Il martirio di don Giuseppe Puglisi

Una riflessione teologica

Buona sera a tutti, benvenuti nella nostra terra di Sicilia tanto bella quanto martoriata per tante cose. Come diceva don Maurizio sono qui perché di fatto sono stato l’autore della positio per la causa di beatificazione di don Giuseppe Puglisi impostata proprio sull’odium fidei. Dopo un primo momento in cui si pensava così super virtutibus poi di fatto si è andati all’odium fidei sul martirio, impostata proprio sul martirio. Cosa che è un po’ inusuale perché solitamente di martirio si parla quando si è un in presenza di despoti atei, di regimi totalitari che fanno professione proprio di ateismo, per cui è stato un po’ difficile, ma poi ci si impatta, convincere prima i consultori e poi i vescovi e i cardinali membri dell’allora Congregazione delle Cause dei Santi ora Dicastero, che anche in terra cristiana come appunto la Sicilia si potesse parlare di un martirio in odium fidei, martirio perché gli uccisori sono battezzati, sono cristiani a tutti gli effetti, non fanno professione teorica di ateismo, ma di fatto agiscono e vivono come se Dio non fosse nato, prendo a prestito una frase che tutti noi conosciamo.  

Allora vado direttamente nel mio discorso il quale, dopo una premessa, si compone di due punti:  

  • l’avversione dei mafiosi nei riguardi dell’operato di padre Pino Puglisi; 
  • l’ateismo pratico della mafia, perché si può parlare di un ateismo pratico, di una antievangelicità e un’idolatria della mafia. 

Sulle conclusioni dirò ulteriori cose che riguardano appunto il martirio di Puglisi.  Giuseppe Puglisi presbitero palermitano assassinato dalla mafia, costituisce il primo caso di credente martirizzato da una organizzazione – la mafia – che mai si è evoluta  

presentare in sé come antievangelica e atea ma che nei fatti la Chiesa appunto ha riconosciuto tale. Don Pino non è stato ucciso solo per l’amore per Cristo, la testimonianza presbiterale resa nella parrocchia di Brancaccio, lo stretto legame instaurato tra evangelizzazione e promozione umana, l’affermazione della radicalità dei valori evangelici e della coerenza tra annuncio evangelico e testimonianza di vita, la donazione totale della vita per il Signore e i fratelli, l’impegno di educatore delle coscienze, specie quelle delle giovani generazioni; la franchezza nel dire la verità, l’attività di promozione sociale,  la provocazione allo stile malavitoso del quartiere Brancaccio, il deciso impegno per la dignità e la promozione dell’uomo. Non è stato ucciso solo per tutte queste motivazioni, che già delineano bene chi è stato Puglisi, ma è stato dalla organizzazione criminale mafiosa in odium fidei perché uccidendo Puglisi si è scoperto che la mafia ha voluto colpire l’intera Chiesa (ricordiamoci poi S. Giorgio, S. Giovanni in Laterano, non sono cose secondarie), e motivo più profondo perché la mafia in quanto forma di ateismo pratico, nonostante la parvenza religiosa, è e si mostra avversa alla fede cristiana. Il mio contributo di questa sera riguarda proprio questo motivo, quindi non mi soffermerò a presentare la personalità di Puglisi ma proprio sull’odium fidei. 

  1. L’avversione dei mafiosi in ordine all’operato pastorale di Puglisi 

Dal punto di vista mafioso il quartiere Brancaccio dove operava Puglisi si presentava all’epoca dei fatti come uno di quelli a più alta densità delinquenziale, in cui era maggiormente radicata la presenza di dinastie mafiose consolidate, di consolidate origini e tradizioni e di cui il potere sul territorio era mantenuto attraverso l’uso della forza militare e la violenza, parole della sentenza della Corte di Assise di Palermo.  

Ecco il perché della seguente frase del Cardinale Pappalardo che troviamo in un discorso pronunciato all’inizio di un convegno diocesano su guardare a don Puglisi per un rinnovato impegno per la nostra città, tenutosi a Palermo nell’ottobre del ’94; diceva Pappalardo: “la mafia costituiva un ostacolo alla sua azione pastorale [di Puglisi]. Chi vuole evangelizzare un territorio non può non scontrarsi con la mafia”.  

Certo è triste ma profondamente vera l’affermazione dell’allora arcivescovo di Palermo perché purtroppo in terra di Sicilia l’evangelizzazione non può non scontrarsi con la mafia che con i suoi tentacoli arriva in ogni luogo. Si comprende bene anche perché il giudice Lorenzo Matassa, PM al processo contro gli autori del delitto di cui fu vittima Puglisi, nella sua requisitoria poté affermare:  

“il motivo dell’omicidio di don Puglisi si manifestò chiaro nell’attività evangelica e pastorale e nella chiara contrapposizione di quest’attività al regime di terrore, morte e sopraffazione imposto dalla mafia. La chiesa di Brancaccio e la semplicità disarmante di don Pino erano una spina nel fianco della mafia di quel quartiere – aggiungerei di tutte le mafie – che vedeva compromesso il suo primato”.   

