Una responsabilità più articolata
Curare la vocazione adulta
Quando si parla di vocazione in senso stretto, riferita, cioè, alle scelte di speciale appartenenza (vita sacerdotale e vita consacrata, per intenderci), ci si sofferma molto sul momento della chiamata e sul tempo immediatamente successivo.
È avvincente conoscere come la persona abbia avuto l’intuizione di seguire quello specifico percorso e come abbia consolidato lo slancio iniziale. Possono essere stati incontri dirompenti durante un campo scuola o un’esperienza di volontariato, oppure una Parola che si percepiva rivolta a sé proprio in “quel” giorno in cui davanti al Tabernacolo il tempo sembrava sospeso.
Negli anni successivi si chiederà più volte al sacerdote, al missionario o alla consacrata di raccontare cosa è accaduto allora, “ma come hai fatto ad essere sicuro che era la tua strada?”, chiedono spesso i ragazzi e le ragazze quando viene proposta loro una testimonianza vocazionale.
Il mistero di una vocazione, in effetti, è affascinante.
Se poi Marco decide di entrare in seminario e Paola in comunità, anche i primi anni riceveranno molta attenzione: colloqui, incontri personali e di gruppo, orari scanditi, e, generalmente, una buona e convinta adesione. La fatica dell’inserimento nella nuova realtà quasi non si avverte e la motivazione personale è altissima.
«Ciò che arriva da fuori è avvertito come già preesistente dentro. Più si scava nell’anima più si trova la comunità, più si approfondisce la comunità più vi si trova la propria anima che riconosciamo nelle anime dei compagni e delle compagne. Dico ‘io’ e risponde ‘noi’, diciamo ‘noi’ e sento pronunciare il mio nome, che mi ritorna diventato immenso come il mondo, infinito come il cielo»[1].
Fin qui sembra tutto abbastanza scorrevole: la persona risponde con passione al desiderio che sperimenta e l’ambiente in cui si inserisce è ben organizzato a sostenere quella vocazione.
Certo, magari fosse sufficiente occuparsi del prologo per avere la garanzia che i capitoli seguenti saranno interessanti e ben riusciti, come le prime pagine facevano pensare.
Le note critiche arrivano quando inizia ad allentarsi il mordente dei tempi iniziali e, fuori dalla struttura formativa, subentrano le prime stanchezze, per il troppo lavoro o perché l’ambiente ha mostrato i segni della sua umanità. Anche la conoscenza più realistica di se stessi fa la sua parte e quando si arriva a toccare il proprio limite arriva inesorabile la paura di aver sbagliato strada.
È normale, è fisiologico, non potrebbe essere altrimenti: ogni scelta significativa, per quanto sia stata consapevole e matura, si scrolla di dosso, negli anni, la patina più edulcorata e si assottiglia rispetto alle fantasie romanticheggianti del tipo “a me non accadrà mai di entrare in crisi”, “ho riflettuto troppo bene per mettere in discussione chi sono e cosa voglio”.
Il fascino della vita e delle decisioni importanti sta proprio nel dato che non si tratta di momenti puntuali, anche se nella ricostruzione della memoria si associa il sì al “momento in cui…”.
L’amore è risposta, è vero, ma è una risposta di processo. Qui viene il bello!
Il nostro interesse, allora, si sposta in avanti nel tempo dove collochiamo la domanda: cosa vuol dire curare la propria vocazione? Se siamo onesti, infatti, diverse volte ci sarà capitato di assistere impotenti e increduli ad una progressiva sfioritura di una vocazione che ci era sembrata solida e vivace. Come può accadere?
Sia chiaro che non si possono fare i conti in tasca a nessuno, per cui appellarsi a “Francesca che è uscita di comunità nonostante l’investimento che avevano fatto su di lei”, oppure a “Marco che ha lasciato il ministero, eppure la gente era così contenta”, per concludere che la vita è imprevedibile (e quindi si può fare ben poco), o che è tutta colpa della formazione inadeguata, o ancora che è questione di sincerità (Francesca e Marco non lo sarebbero stati) ha poco senso.
