Impronte della sua sostanza
La vocazione cristiana: una chiamata a divenire pane per gli altri
Commentando il Vangelo dell’Ascensione, Leone Magno afferma che nel momento in cui i discepoli vedevano scomparire la carne mortale di Gesù, impronta sostanziale del Padre (cf. Gv 14,9; Col 1, 19), misurandosi con la sua assenza, dovevano imparare a ponderare un’altra forma della sua presenza, percepibile nella fede. È in casi ermeneutici come questi, che si potrebbe ingiustamente fondare la sostituzione dell’esperienza dei sensi con la temibile astrazione di un’intelligenza extracorporale che valuta la dottrina, la teologia, l’idea, come sostitutiva della sensibilità. E, di conseguenza, il suo oggetto, Gesù, finirebbe compreso come realtà disincarnata.
Ma papa Leone, aveva dichiarato che «quel che era visibile del nostro Redentore, passò sotto i segni sacramentali». Siamo, così, posti di fronte a segni e gesti che dispongono una presenza nell’assenza, mossi dai «passi della mente», a seguire il viaggio che cerca «l’impronta della sua sostanza» (Eb 1, 3). Gesti e segni che esprimono la cura di Dio, l’attenzione sorprendente che colpì coloro che incontrarono Gesù nel suo passare beneficando e sanando (cf. At 10, 38), e che ogni generazione credente riceve dalla Chiesa, dall’insieme di parole e segni che danno forma e verità al sacramento, e pongono la fede nella relazione, più che nell’adesione a una verità concettuale. E a questo proposito resiste l’ammonimento di Agostino che, definendo il sacramento verbum visibile, mette in allerta a vigilare sulla somiglianza esperibile tra i sacramenti e la realtà di cui sono sacramenti, ponendo un costante esercizio di trasparenza cristica, in cui vedere, sentire, toccare Gesù che vive, annuncia, guarisce, benedice, perdona, nutre, riversa la sua vita perché possiamo rinascere, rialzarci e riprendere il nostro viaggio verso il compimento che si dischiude in ogni segno sacramentale.
L’esigenza di somigliare mette in allerta la considerazione anche riguardo l’effetto. Cosa avviene a contatto con i sacramenti è la conseguenza ulteriore che verifica la relazione: tra dono divino e la sua mediazione che implica chi lo riceve, a sua volta chiamato a somigliare, a divenire quanto ha ricevuto e a segnare con la propria esistenza la presenza di Cristo nella storia.
Verbum visibile non significa solo “parola visibile”. il Verbo che si vede è la sua carne che si tocca e che si fa toccare per divenire boccone di salvezza. Una parola dipinta nel desiderio, appresa per fame, in attesa che Egli venga.
I Padri della Chiesa legavano la straordinaria ricchezza della parola biblica parousía, che indica insieme presenza e avvenire, pegno e promessa, alla realtà dell’eucaristia, azione compiuta e in via di compimento, che alimenta il viaggio della salvezza, così da permettere che ognuno, nutrendosi, possa elevarsi più in alto di se stesso (Gregorio di Nissa), di cercare Colui che è trovato, perché si cresca, si avanzi, inseguendo il Signore che lo ha nutrito, così che lo si possa cercare ancora (Agostino). Origene, commentando nell’esperienza dell’Esodo il dono della manna, vede agire la mano provvidente del Signore come un motore che spinge, perché si deve uscire da quell’Egitto che schiavizza ogni tempo, ombra di ogni tappa del cammino, da percorrere con le tende sempre smontate. Anche la verità, per l’Alessandrino, non ha niente di duro, ha la sostanza eucaristica, così da non confondere il solido con il rigido. La dimensione sacramentale pone al centro la relazione concreta con la persona di Gesù, relazione che ha bisogno del gusto, dell’odorato, del contatto con la carne dell’uomo, della persona concreta di Gesù, che rende visibile l’invisibile.
Nel Medioevo, dobbiamo a Pietro Lombardo la composizione chiara della definizione di sacramento come segno visibile della grazia invisibile, specificando che esso permette sia di far agire sia di comunicare la grazia. Non sfugga che l’azione della grazia divina è legata alla capacità comunicativa del segno sacramentale. Cioè, quello che vediamo deve essere colto come ponte di transito, ancora un viaggio, verso ciò che non si vede, ma che realmente c’è, opera, ci tocca, facendosi toccare, e ci trasforma. Perché accada è necessario acquisire e suscitare una disposizione simbolica, attivare una sensibilità spirituale che veda l’invisibile.