Ho voluto citare questo stralcio della requisitoria di Matassa perché pur ponendosi da un punto di vista laico (le cose le ha dette in quanto P.M., non in quanto credente), il motivo esposto si presenta identico al dire del card. De Giorgi, successore di Pappalardo a Palermo, ed è quello che di fatto diciamo noi come comunità ecclesiale.  

 

 

 

Diceva De Giorgi: 

“questi pochi brani stralciati dalla sentenza [si riferisce a quanto appena citato di Lorenzo Matassa] sono la conferma di quanto la comunità ecclesiale aveva già pensato e detto sui motivi dell’uccisione di Padre Puglisi. È stato ucciso perché sacerdote, perché sacerdote coerente e fedele secondo il cuore di Dio, perché impegnato nell’annuncio del Vangelo e nel suo dovere di educatore, di guida, di pastore. È stato ucciso perché con la sua silenziosa ma efficace azione pastorale sottraeva le nuove generazioni alle aggressioni della mafia.” 

Don Scordato, nostro teologo di Palermo, commentando sempre l’affermazione di Matassa, evidenzia però che le opere di evangelizzazione e promozione umana portate avanti da Puglisi 

“risultano elementi che possono essere evidenziati come necessari, ma non sono sufficienti per attingere, per quanto attingibile, a livello teologale di un impegno ministeriale culminante nel martirio. Gli epifenomeni dell’impegno di don Pino lasciano intravedere qualcosa di più profondo che attiene allo spirito dell’esistenza cristiana interpretata nella condizione ministeriale.” 

Ho voluto presentare come un crescendo, da Matassa PM, De Giorgi da Arcivescovo e poi il teologo che fa un’ulteriore riflessione su questo impegno pastorale di Puglisi. A cosa si riferisce l’allora docente della Facoltà Teologica di Sicilia don Scordato? 

“l’annunzio della libertà della Chiesa rispetto alla politica di partito e alle sue connessioni affaristiche, clientelari e mafiose e il superamento del collateralismo maturato in clima post-conciliare ha comportato nella situazione difficile di un quartiere popolare una messa in crisi di qualsiasi forma di connivenza o di accondiscendenza in esplicita discontinuità con gli equiproci di un certo passato. Tanto più che questa presa di distanza viene coniugata con un impegno che uscendo dalla sacrestia lo porta a percorrere le strade, a incontrare i giovani coinvolgendoli in un cammino di coscientizzazione, di partecipazione e di ricerca di libertà. Le scelte pedagogiche maturate da Puglisi nei suoi diversi campiscuola, la determinazione di un parroco interessato alla dimensione del territorio come luogo in cui esprime queste scelte, il desiderio di coinvolgere persone il cui impegno prendesse corpo in una comunità bisogna di respirare l’aria della libertà e della legalità, la ricerca di forme di partecipazione e la promozione di manifestazioni che dessero visibilità ad attraversamenti nuovi nel territorio; la scelta di annunziare il Vangelo del Padre Nostro e di tradurlo in una realtà opaca hanno provocato senza volerlo una reazione che non veniva cercata di per sé, quasi in un braccio di ferro, metteva a nudo invece da una parte l’incompatibilità con lo status quo di domino mafioso, dall’altra parte l’avvio di un processo di maturazione delle coscienze su tutto il fronte della responsabilità cristiana e civile, umana e religiosa e veniva mal sopportato da una struttura di violenza e di potere qual è quella della mafia.” 

