La Speranza che non delude
Servire il Vangelo del Regno in un “mondo diventato adulto”
«La speranza è una fune: potesse sperare, un dannato,
Dio lo trarrebbe dal fango nel quale è sprofondato»
Angelus Silesius
La speranza alla prova
Mi ha sempre colpito uno dei passaggi del Diario di un curato di Campagna di Georges Bernanos, che non esito a definire come un vero e proprio pugno allo stomaco perché sa mettere a nudo la condizione umana e, in particolare, quella in cui versano coloro che sono chiamati a parlare della speranza e, ancora di più, a testimoniarla: «Il peccato contro la speranza – il più mortale di tutti, è forse il meglio tollerato, il più vezzeggiato. Solo dopo molto tempo lo si riconosce, e la tristezza che lo annuncia, lo precede, come è dolce! È il più sostanzioso tra gli elisir del demonio, la sua ambrosia».
Il testo prosegue interrompendosi, ovvero con una “pagina strappata”, poiché il venir meno della speranza azzera ogni futuro, fa implodere ogni possibile orizzonte di senso. Un’esistenza dalla quale la speranza ha preso congedo è, infatti, gettata nel mondo e nel tempo, senza il riconoscimento di alcuna provenienza o destinazione, senza memoria e senza attesa. È la tentazione alla quale il giovane curato per un istante sembra cedere soprattutto nel momento in cui deve fare i conti con la realtà della malattia mortale che gli annunzia un medico tanto cinico quanto onesto: «…i vostri teologi hanno fatto della speranza una virtù, la vostra Speranza ha le mani giunte. Passi per questa Speranza, nessuno l’ha mai vista da vicino una divinità fatta così. Ma la speranza dell’uomo è una bestia, glielo dico io, una bestia che vive dentro all’uomo, una bestia potente e feroce. Meglio lasciarla spegnersi adagio adagio. Oppure badi a non fare cilecca perché se no vedrà come tira fuori gli artigli, come azzanna!». Ebbene, nelle parole crude e crudeli del medico è nascosta e nello stesso tempo rivelata un’insidia molto seria a cui ogni riflessione sulla speranza è soggetta: fare della speranza, appunto, un argomento di riflessione, di discussione, o manovrarla per lubrificare gli ingranaggi, sempre più arrugginiti e malfunzionanti, della consolazione a basso prezzo. Della speranza, invece, se ne deve parlare e se ne può parlare, ma alzando il tiro e facendosi carico della responsabilità del pensiero e delle parole.
Non consiste forse in tutto ciò rendere ragione della speranza (cf. 1Pt 3,15-16) in una società postcristiana che non ne chiede più conto e ragione ai credenti, ma vive nell’indifferenza e nell’epoca del disincanto, che si accontenta di gestire il proprio presente e di programmare il proprio domani grazie all’accumulo di micro-speranze in grado di fargli raggiungere non tanto la meta ultima del cammino della vita quanto piuttosto il villaggio successivo?
Questione, questa, ripresa anche nel documento della Pontificia Opera per le Vocazioni Ecclesiastiche su Nuove vocazioni per una nuova Europa, del 1997, al n. 33, in cui si afferma che il modello antropologico prevalente nel mondo di oggi sembra essere quello dell’uomo senza vocazione. Il contesto sociale in cui ci troviamo a vivere è infatti, “eticamente neutro e privo di speranza e di modelli progettuali”. Si tratta di elementi che concorrono a indebolire la proposta vocazionale che stenta a suscitare un immediato consenso. Non per questo, secondo l’insegnamento che proviene dalle parabole evangeliche del regno, bisogna disperare che quel seme che appare come soffocato da altre attese e progetti e che non viene preso sul serio o al massimo con sospetto e diffidenza, possa invece produrre qualche frutto.
