccola comunità di credenti ai quali scrive dalla prigionia (cf. Fil 1,7.13.17). Una ipotesi attendibile è quella che individua la detenzione di Paolo ad Efeso verso la metà degli anni ‘50 quale circostanza in cui egli scrive la lettera ai Filippesi[3]. Se l’episodio di Damasco risale presumibilmente attorno all’anno 34/35, al momento della stesura dello scritto è passato circa un ventennio da quell’evento fondante per la fede e la missione di Paolo, eppure è ancora così vivo e significativo, così sorgivo di senso per lui e per l’intera comunità.
La sezione a cui ci riferiamo è ampia: si tratta di Fil 3, 2-16:
«Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi dalla mutilazione. Siamo infatti noi la circoncisione, noi che rendiamo culto nello Spirito di Dio e ci vantiamo in Cristo Gesù e non confidiamo nella carne, sebbene io possa confidare anche nella carne. Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: circonciso l’ottavo giorno, dalla stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, quanto alla legge fariseo; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia quella nella legge irreprensibile. Ma quello che era per me un guadagno, l’ho considerato a motivo di Cristo una perdita. Anzi, tutto considero una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia quella dalla legge, ma quella per mezzo della fede di Cristo, quella giustizia da Dio sulla fede per conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, essendogli reso conforme nella morte, se in qualche modo io giunga alla risurrezione dai morti. Non però che io abbia già raggiunto il premio o sia già arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di aver(lo) conquistato, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta verso il premio lassù della chiamata Dio in Cristo Gesù. Quanti dunque siamo perfetti, sentiamo questo; se sentite qualche altra cosa, Dio vi illuminerà anche su questo. Intanto, dal punto a cui siamo arrivati continuiamo ad avanzare sulla stessa linea».
La restituzione elaborata della sua vicenda esordisce con una intensa invettiva contro avversari che passano presto in secondo piano, sullo sfondo dell’antitesi tra due identità, entrambe di Paolo, una però “lasciata alle spalle”, in qualche modo svalutata alla luce dell’altra. La prima ha i caratteri etnico-religiosi; è definita in maniera principale dalla Legge e dalla circoncisione, sua prima prescrizione come segno nella carne dell’identità giudaica. Gli elementi elencati nei vv. 4-6, infatti, seguono lo schema classico di un encomio secondo le regole della retorica antica[4] ed esibiscono dati precisi, verificabili, riscontrabili con assoluta certezza: Paolo indubbiamente possiede tali credenziali, sia quelle relative ad una condizione naturale (v. 5) che quelle derivanti da una sua scelta personale (v. 6)! Eppure l’Apostolo consegna ai lettori una svalutazione di tale identità: ciò che era guadagno è stato da lui considerato una perdita, anzi addirittura – senza mezzi termini ‒ spazzatura! Altra invece è l’identità abbracciata, «quella per mezzo della fede di Cristo», chiaramente segnata dalla iniziativa divina: «Anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo» (v. 12). La forma verbale inscrive nel passivo del verbo la gratuità di tale dono e nell’aoristo il rimando ad un evento puntuale, plausibilmente quello di Damasco che ha segnato la “ri-significazione”, potremmo dire “rielaborazione” ed autenticazione dell’intera sua esistenza.
Unica per altro appare la ragione di tale operazione di discernimento: «A motivo di Cristo […] a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore» (vv. 7.8). È solo la persona di Gesù, l’incontro con Lui che segna l’incomparabilità di tale nuova condizione, rispetto a quella derivante dalla mediazione strumentale della Legge. A questa, Paolo non riconosce efficacia salvifica non per l’incapacità di adempierne le prescrizioni: si è dichiarato irreprensibile rispetto alla giustizia che essa procura anche per mezzo delle prescrizioni di purificazione che prevede; neppure perché la Legge perverrebbe ad una giustizia in cerca del proprio merito: non ce n’è sentore nel testo, nonostante la consueta rilettura della prospettiva teologica classica[5]. Né si può convenire che questioni ecclesiologiche come la separazione tra Giudei e Gentili siano all’origine di affermazioni di Paolo così enfaticamente perentorie[6]. È invece solo l’eccedenza del rapporto di fede personale con il Signore Gesù che ne segnala l’incomparabilità rispetto ad una mediazione strumentale quale può solo essere la Legge. Ed in effetti l’enfasi sulla dinamica personale è inscritta palesemente nel testo per mezzo dell’intensificarsi di un lessico di partecipazione che, adeguatamente, descrive il processo di configurazione che tale nuova identità avvia. La giustizia per la fede di Gesù è chiave d’ingresso alla conformazione della vita del credente a quella del suo Signore, a partecipare della sua morte, sperimentandone le forze di resurrezione già operanti nel presente, garanzia di un compimento escatologico. Le immagini atletiche dei versetti finali ne dipingono la tensione verso tale meta a cui Paolo esorta la comunità ad unirsi: «Quanti dunque siamo perfetti, sentiamo questo; se sentite qualche altra cosa, Dio vi illuminerà anche su questo. Intanto, dal punto a cui siamo arrivati continuiamo ad avanzare sulla stessa linea» (vv. 15.16).