Badate, qui si vede che Puglisi non è mai stato contro, anche se purtroppo come in questi giorni si è sentito dire “contro la mafia”, non esisteva. Lui stesso una volta, interrogato da un giornalista del Manifesto, rispose “non sono un prete antimafia, perché la Chiesa non è mai anti qualcuno, non è mai contro qualcuno. La Chiesa è sempre per l’uomo, per la dignità dell’uomo”. Ovviamente non c’è il braccio di ferro cercato, ecco il discorso di Scordato, ma nel momento in cui tu poi però lavori per la dignità dell’uomo, cerchi di portare avanti la libertà dell’uomo è chiaro che prima o poi confliggerà il tuo modo di vivere con quelli che la pensavo diversamente, ma non perché tu ti vuoi mettere contro di loro; attenzione, su questo secondo me dobbiamo essere sempre molto attenti perché ovviamente ai giornali interessa fare notizia sui preti antimafia, come i preti di frontiera, i preti di strada, gli slogan a loro servono perché vendono il prodotto. Noi invece dobbiamo essere più attenti che agli slogan, stare attenti alle parole che usiamo, non chiamiamo mai antimafia perché Puglisi per primo l’ha rifiutata quest’etichetta di prete antimafia, non siamo mai contro qualcuno, siamo per il Regno di Dio e per la salvezza dell’uomo in quanto cooperatori di Cristo, sempre pro hominibus. Questa per tanto, e ripetiamo in estrema sintesi, le linee pastorali di don Puglisi, linee pienamente evangeliche e di promozione dell’uomo che proprio per questo non potevano essere accettate da chi, come i mafiosi, si battono invece per la non piena dignità e libertà dell’uomo, sia dal punto di vista religioso che dal punto di vista civile. Se la mafia quindi si presenta profondamente atea e antievangelica, la casa dell’uccisione in odium fidei del prete palermitano deve essere ricercata nella modalità concreta attraverso la quale don Pino ha vissuto il suo essere pastore di gregge, inviato a guidare una porzione del popolo di Dio della Chiesa palermitana in uno dei quartieri in cui fortissimo è il potere della mafia, ha scelto di sposare pienamente il principio cristologico dell’incarnazione e al contempo quello cristologico del pieno inserimento nel territorio nel quale insiste una parrocchia. Per questo la mafia l’ha ucciso e ciò in odium fidei, perché la scelta evangelica di don Pino di lottare per la verità e la libertà dei figli di Dio, e la testimonianza di una vita caratterizzata dall’esercizio delle virtù richieste dalla fede, stridono e cozzano inevitabilmente con quanto creduto e realizzato dalla mafia. Questa è stata pertanto l’azione pastorale di don Puglisi “che ha fatto del prete palermitano un martire”, come afferma un altro prete di Palermo storico della Chiesa, don Francesco Stabile, riassumendo puntualmente il motivo dell’uccisione di Puglisi.  

“Giuseppe Puglisi presbitero della Chiesa Palermitana, può essere considerato martire [lo scrive prima ovviamente del riconoscimento ecclesiale] cioè testimone di Gesù Cristo perché è andato incontro alla morte con gli occhi aperti nella fede al suo ministero di prete. Egli ha realizzato quella coraggiosa testimonianza cristiana di cui aveva parlato il Papa ad Agrigento.” 

 

  1. L’ateismo pratico della mafia 

Sull’ateismo e l’antievangelicità della mafia desideriamo riportare ancora il parere di don Stabile, molto attendo a studiare il fenomeno mafioso da decenni. Scrive don Stabile: 

“sono convinto, contrariamente a quanto si crede, che la mafia sia strutturalmente una grave forma di ateismo. Utilizza anche immagine, simboli tratti dal codice culturale religioso, ma resta essenzialmente atea. La mafia è una forma di ateismo perché colloca un uomo, un gruppo di uomini, come detentori della totalità del potere e del sapere. In altri termini non accetta che vi sia un’istanza più alta al di fuori di essa. E per questo uno solo, oppure un ristretto vertice dell’organizzazione, ha il diritto alla propria; uno solo ha il diritto di decidere e di agire, agli altri non resta che l’obbedienza e l’omertà. Ogni cittadino che vive in territorio di mafia deve abbassare il capo, deve dipendere da un altro che pensa per lui, che decide per lui, ma questo è contro il vangelo, contro la dignità della persona umana, contro la libertà dei figli di Dio”. 

La riflessione di Stabile evidenzia chiaramente che la mafia, al di là dell’apparente religiosità che presenta, è intrinsecamente, sacramentalmente atea. – e uso appositamente l’ossimoro sacramentalmente atea – e contrario all’evangelo di Gesù Cristo. Ecco perché secondo il teologo Chiavacci “la mafia è sempre una sfida globale all’annuncio evangelico per il tradimento del vangelo insito nella mafia. Per questa ragione colpisce anche con la morte tutti coloro che esercitando le virtù richieste da una vita coerente con la fede cristiana, diventano d’ostacolo ai suoi malefici e malvagi complici”. È stato così anche per Puglisi la cui testimonianza di credente e ministro del Signore, che si è adoperato strenuamente per l’evangelizzazione e la promozione umana del popolo a lui affidato, specialmente le giovani generazioni, lo ha reso un bersaglio della mafia che non ha esitato a ucciderlo in odium fidei. E come scriveva Paolo Molinari, un gesuita:  

“Il termine odium fidei non significa necessariamente che l’uccisore odiava Dio o la Chiesa, bensì che pretendeva dal Servo di Dio un atto che questi a motivo della sua fede non poteva né voleva prestare. La negazione di un dogma, un atto contro la morale, ad esempio la castità, la giustizia, eccetera.” 

D’altra parte, se già san Tommaso aveva scritto “soffre per Cristo non solo chi soffre per la fede in Cristo, ma per qualunque opera di giustizia per amore di Cristo”, e ancora sempre Tommaso “il bene umano può divenire bene divino se lo si riferisce a Dio, per questo qualsiasi bene umano può essere causa di martirio in quanto riferito a Dio.” 

