L’accesso al Cielo
Vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo (Ap 21,2).
I vicoli di Bari Vecchia si muovono, si piegano e si animano attorno ai due grandi poli che in qualche modo ne definiscono l’identità: la cattedrale e la basilica di S. Nicola.
La grande chiesa dedicata a Nicola, vescovo della città turca di Myra si erge isolata, imponente e austera come una fortezza, ma allo stesso tempo accogliente. Nel 1087, un gruppo di 62 marinai baresi trafugò le spoglie del santo in Turchia: la costruzione dell’attuale edificio fu avviata dall’abate benedettino Elia per custodire le venerate reliquie.
Vi si può arrivare dalle strette strade del centro storico, oppure dal mare, dove la chiesa svetta sopra le antiche mura cittadine. Fortezza e santuario allo stesso tempo, la basilica doveva apparire dall’esterno come il segno del porto sicuro, del rifugio, dell’approdo. Costeggiando l’imponente fronte orientale, visibile ai naviganti da lontano, e le monumentali arcate che scandiscono il fianco, con il cammino di ronda alla sommità che ci narra di quando la chiesa è stata, in epoca normanna, realmente un luogo di difesa, si giunge alla facciata. Nelle decorazioni del portale principale, del XIII secolo, si scorgono già le tracce di quella comunicazione costante con l’Oriente che caratterizza storicamente questo luogo e che dà forma alle intricate decorazioni vegetali scolpite nel marmo. Al Cristo, Sol invictus, al centro dell’arco rimandano i due buoi che sorreggono il portale, il segno della mitezza, ma anche della vittima sacrificale. La Porta dei Leoni, sul fianco della chiesa, analogamente rimanda all’Eucaristia, con le scene della falciatura del grano e della raccolta dell’uva scolpite al di sopra dei capitelli. Ma in quanto chiesa, l’edificio è, in primo luogo, porta e l’interno lo rende evidente.
La liscia pietra bianca dell’esterno continua anche qui, dove i restauri novecenteschi hanno rimosso le decorazioni di epoca barocca e tentato di riportare alla luce le forme medievali: l’essenzialità quasi minimalista di queste superfici, così vicina alla sensibilità contemporanea, le colonne e gli archi che schermano lo spazio, la luce, mai eccessiva, ma attentamente calibrata che caratterizza le chiese romaniche, fanno immediatamente percepire il luogo come un santuario e non un’attrazione turistica. Attraverso tre archi di rinforzo quattrocenteschi che scandiscono la navata, si scorgono, in alto, il soffitto barocco e, in fondo, una triplice arcata (tribelon) che scherma il transetto. Al centro di quest’ultimo sorge il ciborio, voluto dall’abate Eustazio, successore di Elia nel 1105: prezioso cuore della basilica, collocato esattamente sopra all’altare e alle spoglie di S. Nicola, questo è un monumento “parlante”. Con i versi incisi a grandi lettere esso entra. Infatti. in dialogo con chi, originario del luogo oppure pellegrino, si avvicina. Già i gradini sono un ammonimento: non è con la superbia o l’orgoglio che ci si può accostare al Cielo («sis humilis, supplex, planus, et altus eris»). Quattro colonne di marmo sorreggono la copertura, ma è l’iscrizione nell’architrave a rendere evidente il senso della straordinaria architettura: «Quest’arca è uguale al cielo, entra servo buono e fedele, e prega per te e per il popolo». Il ciborio evoca l’immagine della Santa Gerusalemme, la visione della città d’oro e di pietre preziose che scende dal cielo, da Dio (cf. Ap 21,2).
L’altare è dunque la porta per quella dimensione di beatitudine e ad ognuno è indicata la via: l’umiltà, da un lato, ma anche il servizio, materiale e non. Sul luogo in cui riposa S. Nicola, famoso e venerato per i miracoli, per l’aiuto ai più deboli e ai bisognosi, invocato nelle difficoltà e nei pericoli, si è invitati a pregare per sé e per gli altri.
E come la porta esterna, così la grande finestra che nell’abside si apre verso oriente lasciando entrare il sole mattutino parla di Cristo. L’altare stesso è Cristo, quella pietra scartata, quella scala grazie al quale abbiamo accesso al Cielo (cf. Gen 28,10-19). Ci si trova costantemente su una soglia, in un punto che è ancora sulla terra, ma in parte già nel cielo che ci viene annunciato.
La cripta della basilica conserva, dietro una cancellata, l’altare con la tomba del santo: è un luogo di silenzio e di preghiera, dove si respira l’aria di una Chiesa indivisa, dove la comunità ortodossa ha uno spazio dedicato, dove la testimonianza di un santo del IV secolo appiana differenze e dissapori.
Ogni cosa nella basilica appare filtrata: le arcate interne sembrano nascondere e svelare assieme la preziosità del soffitto decorato, il tribelon separa e apre al santuario, il ciborio stesso racchiude l’altare, come anche la tomba, nella cripta, è celata e svelata. Pur essendo ogni vista schermata, tutto è semplice e visibile, protetto e mostrato allo stesso tempo. Il velo qui non impedisce di vedere, come la riza di un’icona russa, ma dice la sacralità, introduce al luogo santo. E il santo, qui, è di nuovo una porta, il luogo dell’incontro.