La fede cristiana è prima di tutto una scuola di sguardo, e i simboli sono la verifica dell’apprendimento di questa attitudine. I Padri della Chiesa avevano immaginato, acquisendola dal linguaggio biblico, una doppia sensibilità: sensi materiali e sensi spirituali. Ma non inganni questo sdoppiamento. Esso non deve far pensare a una divaricazione sensoriale, che separa inesorabilmente corpo e spirito. A contestare questa deriva nociva, vale quello che il filosofo francese Jean-Luc Nancy attribuisce al cristianesimo, a cui riconosce di aver «inventato la religione del contatto, del sensibile, della presenza immediata al corpo e al cuore» (Noli me tangere, Torino 2005, 26). I primi secoli cristiani erano tentati dalla disincarnazione, trascinandosi una certa diffidenza nei confronti di quanto era materiale, e soprattutto di quello che, direttamente o indirettamente, aveva a che fare con il corpo, flirtando con la filosofia platonica che forniva lo strumento del dualismo per divaricare materia e spirito. Mettendoci in mezzo la lotta contro il male che si combatteva soprattutto sul corpo e si vinceva a scapito del corpo. L’esercizio dei sensi corporei veniva considerato fonte di passioni e di inganno. Ma questo inquietava il dato fondamentale della fede cristiana, che il Verbo si era fatto carne (cf. Gv 1, 14). Nella lingua greca, carne-sárx, indica la condizione creaturale, nella sua massima esposizione, vulnerabile, fragile, al peccato. Questo è precisato non per superare la corporeità resa dal greco sòma (e non è indifferente che questa parola si sia trasferita integra per indicare il carico da trasportare che si pone sul dorso degli asini, così come sembrerebbe un supplizio aver ricevuto un corpo indocile allo spirituale, che si subisce come peso penitenziale). Sárx indica tutto, condizione umana, corpo e creaturalità, come a darci la massima distanza rispetto al divino, distanza azzerata dal Figlio di Dio venuto «ad abitare in mezzo a noi». Ireneo di Lione, commentando la parabola della pecorella smarrita (cf. Lc 15, 1-7), vede condensata tutta la realtà della redenzione, vista come un viaggio, di prossimità e spoliazione (cf. Fil 2,7), del Verbo divino che scende a cercare la pecora perduta per caricarsela sulle spalle, così che possa percorrere il ritorno alla salvezza che non sarebbe stata possibile senza di Lui. Le spalle del Pastore significano la grazia che sostiene la possibilità nell’impossibile, l’azzeramento della distanza tra perdizione e salvezza, tra umano e divino. Tale è la realtà che si custodisce nella fede che dichiara che il Figlio è vero uomo e vero Dio. E la più grande difficoltà delle generazioni credenti dei primi secoli cristiani, e non solo, è stato aderire alla verità del suo essere veramente uomo. La maggior parte delle eresie cristologiche è su questo punto che si incista.