Se già Tommaso aveva scritto queste cose, quanto più può essere l’esercizio del ministero ordinato in quanto traspare ampiamente come Puglisi abbia sofferto per la sua opera di giustizia per Cristo e abbia vissuto la propria fede nella vita evangelizzando e adoperandosi ancora nel tempo per ridare dignità umana ai fedeli iniziando proprio dai fanciulli. Sempre a proposito dell’odium fidei ci sembra illuminante un’affermazione di san Giovanni Paolo II in un’omelia pronunciata in occasione della beatificazione di mons. Versiglia e don Caravario, due salesiani martirizzati in Cina nel 1930: 

“il martirio, si dice tradizionalmente, suppone negli uccisori l’odio control la fede; è a causa di essa che il martire viene ucciso, è vero. Questo odio contro la fede può presentarsi obiettivamente in due modi diversi: o a causa dell’annuncio della Parola oppure a causa di una certa azione morale che trova nella fede il suo principio e la sua ragione d’essere. È sempre per la sua testimonianza di fede che il martire viene ucciso, nel primo caso per una testimonianza esplicita e diretta, nel secondo per una testimonianza implicita e indiretta ma non meno reale ed anzi in un certo senso più completa in quanto attuata nei frutti stessi della fede che sono le opere di carità. Ne viene quindi che gli uccisori danno mostra di odiare la fede non solo quando la loro violenza si getta contro l’annunzio esplicito della fede, ma anche quando tale violenza si scaglia contro le opere di carità verso il prossimo, opere che obiettivamente e realmente hanno nella fede la loro giustificazione e il loro motivo. Odiano ciò che sorge nella fede, mostrano di odiare quella fede che è la sorgente.” 

Permettetemi una mia chiosa alla luce proprio di quello che dice il Papa, e che troveremo anche in un’altra citazione, io non sono stato mai tanto d’accordo e nella positio l’ho scritto nella terminologia martire della fede e della giustizia, oppure semplicemente martire della giustizia (mi riferisco ai convegni del Centro Cammarata a San Cataldo di cui sono stati pubblicati atti dove si portava avanti la terminologia martire della giustizia). Di fatto già nella virtù della fede sono insite tutte le virtù che si inanellano proprio nella virtù della fede. Per cui dare altre terminologie all’odium fidei e declinarlo con altre modalità rischia di attentare l’unicità e la completezza che già nel termine fede c’è in ordine all’esercizio di tutte le virtù. 

Inoltre, dire ad esempio martire della giustizia, e in questi tempi se ne parla parecchio, è un termine che può risultare ambiguo secondo il sentire comune. Infatti, quando io parlo di giustizia la gente giustamente pensa alle persone che si adoperano per la libertà, per la giustizia, nel sentire comune è questo il significato di giustizia. Se voi leggete tanti scritti, tante persone che parlano appunto della giustizia questo intendono, attenzione! La virtù della giustizia, e noi lo facciamo anche quando esaminiamo le positiones in Dicastero, non è semplicemente quella orizzontale del rapporto con gli uomini, ma ha anche la dimensione verticale, anzi viene prima la dimensione verticale, c’entra appunto con Dio. Per cui, ad esempio, tra le domande che si fanno nell’interrogatorio sui processi di richiesta di canonizzazione, si dice se il candidato è stato giusto verso Dio e verso il prossimo e ad esempio una giustificazione della giustizia verso Dio è l’atto di culto, la preghiera. Questa è la Tradizione della Chiesa quando parliamo di giustizia. Quindi sottolineando martire della giustizia, dimenticando la dimensione verticale perchè, ripeto, la gente non lo coglie questo rapporto con Dio, ma solamente il rapporto orizzontale, a mio avviso può creare un’ambiguità linguistica sulla quale, secondo me, tutti noi cristiani siamo più allusi. Alle nostre cose, alle riflessioni teologiche, dobbiamo prestare più attenzione, altrimenti si veicola che il martire della giustizia è quello che ha vissuto secondo la legalità o si è adoperato perchè la legalità appunto potesse trovare ampiamente spazio, il giusto spazio che deve avere in una comunità civile. Ecco allora sull’odium fidei riflettiamoci un po’ tutti perché la virtù della fede è il cuore ed è chiaro che dire virtù della fede significa dire tutte le altre virtù ad essa legate.  