Ed è esattamente in funzione della persuasione della comunità che Paolo ha offerto l’elaborazione della propria vocazione nella forma di un autoelogio: egli ha avuto l’ardire di presentare se stesso quale figura esemplare di un buon discernimento, cioè di colui che, pur possedendo tutti i requisiti di una identità etnico-religiosa, li ha considerati nulla di fronte all’eccedente possibilità di accedere alla relazione con Dio per mezzo della fede in Cristo Gesù. L’individuare e lo scegliere “ciò che più conta” è infatti il cuore di quanto l’Apostolo intende sollecitare a scegliere nei suoi destinatari lungo tutto lo scritto. Ciò lo si evince dall’individuazione dell’enunciato tematico principale, la “tesi” della lettera, espressa in forma di preghiera, poi di seguito argomentata e che gli studiosi hanno segnalato nell’espressione di Fil 1, 9-11: «E perciò prego che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento, perché possiate distinguere ciò che è meglio ed essere irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di quel frutto di giustizia che si ottiene per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio». E per «distinguere ciò che è meglio» o anche “ciò che più conta”, Paolo indica una condizione più volte ribadita con la ricorrenza lessicale di un verbo greco (Fil 1, 7; 2, 2.5; 3, 15.19; 4, 10) che generalmente è tradotto con “sentire” e che abbiamo incontrato a conclusione dell’autoelogio di Paolo: «Quanti dunque siamo perfetti, sentiamo questo; se sentite qualche altra cosa, Dio vi illuminerà anche su questo» (Fil 3, 15). Intuiamo che il senso abitualmente attribuito al verbo non può corrispondere esattamente a quello inteso da Paolo: per noi il “sentire” è per lo più qualcosa che ci accade, non scegliamo noi cosa e come sentire. Un’esortazione come quella di Paolo non avrebbe senso! Il verbo greco, invece, suggerisce piuttosto «un “sentire” interiore che spinge ad una conoscenza, ad una volontà. Più frequentemente è però relativo all’area del discernimento nelle decisioni da prendere»[7]: si tratta di quel sentire profondo che orienta le scelte.
Ed è a questo sentire che l’Apostolo altre volte ripete l’esortazione: «Rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi [ancora il verbo “sentire”, qui tradotto diversamente]» (Fil 2,2). E ancora esso introduce pochi versetti seguenti un altro elogio, quello di Cristo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù». Paolo sta esortando la comunità a perseguire l’unità, il «medesimo sentire», che deve essere configurato a quello di Cristo, dispiegato nella presentazione dell’intera parabola umana di Gesù il quale «pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!”, a gloria di Dio Padre» (Fil 2, 6-11). Con la figura dello svuotamento, della spogliazione della forma di Dio, del suo “rimpicciolirsi” nella forma umana è narrata la scelta di Gesù, è dipinto l’esito del suo “sentire” a cui Paolo esorta ad “accordarsi”. In realtà è Lui la prima figura esemplare offerta al lettore, la sua vicenda umana sono evento e Parola fondante “intimamente connessi” nella sua stessa persona a cui ogni credente ed ogni comunità può incessantemente attingere salvezza; al suo “sentire” ogni credente è chiamato a configurare il proprio per scegliere secondo il cuore di Dio. Ed è per l’appunto a Lui, al suo “sentire” che Paolo mostra di aver “accordato” il proprio nell’accoglienza della vocazione a Damasco, la cui elaborazione consegnata nel proprio autoelogio ne ripete la dinamica[8]: anche Paolo si è in qualche modo “svuotato”, spogliato dell’identità etnico-religiosa, scegliendo “ciò che più conta”, ossia la grazia della relazione con Dio per mezzo della fede di Gesù Cristo. A questa medesima disposizione esorta i Filippesi ad “accordarsi” così da edificare un’autentica unità: come una polifonia che nasce dall’“armonizzarsi” di ciascuno alla “melodia” della vicenda umana di Gesù, sollecitati da chi già ha configurato la propria come Paolo. Una unità tutt’altro che uniforme!
