N.04
Luglio/Agosto 2023

Generati alla libertà

Quando termina un accompagnamento

Quando si trattano argomenti relativi ai processi educativi che accompagnano la crescita di un giovane, solitamente ci si imbatte in questioni che illustrano le modalità più funzionali perché questi riesca ad orientarsi in maniera matura nei confronti della vita, ad affrontare in modo sereno le proprie relazioni e a rivolgersi tenacemente verso quei valori che rappresentano il polo orientativo delle sue scelte. È una fortuna indicibile per un ragazzo trovare accompagnatori che lo aiutino in questo modo a rileggere la vita, mettendosi al proprio fianco durante la crescita.

Accade più di rado di sottolineare la necessità della fine di una relazione di accompagnamento, di rimarcare il confine davanti al quale l’accompagnatore è bene che si fermi, perché il giovane sia messo nelle condizioni di far leva sulla propria autonomia per essere in grado di compiere le scelte più giuste nella vita. È una fortuna ancora più grande trovare educatori che sappiano farsi da parte, uscire di scena perché il rapporto di accompagnamento non si trasformi in una dipendenza, ma piuttosto abbia il profumo della libertà.

Volendo scomodare la mitologia classica, sono diversi i racconti della letteratura greca che ci riportano le vicende legate alle tre Moire, le filatrici figlie di Zeus e di Temi: a loro veniva affidato il compito di tessere il destino di ogni mortale. Esse, per ogni persona, regolavano la durata della vita dalla nascita alla morte, con l’aiuto di un filo che la prima filava, la seconda avvolgeva e la terza tagliava con delle lucide cesoie, allorché la vita corrispondente era terminata. Naturalmente la concezione cristiana diverge in tantissimi aspetti da questi racconti mitologici, tuttavia mi sia consentito utilizzare questa metafora per indicare le fasi che debbono riscontrarsi in ogni processo di accompagnamento spirituale e vocazionale: l’inizio, lo svolgimento, la fine. Ciascuno di questi tre momenti è a suo modo delicato e presenta delle caratteristiche peculiari, ma è importante ribadire che solo la compresenza di tutte e tre queste fasi garantisce la buona riuscita di un processo educativo. In questo contributo si focalizzerà l’attenzione proprio sull’ultima fase, quella della separazione tra l’accompagnatore e l’accompagnato.

In effetti, ciascuno di noi è il frutto di una primissima esperienza di separazione: il taglio del cordone ombelicale che si compie nel momento della nascita biologica. Il taglio di quel cordone è stato il nostro salvavita, ci ha preservato da soffocamento e asfissia ed è diventato la porta di accesso alla vita, attraverso cui è iniziata la fantastica esperienza della nostra personale esistenza. Trovo corretto evidenziare che ogni nascita, e di riflesso ogni passaggio fondamentale nella crescita, riproduce in maniera analoga quell’atto del taglio di un cordone. In fin dei conti, è così che si genera davvero: non trattenendo, ma lasciando andare.

La Sacra Scrittura è ricca di esperienze in cui un nuovo inizio è preceduto da un allontanamento o da una separazione. L’avventura di Abramo, chiamato a diventare una grande nazione e una benedizione per tutta la sua discendenza, prende origine da un addio: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò» (Gen 12, 21). Lui stesso mette in atto una separazione quando è chiamato a sacrificare il figlio Isacco, il figlio avuto in tarda età come frutto della promessa che Dio gli aveva concesso: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gen 22, 2). Si intravedono in queste righe la sofferenza e i dilemmi di un padre che è chiamato a rinunciare al possesso esclusivo sul proprio figlio. Abramo comprende di esercitare una paternità sulla terra solo in forma vicaria: il figlio è di Dio e gli viene affidato per amarlo e accompagnarlo, come suo delegato. Abramo impara a guardare Isacco come ad un desiderio di Dio, che prende carne nella storia del mondo. Nel frutto delle proprie viscere intravede una storia più grande, una missione più alta, una promessa che è altro da sé. In risposta a questo gesto di separazione, Dio riconsegna ad Abramo, oltre al figlio che è mantenuto in vita, anche la benedizione e la promessa di una discendenza molto numerosa.

L’ingresso nella terra promessa da parte del popolo di Israele, ovvero la nascita di una pagina del tutto nuova nella storia della salvezza, è segnato dall’attraversamento di un confine, il fiume Giordano, ed è preceduto dalla morte di Mosè, al quale «il Signore mostrò tutta la terra […] e gli disse: “Questa è la terra per la quale io ho giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe. Te l’ho fatta vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!”» (Dt 34, 1.4). Nonostante non sia più sorto in Israele un simile profeta, che il Signore conosceva faccia a faccia – così ci fa dire il libro del Deuteronomio – Mosè si ferma davanti ad un confine che non può valicare. Nella terra promessa ci entrerà Giosuè, suo discepolo, sul quale egli aveva imposto le mani.

Si potrebbe far cenno alla bellissima esperienza di Tobi e del figlio Tobia, il quale è aiutato a liberarsi del padre stesso, per indirizzarsi verso Dio, vero e unico Padre. Tobi incoraggia la partenza del figlio e lo affida ad altri padri lungo il cammino, come l’arcangelo Raffaele, nonostante le lamentele e le lacrime della madre, che avrebbe voluto che il figlio rimanesse presso di sé. Passando di padre in padre, Tobia compie il suo percorso di umanizzazione che trova l’apice nelle nozze con la moglie Sara. Alla fine, Tobia, dopo un lungo viaggio, viene riconsegnato all’amore dei suoi genitori: ora però non è più solo il loro figlio, finalmente è un uomo libero e realizzato.

Persino l’ascensione di Gesù diventa una figura efficacissima del suo modo di relazionarsi con i discepoli. È la cerniera tra il tempo di Gesù e la nascita della Chiesa. L’ascensione è vista come la separazione di Gesù da noi: tale allontanamento, però, garantisce una presenza nuova nel mondo, non più fisica e limitata nello spazio e nel tempo, ma spirituale. Quella che può sembrare la sua distanza assoluta dai discepoli, in realtà prepara una vicinanza più intima: egli è dentro di noi, per mezzo del suo Spirito.

La costante è sempre questa: ci si separa per dare vita. Finché non ci si allontana, non si genera. La nascita nella vita e nello Spirito richiede che chi ha generato si faccia da parte. Poi ci si riavvicina in una modalità nuova, più profonda, finalmente libera e matura. Separazione e nascita rappresentano allora due sviluppi complementari nel processo di accompagnamento: la separazione consiste nell’emergere da rapporti fusionali e di dipendenza; la nascita consiste in quelle conquiste che riconoscono al giovane l’assunzione delle proprie caratteristiche individuali. Queste due fasi non sono indolori e la loro riuscita dipenderà da come l’accompagnatore stesso avrà integrato in modo maturo le esperienze di separazione dalle sue figure di riferimento. Di certo all’educatore è richiesta la capacità di rinunciare al possesso del giovane, se vuole che il suo sviluppo proceda in modo soddisfacente. Dovrà essere disposto a permettere, e perfino incoraggiare con gioia, la sua crescente capacità di operare distaccato da lui. È questo in fin dei conti il cammino della libertà ed è questo probabilmente il senso più autentico del monito del Signore: «Non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste» (Mt 23, 9).