Riprendendo il discorso, a nostro avviso la caritas pastoralis esercitata da un parroco rientra certamente nelle opere di carità di cui parlava papa Giovanni Paolo II, non viene ucciso solo perché c’è apertis verbis una professione di fede, ma viene ucciso per le opere di carità che ti nascono dal tuo vissuto di fede. Crediamo anzi che prendersi cura di tutte le persone componenti il tessuto parrocchiale di una parrocchia, spendersi totalmente per la loro crescita nella vita di fede e la loro promozione umana, rappresenti una delle forme più alte di carità che un ministro ordinato può offrire. Per questo si può affermare che don Puglisi è martire perché come diceva il Papa ucciso per una testimonianza implicita, indiretta, ma non meno reale e anzi in un certo senso più completa in quanto attuata nei frutti della fede che sono le opere di carità. Quasi a termine dell’omelia Giovanni Paolo II pronuncia delle parole nelle quali ci ho visto benissimo Puglisi: 

“Mons.Versiglia e don Caravario, sull’esempio di Cristo, hanno incarnato in modo perfetto l’ideale del pastore evangelico, pastore che è ad un tempo agnello che da vita per il gregge, espressione della misericordia e della tenerezza del Padre, ma allo stesso tempo agnello che sta in mezzo al trono, leone vincitore, valoroso combattente per la causa della verità e della giustizia, trionfatore sul male e sul peccato e la morte”. 

Di Puglisi mi è sempre piaciuto la sua inermità, non ha voluto scorte, non solo non ha voluto scorte ma ha salvaguardato tutti gli amici più cari e negli ultimi tempi ha detto loro di andare via e se ne stava solo, perché aveva capito che di lì a breve sarebbe stato ucciso; e siccome c’erano stati già Falcone e Borsellino con le loro scorte, lui ha salvato le persone sue care dal vicario parrocchiale, agli amici, a tutti gli altri che lo frequentavano. Negli ultimi tempi è rimasto solo e non voleva che le persone andassero a casa sua, ecco perché è morto a piazza Anita Garibaldi sotto casa. È l’agnello inerme che non solo lui è inerme, per cui rientra perfettamente nel martirio, ma è colui che difende gli altri nella sua inermità evitando che gli altri potessero essere uccisi. Questo è Puglisi.   

Al nostro avviso, inoltre, possiamo fare una sorta di comparatio a tutti gli effetti tra il totalitarismo e la mafia, perchè di fatto nel mafioso c’è l’obbedienza al capo come nel regime totalitario c’è l’obbedienza del soldato al capo, c’è la non domanda, non c’è la consapevolezza del dire “cosa sto facendo”. Vi ricordate la testimonianza dei processi a Wiesenthal o ad Eichmann, che cosa rispondevano? “Io ho obbedito agli ordini”. Ecco, quest’obbedienza agli ordini ti evita l’accusa della consapevolezza dell’azione che stai facendo, per cui tu in coscienza sei a posto e l’ordine al superiore di permette di non pensare al fine della tua stessa azione. Questo è terribile, attenzione. Il killer a Puglisi neanche lo conosceva, lo ammazza perchè qualcuno gli dice che lo deve ammazzare, siamo a questi livelli. Non posso chiedere all’omicida la consapevolezza che tu stai uccidendo il prete, ecco perchè la comparazione con il soldato del regime totalitario. E Puglisi è veramente tra i tanti dei quali non si ricordano il numero, questa è la tragedia, neanche si ricordano quanti ne hanno ammazzati. La prima difficoltà è il primo omicidio, poi diventa tutto più semplice dicono, aperta la carriera è fatta.  

Scriveva De Giorgi nella presentazione di un volume: “Il martirio è stato il culmine di questa tensione pastorale nell’esercizio del ministero, non è stato un caso.” Puglisi era profondamente consapevole [quando si fanno le positiones in ordine al martirio bisogna dimostrare la consapevolezza in chi viene ucciso e in chi uccide] che quel tipo di ministero l’avrebbe portato alla morte, ma non è stato  un pavido, non è stato un don Abbondio con tutto il rispetto, è stato uno che ha continuato a vivere e camminare lì dove si trovava perché lì era un luogo di missione che il vescovo gli aveva affidato e lì doveva avere il suo ministero presbiterale senza tergiversare, senza fughe. Quindi non è stato un caso, dice De Giorgi, non è stato una sorta di incidente di percorso, è derivato dalla dinamica di donazione a Dio e ai fratelli, era in qualche modo iscritto nel dinamismo di vocazione presbiterale vissuta con umile e serena coerenza. Certo il martirio non è stato da lui perseguito come un progetto proprio, sappiamo che la Chiesa ha sempre rifiutato coloro che hanno l’ardore del martirio, non si va incontro al martirio così, tu devi evitarlo per quanto è possibile, questo è uno dei canoni fondamentali. Non vai alla ricerca del martirio, quello è una centralità del tuo io, è il tuo narcisismo che forse ti dice che con la morte diventi qualcuno. Si fugge sempre per quanto è possibile, se poi arriva lo accetti. Certo il martirio non è stato da lui perseguito come un progetto proprio, non è stato per lui ricercato con una superba volontà di superomismo o di titanismo; quanti l’hanno conosciuto senza eccezione affermano che niente è a lui più estraneo della posa da eroe. E scusate la citazione personale, io l’ho conosciuto che avevo 12 anni perchè facevo parte di “Crociata del Vangelo” (poi Presenza del Vangelo), quindi ho avuto la gioia di partecipare ai cenacoli con lui per quanto da dodicenne potessi capire, ma lui ci dava il vangelo a quell’età, e mi dispiace che questo frammento del lavoro e dell’importanza di Presenza del Vangelo in Puglisi non venga spesso messo in luce.  Puglisi deve tantissimo all’incontro con Lia Cerrito perché insieme insegnavano alla scuola media Archimede, Lia lo invitò ai cenacoli a cui Puglisi non era mai stato e rimase contento – lui amava tantissimo la Parola di Dio – che un gruppo ecclesiale mettesse al centro non le  devozioni, con tutto il rispetto delle devozioni, ma la Parola di Dio e si incontrasse e facesse gruppo stando intorno alla Parola; e impazzì, nel senso buono del termine, cioè riuscì a capire che si poteva vivere la spiritualità profondamente evangelica, com’era la sua. Quindi quel suo sentore iniziale che aveva in seminario, grazie a un professore di esegesi che lo aveva un po’ fatto innamorare della Parola, con Crociata del Vangelo esplode. E quindi l’amore e la Parola e la radicalità di sequela della Parola, queste caratterizzano Puglisi. Ecco, perciò, l’importante contributo di Presenza del Vangelo anche con tutte le missioni organizzate a Godrano, il Centro Padre Nostro perché Presenza del Vangelo farà la giornata del Padre Nostro, per cui gli da il nome, perché era profondamente intriso di questa giornata del Padre Nostro.  