Tornando ai sensi spirituali, possiamo considerarli effetto di una trasfigurazione. Origene, difendendo la dottrina dell’incarnazione, vede operare una trasformazione dell’umanità: «Il Verbo si è fatto carne per poter essere accolto da coloro che erano incapaci di vederlo nella natura di Verbo che era presso Dio, ed era Dio. Per questo richiama a lui quelli che sono carne per renderli conformi al Verbo che è divenuto carne, e quindi innalzarli fino al punto di poterlo vedere, quale egli era prima di diventare carne» (Contro Celso 6, 68). Gli occhi della fede non sono un’altra cosa, ma una trasformazione dentro lo sguardo umano, un sentire che attraversa tutta la sensibilità umana che percepisce e riconosce la presenza divina nelle cose. Conosciamo quanto inquieti siano questa epoca e lo stesso Origene, nel divincolarsi dalla tentazione di pensare un’opposizione o una sostituzione dei sensi, riproponendo a fianco del dualismo platonico la dottrina paolina del necessario deporre l’uomo vecchio, e morire, per rinascere (cf. Ef 4, 17; 20-24), dove sarebbero i sensi corporali a dimettersi per dare spazio a quelli spirituali. Ma qui possiamo vedere anche la soluzione di una fenomenologia dei sensi che riscatta un sentire interiore e non parallelo, proponendo un sensibile trasfigurato e non rinnegato, per via di una sinergia spirituale-corporale, così come Agostino rilevò con chiarezza a proposito della sensazione: come non sfugge al corpo quello che accade all’anima, così non sfugge all’anima quello che accade al corpo (De quantitate animae, 25, 48). Anche Agostino lotta con il dualismo, e non poche sue pagine attestano un rifiuto della sensibilità, celebri quelle delle Confessioni dove i sensi materiali sembrano rimanere inchiodati in quanto soggetti all’influsso della concupiscenza, e suoi più temibili complici, così da costruire sui sensi lo schema del cosa e del come non sarebbe amore per Dio: «Non una bellezza corporea, né una grazia temporale: non lo splendore della luce, così caro a questi miei occhi, non le dolci melodie delle cantilene d’ogni tono, non la fragranza dei fiori, degli unguenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra che assecondano gli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio» (Confessioni 10, 6, 8). Eppure quello che qui sembra essere un ostacolo, più avanti diventa un diaframma, una soglia, così da permettere un transito, in forza di una relazione che si stabilisce tra lui e Dio: «Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio nella tua pace» (Confessioni 10, 27, 38). Sfondamento, liberazione, respiro, dentro la vista, il gusto, il tatto, visitati e trasfigurati dalla relazione con il Dio che tocca e si lascia toccare. Senza questo non potremmo comprendere che cosa determina la vita di fede che riceve e si nutre dei sacramenti, vedendo la realtà divina nel simbolo, la presenza e l’azione della grazia nelle cose. E si propone secondo un’iniziazione, una introduzione nella via della sequela trasfigurante l’umanità, e il suo sentire.
Cerchiamo ora di entrare nello spazio simbolico dell’eucaristia, considerando come questo sia generativo di vocazione, imprimendovi la sua qualità, che diventa anche il pungolo di verifica della sua reale consistenza eucaristica, nell’esigenza della somiglianza, che prenda in carico senza astrazioni o sublimazioni, la “carne”, l’umanità di ciascuno, forma visibile dell’invisibile che lo chiama a renderlo presente.
La prima cosa che dobbiamo fare è porre il segno nel suo contesto. Che è un luogo, ed è anche un tempo, che non devono essere separati dal segno: l’ultima cena, un pasto da consumare insieme ai suoi discepoli, una tavola, che è anche un testamento, in una dimensione rituale ebraica, molto probabilmente quella della cena di pasqua, che rinvia a una partenza, a un viaggio da compiere, a una liberazione da ricevere come dono che consente l’esigente cammino, l’esodo che diventa paradigma dell’intera esistenza credente. Attorno al pasto s’intrecciano due significati, quello umano, essenziale come il pane, della fragilità costitutiva di ognuno, per cui è necessario nutrirsi per vivere, e quello per cui il cuore possa rallegrarsi, perché la vita sia nel segno di una festa che senza il vino non potrebbe celebrarsi (cf. Sal 104, 15; Gv 2, 1-11). Poi c’è il rinvio a quelle pagine dell’Antico Testamento in cui a sigillo dell’alleanza stipulata si consumano insieme cibi e bevande (Gen 15,9 e ss.; 26, 30; 31, 46.54), che sono posti anche nell’attesa di Dio che si premura di preparare per l’ultimo giorno, un banchetto per tutti i popoli (cf. Is 25, 6-8). Nel tempo, ogni pasto, sia nella consistenza antropologica che in quella spirituale, dispone il futuro, che è lo spazio conviviale in cui tutti sono attesi «finché egli venga». E nel mentre siamo chiamati noi ad apparecchiare la tavola della gratuità: «Quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti» (Lc 14, 12-14).