L’offuscamento della speranza
Sono fin troppo note le accuse mosse ai cristiani ormai da secoli e formalizzate dai grandi filosofi del sospetto, primo tra tutti Nietzsche, circa il carattere ambiguo e fuorviante della loro speranza, tutta intenta a schiudere gli orizzonti di un mondo a venire non meglio precisato e a restringere, di conseguenza, l’orizzonte del mondo e della storia che gli uomini effettivamente abitano e vivono. L’onda lunga della critica, a tratti anche fondata – bisogna ammetterlo, vista la prassi di vita e la visione delle cose di alcuni cristiani – ha raggiunto anche il nostro tempo ed è divenuta un’atmosfera nella quale di fatto viviamo e affrontiamo la vita di tutti i giorni, senza neppure percepirne più gli odori e gli umori. Non meraviglia, dunque, che per alcuni la fede e la speranza non siano altro se non degli «squallidi sostegni del nostro incerto destino», come scriveva tempo fa, ad esempio, Manlio Sgalambro, “filosofo” siciliano divenuto famoso al grande pubblico per la sua collaborazione con Franco Battiato. È lui ad affermare nel suo Trattato dell’empietà che l’unica via per destrutturare la speranza cristiana e per smascherarne le menzogne è quella che porta ad attaccare la radice stessa di ogni inganno, ovvero Dio. La nozione di Dio, infatti, non deve essere altro se non una resprofessionale, buttata sul tavolo da lavoro, maneggiabile con destrezza e sicurezza. Così facendo ci si allontanerà e ci si distaccherà da Dio ritenuto principio ‘positivo’ di tutte le cose e quindi garanzia di una fine altrettanto ‘positiva’ dell’esistenza del mondo e di ogni singolo uomo. Il prezzo da pagare è alto, ovvero non sperare più nella speranza, ma il guadagno che si ricava da questa operazione è ancora più alto: svegliarsi sobri dall’ubriacatura della speranza e guardare finalmente il mondo e la storia nella loro cruda verità.
Potremmo continuare molto a lungo su questo registro e chiamare in causa autori molto più autorevoli i quali con argomenti avvincenti e convincenti sono stati in grado di minare le stesse fondamenta della speranza cristiana. Ebbene, questo stato di cose per il credente non è affatto un pericolo quanto piuttosto una chance che gli viene offerta per impegnarsi in un lavoro serio e faticoso di “risignificazione” e riscoperta dei lineamenti della sua speranza e quindi della speranza della Chiesa.
Un passo in questa direzione lo ha fatto già Giovanni Paolo II nell’Esortazione Apostolica Ecclesia in Europa (EE), del 2003, di cui ricorre il ventesimo anniversario. In quel documento, infatti, il papa denunciava il pericolo – prossimo, sempre in agguato, non solo per i singoli, ma anche per i popoli e le nazioni e per la stessa Europa – dell’offuscamento della speranza che si acuisce nel tempo che stiamo vivendo segnato da sfide sempre più impegnative che mettono a dura prova la tenuta dei singoli quanto dei popoli, generando una diffusa sensazione di smarrimento, di disorientamento, di incertezza; tutti elementi che potrebbero essere ricondotti a un denominatore comune: la mancanza di speranza. La situazione, se possibile, è resa ancora più complicata dalla presa d’atto che anche molti cristiani condividono questi stati d’animo (EE n. 7).
La conseguenza più immediata di tutto questo è la paura ad affrontare il futuro che non ha più i tratti chiari e distinti di quello immaginato e sperato dalle generazioni passate, perché ormai, venuti meno i punti di riferimento del passato, le grandi visioni e narrazioni della storia, appare sempre più sbiadito e incerto. Anche per questo, scriveva il papa, “del futuro si ha più paura che desiderio” (EE n. 9).
Eppure, se l’uomo vivesse senza speranza verrebbe meno il senso stesso della sua vita e la sua esistenza sarebbe insopportabile (EE n. 10). Anche per questo, spesso sbagliando, gli uomini ripongono la loro speranza in ciò che non è in grado di sostenerla e giustificarla, e così facendo si consegnano a ciò che al massimo può fornire loro, per un po’ di tempo e in modo parziale, una speranza alla lunga in-affidabile.
Non è forse questa la speranza che viene fatta coincidere con il paradiso promesso dalla scienza e dalla tecnica, o quella che propugnano le diverse forme di messianismo e millenarismo sempre più di moda (forme ibride di spiritualità in cui elementi di ecologismo estremo si combinano con una cura idolatrica per il corpo e la predilezione per stili di vita tipici di un non meglio precisato mondo orientale)? Non è anche questa la speranza proposta dalla moderna società del consumo e dell’immagine che predica una felicità immaginaria e artificiale di natura edonistica a destinatari dall’identità modulare e patologicamente aperta?