Vi ho portato quest’esempio perché per grazia di Dio l’ho conosciuto che avevo 12 anni ed era la persona più schiva di questo mondo, non era neanche un affabile parlatore, a volte anche pesante, con tanti silenzi, non aveva questo dono della parola decisamente, non era fluido o scorrevole nell’eloquio. Era una persona schiva, questo non significa che non fosse serio o di spessore anzi, ma di sicuro non cercava i palcoscenici. Scusate questa digressione, ma di sicuro non cercava i palcoscenici. Noi a Palermo abbiamo avuto i famosi preti antimafia perché al solito i giornalisti dovevano dare lo slogan, ma Puglisi nessuno lo conosceva se non chi lo conosceva perché un palcoscenico non l’ha mai salito. L’unica intervista fatta da Vincenzo Morgante, quella che di solito passa nelle tv regionali, che è attuale direttore di Tv2000 della CEI ma ai tempi era un membro del TgR regionale, nasce come intervista a un prete nella casualità totale, diventando forse l’unico segno di Puglisi in cui mantiene un modo di parlare come se nulla fosse successo, nonostante fosse reduce da bastonate e minacce. Alla gente che lo incontrava non parlava delle botte, ma restava schivo, lungi da lui ogni palcoscenico o l’idea di essersi cercato il martirio, è stato sempre decentrato, al centro ha messo il Cristo e le persone.  

“Il suo martirio è stato semplicemente la conseguenza non ricercata di un umile volontà di quotidiana fedeltà al Signore ed al compito a lui affidato anche di fronte alla prospettiva di una morte violenta inflitta dagli uomini dediti al male. L’amore per il Signore e per i fratelli è stato più forte dell’amore della propria vita. Solo lo Spirito di Dio può rendere capaci di tanto, il martirio di don Puglisi è stato dono di Dio.”  

Il martirio è sempre un dono stupendo che l’uomo non può pretendere di avere ma che Dio graziosamente dona.  

Concludo con quello che trovai scritto dell’allora segretario della Congregazione delle Cause dei Santi, mons. Nomak, che nel 2004 in occasione dell’inaugurazione della prolusione delle Cause dei Santi, parlò del martirio e disse: 

“Perché un fedele sia proclamato martire in senso canonico è necessario che primo gli sia stata veramente procurata la morte mediante l’uccisione; secondo è necessario che il persecutore abbia ucciso in odium fidei, per odio alla fede, cioè gli abbia inflitto la morte per motivi religiosi. Tale odio ha per oggetto non solo le verità da credere, l’oggetto dell’odio può essere anche l’esercizio delle virtù richieste dalla fede e cioè le virtù richieste da una vita coerente con la fede cristiana. Terzo, è necessario che il fedele abbia accettato volontariamente la morte per amore della fede. Non è necessario che venga offerto esplicitamente al martire la possibilità di avere salva la vita se rinnega la fede, basta che egli sia conscio che la pratica di una vita integramente cristiana può avere come conseguenza la morte” 

E queste tre cose perfettamente sono in Puglisi. Parlando poi delle persecuzioni nel XX secolo, mons. Nomak diceva: 

“È il martirio dei cristiani sottoposti all’offensiva delle altre concezioni o sistemi di vita che non accettano il messaggio cristiano. Molte volte si tratta di difendere semplicemente valori umani che sono essenzialmente cristiani, per esempio la difesa dei deboli, la tutela dei valori morali nella vita pubblica, il primato della coscienza.” 

