Un seme tra le rocce
Ci sono luoghi resi indefinibili dalla loro struggente bellezza. Nessuno può, per esempio, restare indifferente alla visione della piccola Isola di San Giulio, nel lago d’Orta, come appare a chi arriva dalle strade trafficate dell’operoso Piemonte. Sembra che si apra il sipario su uno scenario inaspettato, una patria dell’anima. Per giungervi, occorre prendere il battello che, staccandosi dalla riva solitamente affollata di turisti, permette di approdare su una terra abitata dal silenzio.
Era una timida giornata autunnale, l’11 ottobre 1973, quando vi sbarcò con sei sorelle Madre Anna Maria Cànopi, la fondatrice del monastero benedettino. Esso attualmente occupa alcuni edifici che si affacciano sull’unica stradina che percorre ad anello l’Isola. Ville in stato di abbandono totale, rampicanti avvinghiati a finestre chiuse da tempo immemorabile. Soprattutto il mastodontico edificio, già sede del seminario della diocesi di Novara, incuteva sgomento. Perché scegliere un simile luogo per abitarvi? I monaci, si sa, sono gente un po’ strana. Sant’Antonio, isolatosi per incontrare Dio, ha popolato i deserti egiziani. Persone partite alla ricerca della solitudine perché niente e nessuno le distogliesse dalla ricerca del Solo, hanno lasciato poi dietro di sé fiorenti comunità, addirittura villaggi e paesi. E questa non è storia di millenni fa. Si è ripetuta anche per noi.
Madre Anna Maria non si è sgomentata per la totale mancanza di qualsiasi comodità. “All’inizio, infatti, nell’ex palazzo episcopale da noi occupato mancava perfino l’acqua potabile: bisognava andare a prenderla all’unica fontanella… Non c’era, ovviamente, riscaldamento e anche i rifornimenti alimentari non erano proprio sempre assicurati, tanto è vero che presto abbiamo pensato bene di imparare… l’arte del panettiere.
Nonostante tutto, però, non mancavano le condizioni essenziali per vivere secondo lo spirito della Regola millenaria di san Benedetto. Prega e lavora, certo, ma con la gioia travolgente di riprendere, sull’isola abbandonata dagli uomini, la lode di Dio, la vita fraterna secondo il Vangelo portato tanti secoli fa in queste terre da un santo prete di nome Giulio. Anch’egli veniva da un’isola: Egina, in Grecia, per annunciare Cristo. Ancor oggi, il 31 gennaio – giorno della sua festa – sono molti gli abitanti delle rive del lago che accorrono a venerarlo come patrono, soprattutto i muratori. Secondo la tradizione, infatti, egli avrebbe costruito molte chiese, di cui quella sull’Isola sarebbe la centesima, l’ultima.
Eccoci dunque piccole e povere a raccogliere la sua preziosa eredità di fede nel desiderio di aiutare a edificare la Chiesa che si protendeva in un nuovo slancio nel rinnovamento promosso dal Concilio. Sì, eravamo un seme deposto fra le rocce di uno scoglio aspro. Non mancavano la solitudine, la povertà, i disagi nelle lunghe giornate invernali con l’assiduo sciabordare delle acque contro le rive appartate. Ma si sa che se il chicco di grano non muore, rimane solo.
E a poco a poco, giorno dopo giorno, il germoglio ha cominciato a uscire dalla dura zolla. Sono arrivate insperatamente tante sorelle da regioni, nazioni e continenti diversi ad allargare il coro esiguo che fedelmente, ogni giorno, si era impegnato a scandire le ore della preghiera liturgica: dal Mattutino fino a Compieta, cantando i salmi che Gesù stesso aveva pregato.
San Benedetto è un padre buono certo, ma esigente. Ama gli assoluti: nulla anteporre all’amore di Cristo, nulla anteporre all’opera di Dio, cioè alla preghiera liturgica, e camminare pariter, insieme. La Comunità è una famiglia raccolta intorno a chi fa – per elezione – le veci di Cristo. Tutti gli altri sono fratelli /sorelle. C’è posto per l’anziano e per il giovane, per il malato e per il forte. L’importante è vivere onorando in ognuno il volto stesso di Cristo.
L’officina di Benedetto offre tanti utensili per la conversione – gli strumenti per le buone opere appunto – ma quello che chiede soprattutto è l’ascolto, cioè la capacità di accogliere la voce di Dio che si rivolge a ciascuno di noi per donarci pienezza di vita, e l’umiltà, come verità su se stessi. Dice il salmista: «Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?» (Sal 8,5). Consapevoli della nostra piccolezza, cantiamo la gioia di scoprire che Dio si è chinato su ciascuno di noi per rivestirci della gloria del suo Figlio diletto.
Ogni uomo è dunque unico e prezioso agli occhi del Padre, e lo diventa anche per noi. La Comunità si fa allora luogo di accoglienza per ogni viandante nel cammino della vita. Fin dagli inizi della nostra avventura, molti hanno bussato alla porta della Comunità per condividere il dono di spezzare insieme il pane della Parola di Dio nella lectio divina e portare nel mondo la testimonianza della vita cristiana. È nato così il primo gruppo di oblati – persone che nel mondo custodiscono in cuore il segreto della vita che nasce ispirandosi alla Regola di san Benedetto. Altri hanno sostato e ancora sostano nel silenzio per alcune giornate di preghiera che permettano loro di ripartire con più determinazione a testimoniare Cristo fra i fratelli.
Oasi nel deserto per ogni umana solitudine, il monastero diventa casa ospitale in cui ognuno può essere accolto per deporvi il suo fardello di dolore o di speranza e attingervi consolazione e conforto. Anche per noi, che viviamo su quest’Isola, gli ospiti spesso divengono testimoni di miracoli che ci confermano nel valore di quello che Georges Bernanos definiva “il dolce miracolo delle nostre mani vuote”: si può donare quello che non si pensa di avere!
Per approfondire leggi:
– Credere all’amore di Anna Maria Cànopi
– Senso e bellezza della vita monastica di Anna Maria Cànopi
– Abbiamo bisogno di uomini come Benedetto di Benedetto XVI
Inoltre puoi trovare qui alcuni testi di autori spirituali raccolti dalle Monache benedettine dell’Abbazia “Mater Ecclesiæ”.