Ogni processo è strettamente personale e se è vero che molte storie si assomigliano, le generalizzazioni non aiutano una riflessione seria.
La risposta al “perché” una vocazione si smarrisca o al “come” evitare che succeda si potrebbe trovare semplicisticamente rimandando alla responsabilità della persona che dovrà avere cura di sé e di come vive, e fine della storia. In realtà così verrebbe a mancare una variabile fondamentale: l’ambiente in cui l’individuo è collocato e opera.
La nostra epoca, con tutte le sue criticità, una cosa importante ce la sta insegnando e il Papa la richiama in ogni occasione possibile: da soli non si va lontani e se non entriamo in una logica comunitaria perdiamo in partenza. Come nessuna vocazione nasce da se stessi, né ricade solo su di sé (né quella matrimoniale, né quella presbiterale e a vita comune), allo stesso modo la perseveranza ha bisogno di un “noi”. Uscire dalla logica miope della mia vocazione e della tua vocazione (quindi sono fatti tuoi), ci immette in una responsabilità molto più articolata, che parte da lontano, proprio quando la vocazione viene accompagnata nei suoi primi passi. È allora che dovrebbe iniziare a formarsi una mentalità vocazionale che coinvolge chi arriva e chi accoglie: la vocazione di un sacerdote, di una consacrata, anche di una coppia di sposi ha bisogno di una rete di accoglienza e di supporto, perché la vita di tutti i giorni può essere pesante e sapere che c’è una comunità intorno dà molta forza.
Per concludere, proviamo, allora, a immaginare una mappa di riferimento, fatta di brevi spunti, ampi ma insieme concreti, che vorrebbero offrire un orientamento di fronte alla domanda sull’avere cura di una vocazione, tenendo presenti i due livelli personale e ambientale.
La persona.
– È fondamentale saper coltivare relazioni paritarie, maschili e femminili (non solo con i superiori o con i “destinatari” dell’apostolato). La dimensione affettiva, infatti, va alimentata, certamente con modalità congrue alla scelta fatta. Il Manuale diagnostico di ultima generazione (DSM-5), riguardo alla coerenza che tocca anche lo stile di stare in relazione, parlerebbe di “perseguimento di obiettivi esistenziali e coerenti”, anche nel “breve” periodo, quindi nella concretezza dell’ordinario.
– È fondamentale la conoscenza di sé, per saper individuare risorse e punti deboli ed evitare il più possibile i “non so” (sono triste, sono angosciato, mi sento stanco, ma non so il perché). Se non è sufficiente la formazione iniziale, un aiuto esterno e competente favorisce il processo di autoconsapevolezza.
– È fondamentale mantenere viva la dimensione spirituale non dandola per scontato, anzi, è la cenerentola della vocazione che normalmente entra nel vortice dei tanti impegni, perfino nelle vocazioni contemplative.
La comunità.
– È fondamentale sviluppare una capacità di ascolto interpersonale tra fratelli e sorelle, che vada oltre le parole, per intercettare i segnali di malessere che non sempre la persona interessata riesce ad esprimere.
– Sulla stessa linea: è fondamentale sentirsi corresponsabili del benessere e del malessere dei nostri fratelli e sorelle. Nella misura del possibile, offrire e ricevere amicizia tra vocazioni diverse è di grande beneficio.
– È fondamentale, da parte di vescovi, superiori/e, formatori/formatrici conoscere i propri presbiteri o membri di comunità, perché la destinazione o l’ambiente in cui saranno inviati sia adeguato alle risorse della persona.
[1] L. Bruni, La comunità fragile. Perché occorre cambiare molto per non perdere troppo, Città Nuova, Roma 2022, 7-8.