Tra l’altro, «regna la contraddizione in questo mondo che esclude la fede, ma non la ricerca della fede, la speranza, ma non la speranza della speranza, la verità quaggiù e al di là, ma non il ricorso a una verità assolutamente ultima» (Maurice Blanchot).
La speranza per un futuro in-certo
La mancanza di futuro, di un vero futuro, come non solo la fine, ma anche il fine della storia, è la caratteristica distintiva dell’epoca post-moderna. A questa epoca è necessario annunciare il vangelo della speranza, riproporre ancora una volta Cristo come speranza del mondo e dell’uomo, come colui che non solo è capace di creare futuro, ma anche e soprattutto come il futuro stesso del mondo. Egli non è semplicemente il futuro del mondo nel senso di futurum (ciò che si aspetta e che una volta giunto non è più futuro perché diventa prima o poi presente e quindi passato), ma di adventus (ciò che rimane sempre futuro rispetto a tutte le sue possibili realizzazioni storiche e a tutte le sue anticipazioni). Egli è colui che rimane la forza che orienta e spinge la storia e le dà una direzione verso la sua meta ultima e definitiva; colui che rimane sempre prossimo/vicino e che nello stesso tempo trascende la storia e il mondo.
Il destinatario di questo annuncio è l’uomo contemporaneo il quale deve riconoscere il futuro assoluto che gli viene incontro come il “futuro atteso; un uomo che ha fatto esperienza della fragilità delle ideologie, delle utopie e dei progetti globali che animavano le generazioni passate e nelle quali poneva la sua fiducia e speranza, e che per questo si è rifugiato nel quotidiano e nella gestione di “micro-progetti” individualistici piuttosto che di “mega-progetti” sociali; un uomo il quale ciò che spera e ciò che cerca è la realizzazione di ciò che appaga i suoi immediati bisogni e che risponde ai suoi più elementari desideri.
L’unica legge che forse governa il mondo di oggi è, infatti, la differenziazione senza fine, la frammentazione e la moltiplicazione. Non si cerca più la salvezza, ma ci si accontenta del benessere, dal momento che è stata operata non solo la secolarizzazione della salvezza, ma anche la secolarizzazione dalla salvezza: ciò che pertanto l’uomo desidera è affrontare il proprio presente o al massimo il proprio domani, in tutto questo, l’homo faber ha preso il posto di Dio e si è reso garante della propria realizzazione semplicemente mondana. Il vero futuro rimane per lui assolutamente indisponibile e fors’anche improbabile, certamente troppo lontano per essere pensato e costruito in un tempo in cui lo strapotere della scienza e della tecnica da un lato gli lascia presagire scenari di salvezza sempre più affascinanti, paradisi artificiali e virtuali precedentemente offerti dalla visione religiosa, dall’altro gli fa temere per il suo stesso futuro, in quanto avvicina pericolosamente sempre più lo spauracchio di una conclusione apocalittica del mondo e della storia.
L’insicurezza è quindi la cifra del mondo contemporaneo, come la pandemia da Covid-19 e le attuali congiunture politiche internazionali ci hanno tristemente insegnato e continuano a ricordarci. Le condizioni generali del pianeta, la sempre crescente crisi energetica, il cambiamento globale del clima, l’aumento demografico, l’affermazione di nuove superpotenze economiche e militari che stanno mettendo in discussione gli equilibri internazionali precedentemente raggiunti, la paura per catastrofiche epidemie batteriche, ecc., rendono ancora più cupi gli scenari del futuro e più incerta la meta che l’umanità si sta lentamente avviando a raggiungere.
L’uomo contemporaneo si percepisce come disperso e vagante nel labirinto del mondo. In questo clima, papa Benedetto XVI già nella sua enciclica Spe salvi parlava della speranza come di ciò che permette di affrontare il presente perché orienta verso una meta di cui siamo sicuri. I cristiani, infatti, poggiando la propria sicurezza unicamente sulla parola di Dio, nonostante le prove del presente, «sanno nell’insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente» (n. 2). Per questa ragione i cristiani, che hanno un futuro, non possono affliggersi di fronte alle prove della storia e della vita, come coloro che non hanno speranza (cf. 1Ts 4,13).