San Paolo rimproverò alla comunità di Corinto (cf. 1Cor 11, 20-34) la disposizione autoreferenziale di chi consuma «in modo indegno» il cibo per sé, «prendendo il proprio pasto», all’opposto di quanto, invece, caratterizzava i primi credenti che avevano «un cuor solo e un’anima sola», e dove non c’era chi considerava «sua proprietà quello che gli apparteneva», perché «fra loro tutto era comune» (At 4, 32) Prendere il “proprio”, significava non dare spazio agli altri, istinto autoconservativo e autocelebrativo che lascia traccia nella sublimazione spirituale di chi cerca esclusivamente la propria salvezza, senza la generosità e la pazienza di attendere chi non è ancora arrivato, ma è nell’attesa di Dio. In tutta la storia della salvezza permane il pericolo, la tentazione di «non riconoscere il corpo del Signore», di scambiare i doni divini come consegnati a suggello di un privilegio esclusivo. Avvenne per l’elezione di Israele, data come compito inclusivo, ma ricevuta nell’ebbrezza di una presunzione che si traduceva in arroganza, in smemoratezza rispetto a quanto il Signore aveva fatto per loro: la moltitudine di uomini, donne, bambini, armenti, che aveva camminato nel deserto, giunta alla Terra Promessa, avrebbe dovuto abitarla sacramentalmente, facendo vedere nel segno di quel popolo le meraviglie di Dio. Così tutte gli altri popoli si sarebbero convinti che quello di Israele era il vero Dio. Lo avrebbero visto nella giustizia operata, nella cura verso chi era debole, nell’attenzione agli invisibili, ai senza diritti. Ma coltivando la presunzione di sentirsi prescelti per merito, finirono per convincersi di essere migliori degli altri, al di sopra dell’onesta valutazione della qualità reale del proprio vivere e operare, insidia di ogni superficiale discernimento vocazionale (cf. La tentazione della “persona religiosa” in Francesco, Fratelli tutti, 74)). E in questa convinzione si nutre la vanità (diffusa piaga ecclesiastica), matura l’ebbrezza della tracotanza, si annida l’origine di ogni abuso, si diventa operatori di ingiustizia, ci si consola nell’idolatria. L’esperienza dell’esilio a Babilonia, accompagnata dalla parola dei Profeti, diviene un esame di coscienza collettivo. Perduta la Terra, dissolte le ricchezze, distrutte le abitazioni, abbattuto il Tempio, tutto sembra perduto, anche Dio che avevano vincolato alle mura del Tempio, confinato in un luogo. Spogliati di tutto, nella loro nudità, potevano ora riscoprire quale era la vera forza, da chi proveniva, e che dispersi nelle nazioni, «nelle terre dove sono andati, io – dice il Signore Dio – sono diventato il loro santuario» (Ez 11, 16). Si ritorna così alla tenda mobile dell’arameo errante, alla religione del cuore, all’esperienza di un Dio Salvatore personale e comunitario, perché «nessuno si salva da solo» (Francesco, 27 marzo 2020).
Rientriamo ora a Corinto, che cosa accade in quella comunità per giustificare il severo ammonimento di san Paolo, necessario a comprendere l’esigenza della conformità eucaristica? Ci sono divisioni che si verificano osservando le riunioni per la Cena del Signore. Convivialità che documenta una distinzione-integrazione del luogo tradizionale della preghiera, il Tempio, che come attestano gli Atti degli Apostoli, veniva ancora frequentato in maniera concorde ogni giorno (cf. 2, 46a). Accanto al Tempio, ci sono le case dove ci si incontrava per «spezzare il pane» (2,46b), sconfinando la sacralità in uno spazio domestico, ricomponendola da esclusiva a inclusiva, dove il religere del religioso diveniva ospitale e liberante, accentuando il carattere paradossale del cristianesimo. Sotto gli occhi di san Paolo avveniva qualcosa che motivava il suo rimprovero: alla Cena si presentavano gruppi diversi che manifestavano una disgregazione incompatibile con la comunità che doveva esprimere l’indivisibilità dell’unico Corpo. Alcuni venivano prima e mangiavano tutto, altri arrivavano più tardi non trovando nulla. I primi erano ricchi, gli ultimi erano quelli che probabilmente dovendo guadagnarsi da vivere, o sottoposti in quanto schiavi alle angherie dei padroni, giungevano al termine del loro turno di lavoro. E così «quando vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la Cena del Signore. Ciascuno, infatti, quando partecipa alla Cena, prende il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco» (1Cor 11, 20-21). La ritualità deve essere garantita dall’esistenza di chi celebra e dalla conformità con il segno: Gesù che offre se stesso, che prende il pane e dice: «Questo è il mio corpo, che è per voi». L’eucaristia è espropriazione, dono, gratuità fuori da ogni logica retributiva: si spezza il pane, vero corpo di Cristo, lo si distribuisce per alimentare la sequela, per divenire quello che mangiamo, pane per gli altri: «Quanto vedete deposto sull’altare è il vostro mistero. A ciò che siete rispondete Amen, e rispondendo lo sottoscrivete. Ti si dice il corpo di Cristo, e tu rispondi Amen» (Agostino, Discorsi 272, 1). «Fate questo in memoria di me», è divenire eucaristia. Vedere questa chiamata insita nel dono è «riconoscere» il mistero della grazia divina “presente”, senza cui non ci sarebbe quel futuro nel quale Dio sarà «tutto in tutti» (1Cor 15, 28). Presenza non è realtà statica, la si coglie nell’attesa della Sua venuta.
