N.04
Luglio/Agosto 2023

“De utero Patris”

Paternità e maternità di Dio

Quando Giovanni Paolo I disse pubblicamente che “Dio è madre”, ai cattolici sembrò un’affermazione sconvolgente abituati come tutti si era a considerare Dio come un padre, a pensarlo secondo le immagini messe in archivio durante le classi del catechismo. Dio è uomo, adulto e padre, ha la barba lunga e bianca e lo sguardo fermo e virile. Sentirlo chiamare: “madre” poteva suonare addirittura offensivo. Fu data, però, una giustificazione a quella “maternità” divina, a motivo sia della dolcezza e bontà del papa Luciani sia del fatto che, al tempo del suo pontificato – durato, purtroppo, solo trentatré giorni – il femminile reclamasse già da decenni una visibilità nella Chiesa.

In realtà la storia della Chiesa ha visto elaborare un’idea materna di Dio sin da tempi remoti; basti pensare a un Concilio in cui si discusse addirittura della generazione del Figlio “De utero patris” (675, XI Concilio di Toledo).

Peraltro, l’accostamento di una figura paterna alla gestazione, non nasce come un fungo nella cultura cristiana; questa si va, infatti, progressivamente a radicare sulla cultura classica, dove anche Zeus partorisce, ancorché dalla testa e non dall’utero. Dopo aver ingoiato Metis – la dea del buon consiglio – il padre degli dei diede alla luce Atena, la fanciulla dagli occhi glauchi – il colore verdeazzurro del mare Egeo! – colei che diede il nome ad Atene. Zeus partorisce una figlia che è dea di sapienza e il Dio cristiano genera un Figlio che è Verbo, Parola, Sapienza. Ma nella Bibbia ebraica e cristiana c’è ancora molto da dire riguardo all’identità di un Dio come padre e madre.

 

Dio padre e madre

Il fatto determinante su cui la Scrittura sviluppa – nel corso del suo narrare –  l’immagine di Dio è che Egli sia una persona in relazione, tesa verso un’altra persona che – nel Primo Testamento – ha un nome eletto: Israele. Dio è l’alleato di Israele, Colui che ha stretto un patto con lui, che gli ha promesso la libertà, la dignità, la terra e la discendenza e che gli ha regalato il sogno di essere felice e in pace nel mondo. Dio si è legato a Israele come un fratello, un amico, un marito, per cui la metafora che viene usata per parlare del Suo popolo è spesso femminile: ‘sorella’, ‘amica’, ‘sposa’, nomi simbolici nel Cantico dei Cantici, un libro che va considerato come il cardine teologico di tutta la Scrittura.

Del resto, il Dio Creatore trova la sua immagine ideale proprio nella creatura sessuata: Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza. E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò (Gen 1,26-27). Ma Dio non era solo quando creava il mondo, poiché con Lui, in principio c’era anche una ‘madre’, la Sapienza. È quanto si legge nel libro dei Proverbi: Dall’eternità sono stata formata… dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; io ero con lui come una artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo (8,23-31).

Il nome di Dio si può conoscere solo entrando nella sua verità che è quella di essere luogo di relazione, respiro di comunione, fecondità che si rinnova dal fuoco sempre ardente dell’Amore. L’identità di Dio è dinamica e si rivela nel corso del tempo di Israele: la sua amata, la sua “moglie” adorata ancorché spesso fedifraga. Lui si rivela nei mille atti d’amore e misericordia e, specialmente, quando la perdona. Per questo gli agiografi debbono usare immagini tratte dalle figure del padre e della madre: Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me. Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende dice il profeta Isaia in nome di Dio padre per gli abitanti di Gerusalemme (1,2b-3). E Osea registra parole di madre uscite sempre dalla Sua bocca: A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare (11,3-4).

 

La paternità e la maternità di Gesù

Ma c’è una ‘paternità’ e una ‘maternità’ anche nel Figlio, in Gesù. Come per la figura divina di Dio anche per il Dio che si è fatto carne, dobbiamo intendere questi aspetti in senso metaforico, come veicoli ideali della persona del Signore che rende i battezzati delle creature nuove. Nella vita terrena, infatti, Gesù non fu nessuno delle due: né padre né madre. Il “Figlio dell’uomo” non ebbe né una moglie, né dei figli, né una casa dove poter posare il capo. E se i figli erano per l’ebreo del suo tempo, il segno della benedizione di Dio, Gesù non godette di tanto e si trovò a condividere la triste sorte degli eunuchi ancorché fosse per il regno dei cieli. E proprio qui nasce il paradosso di una paternità fiorita sull’impotenza: Nella sua umiliazione il giudizio gli è stato negato, la sua discendenza chi potrà descriverla? Poiché è stata recisa dalla terra la sua vita (At 8,33).

Una paternità sguarnita di quelle risorse umane su cui, allora, essa poggiava concretamente: senza il vigore virile, senza il diritto di un nome né il potere di beni materiali da far ereditare. Eppure la sua è una discendenza numerosa più delle stelle del cielo: l’eredità della vita eterna, della Resurrezione.

Un altro aspetto della paternità di Gesù è quello delle parole con cui Egli alfabetizza alla sequela e all’annuncio del Regno dei Cieli, i suoi discepoli. Compito del padre era, infatti, nella famiglia ebraica, quello di insegnare ai figli le parole della Legge, della Sapienza e della preghiera. Parole con cui avrebbero imparato ad essere costruttori di giustizia e di pace, artefici di fraternità e riconciliazione, profeti di conversione e di speranza. Con estrema cura Gesù insegnò loro l’economia del Regno di Dio, opposta, rovesciata, rispetto a quella del mondo: coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti (Mc 10,43-44).

Ma Gesù si rivela anche in una stupenda ‘maternità’. Lo fa quando, vedendo il lebbroso che gli si avvicina per essere guarito, invece di osservare la Legge e allontanarsi da lui fa prevalere un sentimento materno: Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”. E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato (Mc 1,41-42). Il verbo greco tradotto con “ebbe compassione” sarebbe meglio reso con: “sentì un movimento delle viscere” simile a quello che – nell’uomo – secerne seme di vita e, nel grembo della donna, “costruisce” la vita là dove si annida come un feto. Un verbo che si ripropone – sempre a proposito di Gesù – quando egli vede cinquemila persone che lo seguono: ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose (Mc 6,34).

Che dire, infine, della tenerezza di Gesù verso Gerusalemme? Dopo aver voluto raggiungerla, pur conoscendo che lì avrebbe trovato la morte, guardandola da lontano così, piangendo, diceva: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! (Mt 23,37).