N.01
Gennaio/Febbraio 2023

Radicati nei cieli

La speranza che nasce dalla terra

Fin dalle origini, l’uomo si accorge che le cose sono a due a due, una di fronte all’altra. Ci sono la terra e il cielo, la vita e la morte, la gioia e la tristezza, la luce e le tenebre… Parmenide spiega che i mortali, «da un lato, posero l’etereo fuoco […] dall’altro lato, notte oscura»[1].

 

Già da bambini, tra questi opposti, la nostra preferenza è chiara: abbiamo una predilezione per la luce e temiamo le tenebre, l’uomo nero che turba i nostri sonni e ci strappa dal nostro mondo per un mese intero. Fin da piccoli infatti c’è qualcosa in noi che ci porta a sollevarci da terra, alzando le mani verso il cielo luminoso, cercando braccia che ci accolgano. Ma, spesso, a terra ricadiamo, in lacrime, perché la terra ci sembra tanto brutta. Forse perché il cadere su questa terra, così fredda, pesante e buia, sembra nascondere il male e il dolore che ci attendono. La sofferenza è un destino ineluttabile, perché siamo fragili, fatti di fango, portiamo in noi il segno della morte, pur desiderando l’immortalità[2]. In più (ci) facciamo del male, generando sofferenza; alcuni poi sono «nati con la pelle più sottile. Un bassissimo numero di anticorpi a ogni bene e male […]. Persone che […] basta un fiore per bucargli la pelle»[3]. Václav Havel, dissidente slovacco, perseguitato dal regime e poi diventato Presidente, afferma che spesso ci troviamo in condizioni in cui «sembra che non possiamo aspettarci nulla di buono, […siamo così] senza speranza»[4].

 

Però, forse, è proprio il luogo in cui sembra non esserci più speranza il terreno più fecondo perché essa possa (ri)nascere. C’è una morte da attraversare affinché possa nascere la vita, una sofferenza da vivere perché possa sbocciare la gioia. Perché ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore. Solo se qualcosa manca, si apre uno spazio per il desiderio, per l’accoglienza. Del resto, se tutto fosse perfetto, come regolato da macchine infallibili, «perché chiedere alle stelle cadenti di esaudire i desideri?»[5]. E in effetti le stelle brillano tanto più quanto più il buio della notte si fa profondo.

 

Allora la tenebra e la terra sono forse più buone e belle di quanto sembravano in principio. Perché è dal principio che la sapienza di Dio tiene insieme luce e tenebre, e perché è dal cielo che viene la terra. Infatti «Dio non schiaccia le tenebre, non le annulla, ma le integra, e se crea la luce – che, quando c’è, vorrebbe annientare il suo opposto – lascia uno spazio di ugual misura anche al suo contrario, e li fa dialogare tra il giorno e la notte»[6]. Tante cose nel mondo ricordano questo mistero. Già nella forma di vita più semplice, “nella pianta, la luce e la materia si presentano collegate indissolubilmente […], diventano un’unica vita indivisibile, e questa vita poi eleva l’elemento terreno costringendolo a tendere al cielo e al sole”[7]. L’uomo è come un albero piantato lungo corsi d’acqua, radicato nella terra, con le braccia rivolte verso il cielo. E la speranza è proprio ciò che gli permette di tendere alla luce, anche mentre sta attraversando tempi e luoghi bui.

 

Ma come è possibile sperare, nonostante tutto?

Havel risponde così: «Alla fine riuscivo a cogliere che la speranza, nel senso più profondo del termine, non è qualcosa che viene dall’esterno […] la speranza è soprattutto una condizione dello spirito»[8]. Per poter sperare è necessario attivare una energia che abita nell’uomo, perché «il nostro compito è quello di compenetrarci così profondamente, dolorosamente e appassionatamente con questa Terra provvisoria e precaria, che la sua essenza rinasca invisibilmente in noi. Noi siamo le api dell’invisibile. Noi raccogliamo incessantemente il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare d’oro dell’Invisibile»[9]. Si tratta di immergersi nella precarietà e nella sofferenza perché possano diventare una via per giungere a una dimora dorata.

Non è però così semplice capire da dove possa emergere l’energia per portare uno sguardo luminoso nelle tenebre. Havel arriva a suggerire che la fonte prima della speranza sia “metafisica”; Heidegger sembra lasciar intuire che i poeti, che «nella miseria rimemorano la salvezza»[10], permettono agli uomini di attingere a qualcosa che consente loro di continuare a sperare.