Memoria e futuro costituiscono l’asse eucaristico che dona la forza per andare avanti, consapevoli di non bastare a se stessi: l’immobilismo, la conservazione e l’arroccamento in confini rigidi, ostacolano il viaggio della salvezza. L’eucaristia diventa, allora, un giudizio: «Chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna». Il “riconoscimento” è la chiarificazione della forma eucaristica da assumere nella propria esistenza, trasparenza cristica, umanità trasfigurata in pane per gli altri, verifica di ogni vocazione cristiana.
Torniamo ora nella sala in cui si è consumata l’ultima cena, e ricordiamo quanto abbiamo detto sulla necessità simbolica che introduce, senza cancellare il valore dei segni, nella prospettiva di una nuova dimensione: dal bisogno naturale a quello spirituale, nella sazietà la fame, inquietudine anelante perché permetterà di non avere più fame e sete per la vita eterna (cf. Gv 4, 13 ss.; 6, 27ss.; Ap 21, 6.17), «rimedio di immortalità» (Ignazio di Antiochia, Lettera agli Efesini 20, 2). Gesù è con i suoi discepoli, a consumare il pasto, ha tra le sue mani il pane e il vino, ed ecco che pronuncia parole che richiamano quelle ascoltate durante la moltiplicazione dei pani, dove si manifesta come pane di vita, e ancora, più avanti, come vera vite (cf. Gv 6, 35; 15, 1-8). Sono parole che aprono una prospettiva radicale, che non ammettono mezze misure, cautele o sublimazioni: «Questo è il mio corpo, che è per voi» e «questo è il mio sangue dell’alleanza» (1Cor 11, 24, ss; Mt 26, 26.28). Il Vangelo precisa che Gesù era a mensa con i Dodici. Poco prima di pronunciare quelle parole, aveva smascherato il tradimento di Giuda e sappiamo che, in seguito, Pietro lo avrebbe rinnegato. Attorno a lui non vi è un gruppo di persone perfette; si può immaginare che il precipitare degli eventi avrebbe sconvolto gli animi di tutti, lasciando solo il Maestro: non una prova di cui andare fieri. Eppure, è per loro che Gesù diventa cibo, per la loro vita (cf. Gv 14,6). Il segno trapassa se stesso: pane-cibo di sussistenza, corpo-cibo di vita eterna. I nostri occhi e la nostra bocca, nello stesso tempo, trattengono il sapore delle cose e in esse, non oltre, pregustano quello della promessa di essere Lui in noi e noi in Lui (cf. Gv 6, 56). Lezione altissima che rende la nostra umanità simbolo reale dell’eucaristia, suggellando il valore alto della corporeità, della nuda umanità, sacramentalmente coessenziale. Ma non perdiamo l’altro aspetto simbolico, legato al luogo, alla tavola, alla mensa, dove Gesù concentra la possibilità della relazione impossibile, realizza la prossimità sorprendente, inattesa con i peccatori. Ricordiamo la scena a casa di Levi, il pubblicano, il detestato collaboratore dei romani, una figura limite, quasi a rappresentare la massima distanza, l’acme del demerito. L’ha chiamato a seguirlo e, seduti a tavola, vediamo la prima sosta della sequela, del viaggio con il Signore. Una tappa conviviale aperta ai molti pubblicani e peccatori che quel giorno mangiarono con lui, che di fronte allo scandalo per i benpensanti, per coloro che credono di spartirsi una condizione esclusiva, inchioda i loro pensieri all’epigrafe della sacralità compatibile con l’impurità: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc 2, 15-17). Epifania della gratuità dell’amore di Dio, estranea alla logica retributiva, precedenza del dono: «Mentre eravamo ancora peccatori Cristo è morto per noi» (Rm 5, 8). E questa evidenza, che troppe volte viene smarrita, ispirò sant’Ambrogio a contestare quanti pensavano all’eucaristia come premio per i perfetti, mentre doveva riceversi come farmaco per i malati: «Ogni volta che riceviamo il corpo di Cristo annunziamo la morte del