Il Vangelo della speranza
Questo vale soprattutto per i ministri ordinati i quali, in virtù del loro ufficio, sono chiamati a “celebrare, insegnare e servire in un modo speciale il vangelo della speranza” (EE n. 34). Come? Rimanendo profondamente inseriti nel mondo, ma non diventando, per questo, proprietà del mondo, dal momento che sono nel mondo, ma non del mondo (cf. Gv 17,15-16). Questo vale per ogni altro discepolo di Gesù, ma nell’attuale situazione culturale e spirituale che l’umanità intera vive e che l’Europa in particolare sta sperimentando, essi sono chiamati in modo del tutto particolare a essere segno di contraddizione e di speranza, condannando apertamente e senza riserve le ingiustizie e il male che affligge soprattutto i più deboli e interi popoli, e indicando in Cristo e nel suo vangelo la via di liberazione e di salvezza per tutti.
In una società in cui tutto ciò che è possibile è divenuto lecito e dove l’unica cosa certa è che tutto è incerto e negoziabile, una società in cui tutto è soggetto a continua e ininterrotta revisione e in cui si è consumata una radicale crisi dell’identità perché ciò che conta è esclusivamente l’attimo fuggente, il qui e adesso, l’accumulo di quante più esperienze possibili in tutti i campi dell’esistenza, il celibato sacerdotale (espressione di una dedizione incondizionata e piena) rischia di apparire come un reperto archeologico testimone di un passato percepito perfino come crudele e disumano, e non più come segno di una speranza riposta totalmente nel Signore Risorto. Con estrema difficoltà, infatti, viene colto il suo valore profetico per il mondo attuale, la sua vera natura che consiste nell’essere una testimonianza resa al regno escatologico, un fattore di crescita per gli uomini e le donne anche di questa generazione. La totale consacrazione all’annuncio del vangelo della speranza rende infatti il ministro ordinato una pietra di scandalo per un mondo che sembra aver perso di vista la dimensione trascendente dell’esistenza e della storia per ripiegarsi su quanto è alla sua portata e su quanto può essere ripetutamente fatto e disfatto senza troppo impegno.
Ebbene, proprio a questo mondo, in cui tutto questo convive e sta in tensione con una irreprimibile ricerca di senso, tutti i cristiani e soprattutto coloro che vivono o sono chiamati a vivere una vita di speciale consacrazione, devono ricordare, con la loro stessa esistenza, con lo stile della loro vita, che si deve soggiornare sulla terra ma come stranieri e ospiti, animati dalla promessa della città dalle salde fondamenta il cui “architetto e costruttore è Dio stesso” (cf. Eb 11,10). Ciò non vuol dire affatto “elevare la speranza dell’uomo verso il miraggio di una vita futura” distogliendolo dall’edificazione della città terrena (cf. Gaudium et spes 20), e questo perché «la Chiesa insegna che la speranza escatologica non diminuisce l’importanza degli impegni terreni, ma anzi dà nuovi motivi a sostegno dell’attuazione di essi» (Gaudium et spes 21).
In tutto ciò i ministri ordinari sono chiamati a svolgere un ruolo insostituibile e non possono derogare ad altri quanto è strettamente legato alla loro presenza nella Chiesa e al loro servizio a favore non solo delle comunità cristiane, ma anche dell’intera umanità.
Da questo punto di vista, si fa ancora più chiara l’emergenza che stiamo vivendo. Ecco, dunque, che dal momento che «l’impegno dei ministri ordinati e dei consacrati è determinante, non si può tacere la carenza inquietante di seminaristi e di aspiranti alla vita religiosa, soprattutto nell’Europa occidentale. Questa situazione richiede l’impegno di tutti per un’adeguata pastorale delle vocazioni» (EE n. 39). Se infatti i ministri ordinati sono i primi testimoni della speranza cristiana in un mondo che sta attraversando una crisi davvero profonda, allora la loro esistenza e la loro presenza nella società contemporanea è lievito di speranza che fa fermentare la massa. Per questa ragione, nello stesso numero, il papa continuava dicendo che «solo quando ai giovani viene presentata la persona di Gesù Cristo in tutta la sua pienezza, si accende in loro una speranza che li spinge a lasciare tutto per seguirlo, rispondendo alla sua chiamata, e per darne testimonianza» per una generazione alla quale la chiesa di rivolge, ancora una volta, per «annunciare, celebrare e servire il vangelo della speranza», nella certezza che lo Spirito Santo è all’opera anche oggi, e che i segnali di questa presenza non mancano, ma anche con la consapevolezza che gli stessi sacerdoti devono vivere e operare coerentemente perché l’immagine che danno di se stessi non sia “opaca o languida” e quindi incapace di attirare i giovani ad imitarli.
