Rivisitare il mito di Medea
Alice Diop sorprende con il suo primo film di finzione: Saint Omer riesce a tenere uniti la complessità del fatto di cronaca, il court-drama e lo scavo esistenziale.
“Nel giugno del 2016, ho assistito al processo di una donna che aveva ucciso la figlioletta, abbandonandola su una spiaggia, in Francia, con l’alta marea. Ho pensato che la donna avesse voluto offrire la figlia al mare, una madre ben più potente di quanto non potesse esserlo lei stessa”.
Alice Diop, apprezzata documentarista francese di origini senegalesi, fa il suo esordio al lungometraggio di finzione con Saint Omer, unica opera prima, presentata in gara alla scorsa Mostra di Venezia, vincitrice sia del Gran Premio della Giuria che del Leone del Futuro.
Riconoscimenti ampiamente meritati, perché la regista – anche autrice dello script insieme a Marie Ndiaye – riesce nella non semplice impresa di tenere uniti la complessità del fatto di cronaca, le traiettorie del court-drama e lo scavo esistenziale in un unico corpo-film che viaggia su un duplice binario.
Da una parte, la storia di Rama (Kayije Kagame), giovane scrittrice che sta lavorando a una rivisitazione letteraria del mito di Medea, dall’altra la vicenda, narrata in prima persona dal banco degli imputati, di Laurence Coly (Guslagie Malanda, superlativa), donna rea confessa chiamata a spiegare il perché del suo efferato gesto.
“Ho voluto girare questo film per sondare l’indicibile mistero di essere madre”, spiega ancora la regista, e il pregio incredibile di Saint Omer (titolo che fa riferimento alla località nel dipartimento di Calais dove si svolge il processo) è quello di mettere costantemente in discussione le convinzioni tanto dei presenti in quell’aula (Rama, su tutti, peraltro incinta di quattro mesi) quanto di noi spettatori in sala.
Immigrata senegalese, Laurence espone i fatti con eloquio forbito e freddo, va a ricercare nei fantasmi di antiche maledizioni e stregonerie le possibilità di una matrice, alle quali si appella anche l’avvocato difensore: la realtà, la cronaca, il fatto, che ogni volta siamo chiamati a giudicare frettolosamente senza conoscere il “dietro”, trova in questo modo un contraltare capace di mettere in contatto due culture profondamente differenti, lasciando aperto lo spazio di una riflessione alla quale non serve in alcun modo il supporto di immagini scabrose, scandalose, violente, didascaliche, per farsi via via sempre più profonda, e dolorosa.
È quello, in fondo, che dovrebbe sempre fare il cinema: non ambire a suscitare facile compassione, ma allenarci costantemente ad ampliare lo sguardo sul mondo, sui misteri e sulle ambiguità che lo abitano.
Schermi paralleli. Sempre da Venezia79 un altro potente sguardo femminile: è Chiara di Susanna Nicchiarelli, acuto ritratto della santa di Assisi con Margherita Mazzucco. La regista si è accostata alla figura di Chiara – attraverso gli scritti della medievalista Frugoni – con il desiderio di raccontarne anzitutto il profilo umano. Un’opera che percorre il tracciato della Storia con sfumature rock e istanze femministe. Raccomandabile, poetico (di Sergio Perugini).