Quindi, la speranza è nel cuore dell’uomo, ma insieme viene da un altrove – nello spazio, e nel tempo. Solitamente si considera il futuro come il tempo proprio della speranza: si spera che prima o dopo le cose andranno meglio. Nelle parole di Heidegger questo altrove è invece da ricercare nel passato. È così già nel mito di Pandora, che spiega perché la speranza sia “l’ultima a morire”: la Speranza, ultima dea ad uscire dal vaso di Pandora, ottiene da Zeus il permesso di restare sulla Terra a consolare gli uomini per la durezza delle loro condizioni di vita. Così però la speranza diventa inscindibile dalla nostalgia, perché sembra esserci solo per ricordare che l’età dell’oro è finita.

La vita e la gioia sembrano poter essere collocate solo nel futuro, o nel passato, ma non qui, non ora. Mencarelli suggerisce una soluzione, scrivendo che gli artisti hanno «dentro di sé il seme di un ricordo lontanissimo, qualcosa avvenuto prima di tutte le storie. È la bellezza la scintilla di tutto»[11]. Grazie a questo ricordo il loro sguardo è luminoso. C’è quindi un tesoro originario a cui è sempre possibile tornare: in ogni istante c’è un modo di guardare che può aprire una porta sull’eternità. È come per l’Abramo di Kierkegaard, che può procedere nel dramma dell’ascesa al monte Moria perché sa a chi ha dato la sua fiducia. Ricorda che il suo limite, il suo peccato e la sua povertà sono diventati un terreno in cui il Signore ha fatto germogliare la vita.

Si tratta di aver conosciuto l’amore, di essersi scoperti amati, con tutto, almeno una volta, perché «solo la luce che ininterrottamente discende dal cielo fornisce a un albero l’energia che fa penetrare a fondo nel terreno le possenti radici. In verità l’albero è radicato nel cielo»[12]. Questo è ciò che il Padre dice ad ogni figlio che viene alla luce: ti ho amato di amore eterno, per questo continuo ad esserti fedele.

Qual è allora il tempo della speranza? Forse è un presente che attinge al ricordo vivo di ciò che è stato, e che è tanto vero da essere sempre e per sempre, perché siamo vivi tornati dai morti.

 

Ma c’è ancora un problema: per chi non ricorda questa origine, per chi non ha vissuto questa grazia dello scoprirsi salvato, non c’è alcuna speranza? Forse essa può essere portata da chi, avendo sperimentato quanto è bello incontrare uno sguardo d’amore, luminoso, capace di scorgere i germogli della vita già presenti in ciò che sembra essere solo terra arida, desidera condividere questo dono ricevuto, amando chi sembra senza speranza, aiutandolo a vedere che proprio ora, in questa terra, qualcosa già germoglia. È questa comunione che salva, perché solo l’amore può risvegliare il ricordo dell’Amore da cui tutti siamo stati (ri)generati. E solo in questa carità è possibile prendersi reciprocamente cura delle nostre ferite. Solo se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce.

Nell’amore poi è nascosta una forza misteriosa, che lo rende capace di agire anche quando chi è amato non si accorge della cura che sta ricevendo. Gemma Calabresi, ricordando il buio della lunga notte che ha dovuto attraversare, dice: «Ecco perché ce l’ho fatta, per l’amore che non sapevo. Da sola sarebbe stato impossibile»[13].

Così, piano piano, si può scoprire che l’oggi della speranza si radica nella fede in un amore eterno.

 

 

 

[1] Parmenide, Sulla natura, Bompiani, Milano 2021, 55.

[2] Cf. V. Solov’ëv, I fondamenti spirituali della vita, Lipa Edizioni, Roma 2014, 27.

[3] D. Mencarelli, La casa degli sguardi, Mondadori Libri, Milano 2019, 25.

[4] V. Havel, La morte e la speranza, in V. Havel, Il potere dei senza potere, La Casa di Matriona, Milano 2020, 176.

[5] N. Bianco – V. Docampo, La Valle dei Mulini, Terre di mezzo, Milano 2019.

[6] P. Rocca, Dell’altro. Tra Parola e Silenzio nel vangelo di Marco, Edizioni San Paolo 2021, 21.

[7] V. Solov’ëv, Sulla bellezza nella natura, nell’arte, nell’uomo, Edilibri, Milano 2013, 66.

[8] La morte e la speranza, cit., 177 e 178.

[9] M. Heidegger, Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia Editrice, Scandicci 1999, 285.

[10] Perché i poeti?, cit., 295.

[11] D. Mencarelli, Tutto chiede salvezza, Mondadori Libri, Milano 2020, 142.

[12] S. Weil, La persona e il sacro, Adelphi Edizioni, Milano 2012, 36.

[13] G. Calabresi Milite, La crepa e la luce. Sulla strada del perdono. La mia storia, Mondadori Libri, Milano 2022, 109.