E se il mondo di oggi ha bisogno innanzitutto di testimoni credibili nei quali poter vedere chiaramente riflessa la verità dell’annuncio del vangelo della speranza, allora non può non essere indicata Maria anche ai più giovani quale motivo di consolazione, immagine e modello del credente che ripone la sua speranza nella promessa di Dio in Cristo. Maria, infatti, è «figura della Chiesa che, nutrita dalla speranza, riconosce l’azione salvifica e misericordiosa di Dio, alla cui luce legge il proprio cammino e tutta la storia. Ella ci aiuta a interpretare anche oggi le nostre vicende in riferimento al suo Figlio Gesù. Creatura nuova plasmata dallo Spirito Santo, Maria fa crescere in noi la virtù della speranza» (EE n. 125).
Per usare un’espressione del già citato documento della Pontificia Opera per le Vocazioni Ecclesiastiche, Maria è l’immagine perfetta di ogni cristiano e soprattutto di coloro che sono chiamati a una vita di speciale consacrazione, «samaritani della speranza» in un “mondo lacerato da discordie”, per coloro con cui condividono la fatica del cammino (n. 7).
Credo che il senso di alcune queste espressioni fosse in qualche modo già contenuto nel celebre libro di Jürgen Moltmann, Teologia della speranza, lì dove il teologo tedesco già un bel po’ di decenni fa ci ricordava che «il cristianesimo è speranza, è orientamento e movimento in avanti e perciò è anche rivoluzionamento e trasformazione del presente». Se questo è vero, continuava, allora «l’elemento escatologico non è una delle componenti del cristianesimo, ma è in senso assoluto il tramite della fede cristiana, è la nota su cui si accorda tutto il resto».
Tutto ciò vuol dire che la speranza cristiana è “attaccabile” solo nella misura in cui si trasforma in ciò che essa non è, nella sua caricatura, nel suo contrario, e cessa di farsi carico delle domande radicali dell’uomo circa il significato del dolore innocente e del male, circa il senso della vita e della morte. Essa, in tal senso, non si aggiunge né si sostituisce, ridicolizzandole, alle speranze degli uomini, ma le illumina perché le pone nello spazio della trascendenza divina nella quale il futuro è veramente tale, perfino di fronte al negativo della morte.
Cristo, nostra speranza
Tutto questo, ancora una volta, perché la speranza cristiana ha un nome ed ha un volto. Infatti, non si può essere declinata al plurale, ma soltanto al singolare: Cristo, nostra speranza, nel quale e per il quale ogni altra realtà assume la sua giusta profondità e il suo autentico valore. Proprio perché la speranza cristiana ha un volto e un nome ben precisi è affidabile e si distingue dalle speranze che, per quanto giustificate, sono ristrette in un ambito intramondano e chiuso alla trascendenza.
Come non ricordare, a questo proposito le parole che papa Francesco pronunciò, ad esempio, dopo la preghiera dell’Angelus del 15 novembre 2015? In quell’occasione il papa disse: «Noi non attendiamo un tempo o un luogo, ma andiamo incontro a una persona: Gesù. Pertanto, il problema non è “quando” accadranno i segni premonitori degli ultimi tempi, ma il farsi trovare pronti all’incontro. E non si tratta nemmeno di sapere “come” avverranno queste cose, ma “come” dobbiamo comportarci, oggi, nell’attesa di esse. Siamo chiamati a vivere il presente, costruendo il nostro futuro con serenità e fiducia in Dio. La parabola del fico che germoglia, come segno dell’estate ormai vicina, dice che la prospettiva della fine non ci distoglie dalla vita presente, ma ci fa guardare ai nostri giorni in un’ottica di speranza». Sempre in quell’occasione, il papa riconosceva che la speranza in effetti è la virtù che forse più di tutte le altre «è tanto difficile da vivere: la speranza, la più piccola delle virtù, ma la più forte». Ma, come già si diceva, per il papa «la nostra speranza ha un volto: il volto del Signore risorto, che viene “con grande potenza e gloria”, che cioè manifesta il suo amore crocifisso trasfigurato nella risurrezione. Il trionfo di Gesù alla fine dei tempi sarà il trionfo della Croce, la dimostrazione che il sacrificio di se stessi per amore del prossimo, ad imitazione di Cristo, è l’unica potenza vittoriosa e l’unico punto fermo in mezzo agli sconvolgimenti e alle tragedie del mondo».