In ultima analisi le diverse elaborazioni dell’evento di Damasco, pur con immagini differenti, con prospettive molteplici, concordano nel riferirne come di un incontro personale e gratuito con il Signore Gesù; quella di Filippesi ne sottolinea particolarmente il processo innescato di configurazione a Lui, per altro comunque evidente anche negli altri scritti, basti pensare a Gal 2,19-20: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io ma Cristo vive in me». Così, pur avendo comunque rilevanza per la crescita della comunità, circostanze differenti dell’Apostolo e dei suoi destinatari diventano occasione e provocazione per rileggere la vicenda da una prospettiva nuova che ne rimane così arricchita da inedite sfumature.
L’elaborazione è pertanto necessaria a dare forma “definita” alla connessione scoperta tra eventi e parole così da essere funzionale alla consegna al “sé” nuovo o anche ad altri, ma non è affatto “definitiva”, sia perché generativa di processi di lettura di sé e di riconfigurazione del proprio mondo di tutti coloro che si espongono al testo[9], sia perché sempre nuove sono le circostanze che ne sollecitano la rilettura da prospettive mai prima frequentate. D’altra parte, già l’elaborazione della vicenda di Gesù consegnata come normativa alla comunità credente è multiforme: non uno, ma quattro sono i Vangeli, rivelazione attestata del volto del Padre nella narrazione del Figlio. Leggerli e rileggerli ascoltando se stessi, in risonanza ad essi alla luce degli eventi che siamo chiamati ad abitare, è strategia fondamentale per esercitare quel “sentire” a cui Paolo esorta i Filippesi e con loro, noi lettori di oggi, per lasciare che sia armonizzata o anche “intimamente connessa” alla Parola del vangelo quella della propria vita!
[1] Cf. M. Epis, Introduzione alla Costituzione dogmatica Dei Verbum, in S. Noceti – R. Repole (ed.), Dei Verbum (Commentario ai Documenti del Vaticano II, 5), EDB, Bologna 2017, 7-89.
[2] Cf. L. Maggi – A. Reginato, Camminare sulle acque. Leggere la Bibbia in tempi di crisi, Claudiana 2022.
[3] Per una ipotesi di cronologia paolina cfr. S. Romanello, Paolo. La vita – Le Lettere – Il pensiero teologico, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2018.
[4] Cf. F. Bianchini, L’elogio di sé in Cristo. L’utilizzo della περιαυτολογία nel contesto di Filippesi 3,1-4,1 (AnBib 164), P.I.B., Roma 2006, 68-75.
[5] Si tratta dell’interpretazione particolarmente tipica di Bultmann per il quale il giudaismo è di per sé caratterizzato negativamente come religione legalistica: cf. R. Bultmann, Teologia del Nuovo Testamento (Biblioteca di Teologia contemporanea 46), Queriniana, Brescia 1985.
[6] Si tratta in estrema sintesi della posizione della cosiddetta Nuova Prospettiva su Paolo che individua il giudaismo quale religione nazionalistica, che al sopraggiungere di credenti provenienti dal paganesimo sarebbe chiamato a superare i confini etnici, abbandonando la Legge quale primo definitore di tale separazione: cf. J.D.G. Dunn, La nuova prospettiva su Paolo (Introduzione allo studio della Bibbia S59), Paideia, Brescia 2014.
[7] S. Bittasi, Gli esempi necessari per discernere. Il significato argomentativo della struttura della Lettera di Paolo ai Filippesi (AnBib153), P.I.B., Roma 2003, 57.
[8] Cf. lo schema argomentativo parallelo tra Fil 2,1-18 e 3,2-16: «2,1-4(5) esortazione (imperativi) 3,2-3; 2,(5)6-11 narrazione esemplare (indicativi) 3,4-14(15); 2,12-18 esortazione (imperativi) 3,(15)-16»: F. Bittasi, Gli esempi necessari per discernere, 88.
[9] Cf. P. Ricoeur, Ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica, Paideia, Brescia 1977; Id., Dal testo all’azione, Jaca Book, Milano 1989.