E riferendosi alla morte di un arcivescovo colombiano, Arcivescovo Isaías Duarte Cancino, dice: 

“È una morte impressionante perché lui con le armi evangeliche combatteva il male nelle sue più mostruose espressioni come il narcotraffico [Puglisi con la mafia]. I cristiani oggi muoiono in contesti differenti, ma il comune denominatore di tutte queste vicende è una testimonianza di fede disarmata e tenace.  

Questa è la mitezza, che non è debolezza. La mitezza è tenacia. E quando il Signore dice “beati i miti” non intende beati gli stupidi, quelli che non capiscono le cose, il mite capisce bene le cose e la sua azione agli occhi degli altri può passare come l’azione di uno che non ha capito le cose, ma è un’azione voluta, scelta e quindi tenace, ma disarmata. Mai e poi mai con violenza, mai e poi mai con sopraffazione e con persone armate. Tu sei inerme perchè Cristo è salito sulla croce agnello inerme.  

Continua sempre Nomak: 

“In un caso concreto la Chiesa locale, con il vero senso della fede, riconosce spontaneamente il martire e lo venerano in questa sua qualità. Il vescovo ha il compito di verificare la presenza dei criteri del martirio cristiano in una morte concreta, si tratta cioè dell’effusione del sangue per la fede o virtù cristiane e l’accettazione volontaria di tale morte. Se noi analizzando la morte di una persona vediamo che è stata inflitta per motivi religiosi e questa persona è stata accettata per motivi della fede, abbiamo a che fare esattamente con il martirio cristiano. È importante, inoltre, che l’ambiente in cui la persona è vissuta e martirizzata affermi e riconosca la sua fama di martirio.” 

Ci deve essere dunque questo sentire della gente che dice “sei un martire”, questa fama è diffusa, fama spontanea, mai artefatta o mossa dall’altro e che poi preghino il martire ottenendo grazie. Puglisi non è il martire del santino da mettere di solito in Chiesa, chapeau, ma è il martire al quale mi rivolgo proprio perchè sei martire, proprio perchè hai dato una bella testimonianza di vita e di fede io che ho il cancro ti dico “Puglisi aiutami tu, intercedi presso il Padre”. Non sono tanto importanti le ideologie ma il senso di fede del popolo di Dio che giudica il comportamento martiriale di una persona e il soggetto comunità ecclesiale. Il martirio deve essere sentito dalla comunità ecclesiale, non è qualcosa di individuale.  

Rileggendo la leggenda di Puglisi alla luce di quanto affermato da Nomak la posso sintetizzare come segue.  

Il presbitero palermitano è stato ucciso dalla mafia, organizzazione criminale atea e antievangelica, in odio alle virtù richieste dalla vita coerente con la fede cristiana. Don Pino è stato consapevole che la pratica di una vita totalmente cristiana, tessuta di sequela radicale all’evangelo di Gesù Cristo, avrebbe potuto avere come conseguenza la morte. Quello del parroco di Brancaccio è il martirio di un cristiano sottoposto all’offensiva di un sistema di vita, la mafia, che non accetta il messaggio cristiano. Un martirio subito per amore di Cristo e della Chiesa e per aver portato avanti nella straordinaria ordinarietà del ministero di pastore di una porzione di popolo di Dio, valori umani e cristiani quali la difesa di deboli, educazione della gioventù, rispetto della giustizia e della legalità, l’acquisizione di diritti totalmente negati alla gente, la richiesta di avere nel quartiere una scuola, un presidio sanitario e quant’altro. Don Puglisi ha affrontato inoltre il combattimento del male nelle sue più mostruose espressioni come la mafia, con le armi tipiche di ogni credente: la centralità dell’annunzio evangelico nel ministero presbiterale e la testimonianza di fede disarmante e tenace. Pensiamo pertanto che il martirio di Puglisi abbia contribuito all’assenso dell’uccisione in odium fidei. Il prete palermitano non è stato ucciso come la quasi totalità di martiri dei XX secolo, da persecutori che hanno fatto professione chiara ed esplicita di ateismo e di conseguenza di ferma ostilità verso chiunque professasse la fede in Cristo. Don Puglisi è stato ucciso in un contesto cristiano a Palermo e da un uomo che ha ricevuto tutti i sacramenti dell’iniziazione cristiana. Quest’uomo però appartiene a un’organizzazione criminale che pur costituita da altri cristiani dal punto di vista anagrafico, perché sono battezzati, in realtà di cristiano non ha nulla, proprio perché la mafia è inequivocabilmente un’associazione atea e tirannica, nonostante l’uso della simbologia religiosa. Poco spessore l’eventuale considerazione che l’omicida non doveva uccidere in odium fidei ma solo perché il prete dava fastidio, ma tale argomento costituisce il livello più superficiale nell’uccisione di Puglisi. Il velo più profondo e più vero si situa proprio nella volontà della mafia di non riconoscere spazio ad alcuno, fosse anche Dio, perché la mafia è forma idolatrica di religiosità. Per questo don Pino che viveva e operava mosso dalla fede in un Dio vero per la gloria Sua e per le persone affidategli, doveva essere eliminato. Il parroco palermitano ricordava infatti con la propria vita virtuosa, indomita seppur inerme, perchè scevra da ogni strumento che non fosse stato da vangelo in Cristo, signoria e la primazia del Signore rispetto a ogni potere umano, specie se esercita a scapito della giustizia e della dignità umana. È proprio vero che l’odio della mafia dei credenti in Cristo, fino alla loro eliminazione fisica com’è stato per Puglisi, rende attuale l’insegnamento evangelico sull’impossibilità di servire due padroni, Dio o mammona. Azione pastorale quella di Puglisi che di fatto non è opposta a una legge nemica dello stato, ha contrastato invece fortemente le leggi inique e atee della mafia la cui pretesa è di essere uno stato parallelo a quello legittimo; leggi che non hanno la pretesa di obbligare qualcuno a porre in atto l’azione contro una legge divina, assolutamente, ma che contrapponendosi radicalmente a questa, non permettono che si realizzi l’annuncio evangelico tout court quando questo è veramente dirompente per il quieto vivere mafioso. Uccidendo Puglisi la mafia ha voluto così non tanto e non solo togliere la vita a un prete che si imponeva per la sua opera di evangelizzazione, ma riaffermare certo non con la fine arte del dialogo e del confronto pacifico, ma con l’orrore ateo del piombo, la propria assoluta incompatibilità e il proprio profondo odio nei riguardi della fede e del messaggio cristiano.  Per questo a nostro avviso il celebre detto di S. Agostino “martires no facit pena, sed causa” è centrale: Puglisi è martire non perchè è stato brutalmente ucciso, ma la causa deve essere sempre esplorata. Questo può essere applicato a don Puglisi riconosciuto come martire.  