La vocazione di coloro che sono chiamati a svolgere il ministero ordinato a servizio della chiesa – “sacrificio di se stessi per amore del prossimo” – al di furori di questa “logica” non può avere alcun fondamento e sarebbe destinata al naufragio.
Anche per questo, sempre papa Francesco, questa volta nel suo Messaggio per la 59a giornata mondiale di preghiera per le vocazioni che si è celebrata l’8 maggio 2022, ha scritto, coinvolgendo l’intero creato nell’unico piano divino di salvezza, che «siamo chiamati a essere custodi gli uni degli altri, a costruire legami di concordia e di condivisione, a curare le ferite del creato perché non venga distrutta la sua bellezza». In altre parole, «non solo i singoli, ma anche i popoli, le comunità e le aggregazioni di vario genere hanno una “vocazione”». Soltanto nello spazio dischiuso da questa “vocazione comune”, «si inserisce la chiamata più particolare che Dio ci rivolge, raggiungendo la nostra esistenza con il suo Amore e orientandola alla sua meta ultima, a una pienezza che supera persino la soglia della morte».
L’uomo, il mondo, la storia, sono come contenuti nello sguardo di Dio e, in questo medesimo sguardo, acquisiscono la loro profondità e bellezza, nonostante le cicatrici e i segni del peccato. Proprio per questo, continuava il papa in un passaggio particolarmente ricco di immagini ispirate a riflessioni attribuite a Michelangelo Buonarroti secondo il quale “ogni blocco di pietra ha al suo interno una statua ed è compito dello scultore scoprirla”: «Se questo può essere lo sguardo dell’artista, molto più Dio ci guarda così: in quella ragazza di Nazaret ha visto la Madre di Dio; nel pescatore Simone figlio di Giona ha visto Pietro, la roccia sulla quale edificare la sua Chiesa; nel pubblicano Levi ha ravvisato l’apostolo ed evangelista Matteo; in Saulo, duro persecutore dei cristiani, ha visto Paolo, l’apostolo delle genti. Sempre il suo sguardo d’amore ci raggiunge, ci tocca, ci libera e ci trasforma facendoci diventare persone nuove».
È questa la radice della speranza per tutti coloro che sono chiamati da Dio perché è questa la dinamica di ogni vocazione. “Siamo raggiunti dallo sguardo di Dio, che ci chiama”, e questo sguardo che si fa chiamata si fa anche carico delle debolezze, delle paure, delle ansie, dei fallimenti, dei limiti e perfino dei peccati di tutti e di ciascuno perché tutti e ciascuno possano fare la medesima esperienza di Paolo: «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,1-10).
Ecco, dunque, che «la vocazione nasce così, grazie all’arte del divino Scultore che, con le sue “mani” ci fa uscire da noi stessi, perché si stagli in noi quel capolavoro che siamo chiamati a essere».
La speranza può quindi dare la giusta distanza tra ciò che l’uomo può attendersi e a cui può aspirare e il suo desiderio titanico dell’impossibile e di ciò che sta oltre la sua portata. La speranza riporta l’uomo con i piedi per terra, non lo aliena in mondi sconosciuti né lo sequestra in attesa di altre illusorie esistenze. La speranza gli riconsegna il gusto delle cose, pesa la loro consistenza e le colloca nell’orizzonte dell’eterno.
Per approfondire: Cf. F. Brancato, Incontrarsi alla fine. Esercizi di dialogo sulle “realtà ultime”, pref. di S. Natoli, Edizioni Messaggero, Padova 2012; Id., La Bibbia parla dell’aldilà? Tra promessa e compimento, Edizioni Messaggero, Padova 2022; F. Brancato – S. Natoli, Il mondo a venire. Dialogo sui novissimi, EDB, Bologna 2021.