La vita è forte, più che facile
La storia semplice di chi ha scelto di restare
“Mi avete dato la possibilità di parlare”, dice prima ancora che inizi l’intervista questa splendida novantenne: non ce ne voglia l’allora splendido quarantenne Moretti, ma la signora Rosaria dà una pista a tutti.
“Quando mi guardo allo specchio mi viene da piangere, perché non mi sento neanche io”, considera senza autocompatirsi. E quanto di femminile e di umano ci restituisce in questa semplice constatazione: il corpo invecchia, il cervello resta attivo e ci si stupisce di come ci possa essere una tale disparità tra gli anni che ci restituisce l’immagine riflessa e quella che invece percepiamo nel nostro vivere quotidiano. “Nonostante io abbia 91 anni, a qualcuno viene in mente che io sia mezza stordita, invece non è vero!”, ribadisce con forza, “Alcune persone pensano che avendo io questa età dovrei essere tra coloro che son sospesi. Io ringrazio Dio per avere questa lucidità come quando avevo vent’anni. Seguo la televisione, faccio le parole crociate, leggo, mi interesso di politica, ragiono su qualunque cosa, non apro mai la bocca a vanvera”. In poche righe la ricetta per la longevità sana: tenersi impegnati, occupare le giornate coltivando interessi, mantenere allenato il sistema cognitivo, riconoscere e rivendicare la propria autonomia di ragionamento, di pensiero, riflettere prima di parlare.
“Rifarei tutto quello che ho fatto”, dichiara luminosa, “Avevamo un’altra predisposizione per la vita, miravamo al futuro, a studiare, a compensare i sacrifici che facevano i genitori”.
Ragazza catanese laureata in chimica farmaceutica negli anni ’50 del secolo scorso, già con questo elemento spazza via lo stereotipo della donna di quel tempo, per di più del Sud, che troppa pubblicistica ci ha consegnato chiusa in casa senza istruzione. E invece, settant’anni fa (“Mi sono laureata a 23 anni e un mese”, ricorda con orgoglio) lei finiva l’università studiando con successo una disciplina che oggi dichiareremmo, con sussiego, STEM.
Una vita da insegnante alle scuole Medie, anche in quartieri difficili, sempre appagata della propria scelta: “Sono sempre stata molto bene con i ragazzini delle Medie: li prendevo bambini dalla quinta elementare e li portavo a 14 anni quando avevano la voce da uomini. E per me era una soddisfazione. Ancora adesso ne incontro qualcuno, anche i genitori, al mercato, o in banca, mi fanno le feste”. Per cosa si ricordano gli insegnanti amati? Per il loro modo di prestarci attenzione, di riconoscerci come alunni amati, ma pur sempre studenti, da formare alla vita. Dal metodo educativo improntato sull’autorevolezza – non sull’autorità – e sull’affetto. “Mio padre me lo diceva: ‘sei severa’. E io gli rispondevo: ‘e tu come sei stato con noi? Non sei stato severo? Perché ci hai cresciuti così bene? Perché sei stato severo!’ Così si fa, nella vita come con i figli: amore e rigore, sennò non funziona”.
E dire che gli inizi non sono stati facili, il primo incarico, giovane sposa a Roma, è a 30 km da casa: “Quando il preside mi ha chiamata mi sono emozionata, ho chiamato mio marito subito. Lui mi ha detto: ‘Io non ti dico né vai né non vai, ma ti dico solo una cosa, se vai prendi la macchina grande’. E io ho cominciato con una Giulia, che avevo il terrore, come acceleravo schizzava sul raccordo”. Sorride nel raccontarlo, mima il gesto della macchina che corre e io penso a quanta forza ci vuole, pur nel timore, per seguire un progetto, per conquistare un’autonomia lavorativa.
