N.01
Gennaio/Febbraio 2023

Quel che saremo (1Gv 3,2)

Si dice che viviamo in un tempo “identitario” ed è un fatto che anche le Chiese sembrano molto interessate alla propria identità. La mia, quella evangelica valdese, è una Chiesa di minoranza e si è sempre molto interrogata su sé stessa e sul proprio ruolo nella società italiana. È comprensibile, naturalmente. La domanda “Chi sono?” può anche essere profonda: se la pone anche un grande testimone come Bonhoeffer. La risposta, però, non può venire dall’introspezione, dall’autoesame. Se ciò accade, si presentano tre possibilità: a) lo spirito superficiale si coltiva un’autoimmagine idealizzata, a proprio uso e consumo; b) lo spirito scrupoloso si deprime perché non raggiunge l’ideale che si prefigge; c) quello critico si accorge, come Pirandello, che l’identità, semplicemente, non esiste: ne esistono molte, fittizie e contraddittorie. Forse è per questo che il Nuovo Testamento non è particolarmente interessato all’identità della discepola o del discepolo: dove la questione dell’identità è centrale, centralissima, si tratta di quella di Gesù.

 

Gli scritti giovannei non costituiscono un’eccezione. Se da un lato, infatti, troviamo una nozione come quella di “figli di Dio”, per indicare i discepoli, dall’altro essa è definita dalla relazione con Gesù. Il versetto in esame, poi, aggiunge una nota decisiva. Nemmeno il fatto di essere figli di Dio costituisce l’ultima parola. Infatti, non è ancora manifestato quel che saremo. Non sappiamo mai bene chi siamo; la riflessione autobiografica (specie in situazioni critiche, o di conflitto) mostra che assai spesso non siamo molto in chiaro nemmeno su chi o che cosa siamo stati e state in passato: la nostra identità è custodita nel futuro di Dio. Ciò non significa dissolverla in un domani remoto e dunque indistinto nei suoi contorni e irrilevante nelle sue conseguenze: in Giovanni, il futuro, ciò che ancora non è manifestato, irrompe nel presente mediante lo Spirito (cf. soprattutto i capitoli 14 e 16 dell’evangelo), rinnovando nei contenuti e nelle prospettive il rapporto con Gesù. Quel che saremo indica dunque chissà quale stravaganza, ma nuove, inedite dimensioni della relazione con Cristo.

 

Come si è espresso una volta, con grande efficacia, il teologo valdese Paolo Ricca: l’identità, secondo 1Gv 3,2 è la prossima vocazione che Iddio ci rivolge. La fede cristiana non ha tempo per guardarsi allo specchio. Il pensiero identitario è pericoloso non solo per le ragioni che tutti e tutte conosciamo, cioè per il suo carattere fondamentalmente mitologico, di solito funzionale a un progetto politico non del tutto esplicitato e per questo ancora più insidioso. Dal punto di vista giovanneo, l’insistenza identitaria è inevitabilmente in ritardo in quanto rivolta all’indietro mentre Iddio viene dal futuro; ed è dis – orientata, perché rivolta a me stesso mentre Iddio mi si fa incontro nel Cristo.

 

La carica liberante di questo messaggio è anzitutto racchiusa nel superamento della sindrome “pirandelliana” alla quale già si è accennato: l’eterno scacco nella ricerca dell’‘autentica’ identità è superato: l’identità è davanti a te, nello sguardo di Dio che chiama mediante Gesù. In secondo luogo, la parola giovannea libera dalla tirannia dell’ideale: l’immagine che vorrei avere di me stesso è smascherata come una costruzione, un poco narcisistica e molto moralistica; ciò che conta è l’immagine che Dio ha di me e anch’essa è manifestata nella chiamata. In generale: l’identità che viene dal futuro libera dalla ipo – crisia, che letteralmente significa ‘essere sotto giudizio’. Si tratti del giudizio della società, della comunità di fede, delle persone che mi circondano; o si tratti (è la forma più radicale e pervasiva) del giudizio della mia coscienza, esso mi inchioda al fallimento del mio progetto. La liberazione è nel fatto che il progetto, che costituisce la mia identità, è quello che Dio non ha ancora manifestato.