Signore. Se annunziamo la morte, annunziamo la remissione dei peccati. Se ogni volta che il sangue viene sparso, viene sparso in remissione dei peccati, allora devo riceverlo sempre, perché mi rimetta i peccati. Io che sempre pecco, sempre devo avere la medicina» (I sacramenti 4, 28). Dunque, quella tavolata come quella cena, l’Ultima, impregnano l’eucaristia del suo più acuto segnale: «Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19, 1-10). Di questo si imbeve la chiamata di Levi e da questo si dispone, per ogni vocazione, il segno eucaristico, sigillo della gratuità e della misericordia, servizio ai cammini affaticati nella ricerca dell’«impronta della sua sostanza» (Eb 1, 3), dell’umanità che ha un posto a tavola e nel «catino» in cui Gesù lava i piedi ai suoi discepoli un esempio «perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (cf. Gv 13, 1-15). Il pane, il vino, e il catino, le vesti deposte e un grembiule ai fianchi, annunciano la vita salvata, contrassegnano la missione generata dall’eucaristia. La simbolica della gratuità dell’amore divino si opacizza lì dove i segni sono prigionieri della sacralità intangibile, autoreferenziale, parallela alla vita, generativa di ministerialità che non «accorcia le distanze», che non tocca più «la carne sofferente di Cristo nel popolo» (cf. Evangelii gaudium 24), che non sa riconoscere il corpo del Signore in chi ha bisogno (cf. Mt 25, 31-45). Pericolo persistente nella storia cristiana: «Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in Chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: Questo è il mio corpo, confermando il fatto con la parola, ha detto anche: Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare [Mt 25, 42], e ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli fra questi, non l’avete fatto neppure a me [Mt 25, 45]. Il corpo di Cristo che sta sull’altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure; mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta cura» (Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 50, 3-4).
La vocazione cristiana partecipa di quanto riportato nel celebre aforisma, distillato dalla sapienza patristica da Henri de Lubac: l’Eucaristia fa la Chiesa e la Chiesa fa l’Eucaristia. Ma domandiamoci, di fronte alle pesanti crisi che attraversano il nostro tempo e feriscono la vita ecclesiale, che se è vero che la Chiesa fa l’eucaristia, non sempre accade che l’eucaristia faccia la Chiesa. I santi segni devono essere riempiti di vita, così che il simbolo trabocchi di passione e si spezzi, come accadde con il vasetto di alabastro nell’unzione di Betania, anche lì una cena (cf. Gv 12, 1-8). Apparve uno spreco, ma necessario a riempire la casa di profumo, quello della salvezza che il mondo attende di respirare. Una vita che si consegna alla missione del regno di Dio, appare a molti uno spreco, come quel corpo spezzato per un gruppo di persone non all’altezza del dono. E il simbolo si spezza non per annullarsi, non per disincarnarsi (esigenza di una formazione umanizzante), ma per divenire transito (la vita è viaggio tra memoria e futuro di Dio), e così trasfigurarsi. Deporre le vesti e cingersi un grembiule, è conformità eucaristica, sequela di Gesù, l’uomo svuotato (cf. Fil 2, 5-8), che si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà (cf. 2Cor 8,9), epifania della libertà, sorpresa della gratuità. Come Lui (si diventa suo sacramento nella consistenza dell’essere persone autentiche, consapevoli, poveramente generose), siamo inviati al servizio dei cammini differenti, secondo tempi e bisogni diversi, ospitali, espropriati di ogni esclusività e possesso (criterio del celibato), pane per gli altri, fedeli al compito di unificare il mondo in Dio.