“Sono stata coraggiosa nella vita, e credo anche fortunata. Anche se ho avuto il disastro di perdere il marito, che è stata la cosa peggiore che mi sia successa”: Rosaria è vedova da quarant’anni e ancora adesso, di tutti i dolori, grandi e piccoli, che hanno scandito la sua vita, di tutte le perdite, la peggiore è stata quella dell’amato marito. Quanto insegna questo sull’amore tra coniugi, sul senso del matrimonio? Parla del suo Antonino e si commuove. “Andavamo d’accordo, ci volevamo bene, ci comprendevamo. C’era un’intesa particolare, com’era una volta. Mica come adesso che non si capisce più niente. C’era educazione, rispetto reciproco, complicità. Noi ci capivamo con uno sguardo”. Scorrono le foto, che Rosaria ha appeso su ogni muro dopo che lui è morto, in questa casa congelata nel tempo e piena di ricordi, eppure ancora vivace nella sua austerità. Sono felici, come in tutte le immagini di famiglia esposte in ogni casa, ma si legge nei loro sorrisi, nei loro sguardi, una complicità rara, una sicurezza serena. Cosa le manca di più di suo marito? Non c’è esitazione: “Lui. E sono 40 anni, non un giorno”. Nello sguardo della novantenne passa un lampo d’ironia. Tra la commiserazione per chi le fa una domanda così ingenua (“Se lui era tutto, di lui mi manca tutto”), e l’aria sbarazzina di chi riporta alla mente un episodio divertente, una celia nota solo a loro. Come nella foto della Regina Elisabetta, già anziana, che passa davanti al principe Filippo, vestito da Guardia reale. Lui accenna un sorriso sornione nel momento in cui lei lo riconosce, Elisabetta, colto lo scherzo, ride come una ragazzina.
“L’unica situazione irreversibile della vita è la morte. Le altre cose si superano. Ma la morte non si supera”, spiega con decisione nel ricordare quei momenti di sofferenza “Mio marito è morto proprio a 25 anni dal matrimonio, con le bomboniere pronte per festeggiare, da distribuire ai parenti e agli amici”. E qui il cuore si fa piccolo: cosa vuol dire passare dalla gioia del festeggiamento al lutto improvviso? Ma Rosaria non si è arresa: “Che dovevo fare? Mi sono tirata su le maniche e mi sono detta: qui due sono le cose, o ti butti dalla finestra oppure devi continuare a campare”. E ha scelto la vita, restando dove era, come era. “I miei alunni mi hanno aiutata, il lavoro mi ha tirata su”, ecco un’altra piccola traccia di vita ben vissuta: sapere di poter contare su una professione che piace, in un ambito che funge da famiglia allargata, in cui le relazioni tengono tutto insieme.
In fondo, dice “La vita più è semplice, più te la godi, più stai serena e meno ti avventi contro gli altri”. E nel vivere c’è spazio per la preghiera: “La sera, quando mi metto a letto, ringrazio: Signore, è passata un’altra giornata. Quante volte, camminando per casa col mio trabiccolo (il deambulatore n.d.r.) ringrazio il Signore: grazie per avermi fatto nascere in una buona famiglia, avermi dato questa capacità di logica, una memoria di ferro, un marito che era una persona eccezionale. Io ho vissuto bene, e di questo ringrazio il Signore”. Quanta umiltà c’è in questo rendimento di grazie, il riconoscere che tutto ci viene donato, che di nostro nelle nostre mani c’è poco: “C’era un rapporto, con mio marito, uno scambio naturale: io tenevo a lui e lui teneva a me. Purtroppo però quando ci sono queste situazioni, viene Gesù Cristo e se lo prende, che cosa ci posso fare?”. Rosaria fa come il salmista biblico, non maledice il Signore, ma si ferma a ringraziarlo.
“La vita è pesante”, ammette, “e più è lunga e più pesantezza c’è, perché gli avvenimenti della vita sono tanti. Giorno per giorno sono cose diverse. E non è che puoi dire cosa è meglio e cosa è peggio. Sono tutti ostacoli da superare ogni giorno”. E come si superano? Di nuovo lo sguardo fermo dell’antica insegnante: “Con la volontà, con la logica, senza dare in escandescenze e cercando di ragionare. Col ragionamento si supera tutto, solo la morte non si supera, le altre cose si superano, con la buona volontà”. E qui, Immanuel Kant e Vittorio Alfieri, da qualche parte nell’aldilà, hanno drizzato le spalle all’unisono, anche loro come me.
Nel tempo passato con Rosaria non si può non pensare agli anziani della propria famiglia, a chi non c’è più e a chi c’è ancora. È uno dei tanti racconti cui avremmo potuto prestare attenzione, cui ciascuno è chiamato a dar seguito. Il suo ringraziamento iniziale, prima ancora di cominciare, richiama l’appello inesausto di Papa Francesco: “Chiediamoci: ‘Ho fatto una visita ai nonni? Agli anziani della mia famiglia o del mio quartiere? Ho prestato loro ascolto? Ho dedicato loro un po’ di tempo?’” (25 luglio 2021).
Ascoltare anziani pacificati con la vita e con se stessi è sorgente di sapienza e di tenerezza: quando si coglie un invecchiare bene, avendo raccolto cose buone e lasciato via l’astio, ogni aneddoto, ogni frammento di vita, apre l’interlocutore allo stupore, alla bellezza dell’esistenza. Anche la più semplice.