Scrisse il Cardinale Amato, emerito del Dicastero delle Cause dei Santi, nel 2012 dopo che si seppe la notizia ufficiale appunto del fatto che Puglisi era stato riconosciuto come ucciso in odium fidei, disse in un’intervista all’Osservatore Romano: 

“Si tratta di una causa di martirio, è stato ucciso in odium fidei. Ovviamente qui bisogna chiarire in odium fidei, dal momento che la mafia viene descritta come realtà “religiosa”, una realtà i cui membri sembrano apparentemente molto devoti. In effetti noi abbiamo approfondito quest’aspetto e abbiamo compreso come da una parte abbiamo un’organizzazione che più che religiosa è essenzialmente idolatrica, anche il paganesimo antico era religioso ma la sua religiosità era rivolto agli idoli; nella mafia gli idoli sono il potere, il denaro, la prevaricazione e quindi una società che con un involucro pseudoreligioso veicola un’etica antievangelica, che va contro i dieci comandamenti e il vangelo. La Scrittura ci dice “non uccidere, non dire falsa testimonianza”, nell’ideologia mafiosa invece si fa esattamente l’opposto. Gesù ha detto di perdonare i nemici e qui troviamo il contrario, la vendetta. La mafia è intrinsecamente anticristiana. Per di più l’odio verso Puglisi era determinato semplicemente dal fatto che si trattava di un sacerdote che educava i giovani alla vita buona del Vangelo; dunque, sottraeva le nuove generazioni alla nefasta influenza della malavita. Per un contesto nuovo anche in don Puglisi si è verificato il concetto tradizionale di martirio e cioè appunto un battezzato ucciso in odio alla fede. Puglisi è stato ucciso in quanto sacerdote non perchè immerso nell’attività sociopolitiche particolari, ucciso in quanto predicava dottrina cristiana ed educava i giovani a vivere con coerenza il loro battesimo. Non per altro non andava contro nessuno.” 

 

Concludo con le parole di Puglisi, che quando le incontrai mi sconvolse. Nel 1991 partecipò a un convegno nazionale di Presenza del Vangelo e gli venne affidato una relazione, com’era solito che avvenisse, e la relazione aveva come titolo “Testimoni della Speranza”; sentite cosa disse Puglisi in quella relazione, da accapponare la pelle, intravediamo il profeta che sa veramente guardare oltre. Disse: 

“Certo la testimonianza cristiana è una testimonianza che va incontro a difficoltà, una testimonianza che diventa martirio. Infatti testimonianza in greco si dicemartyrion. Dalla testimonianza al martirio il passo è breve, anzi è proprio questo che da valore alla testimonianza. San Matteo ci riferisce le parole dell’inizio del discorso della montagna che si conclude così “sarete felici quando vi perseguiteranno e mentendo diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia”. Per il discepolo testimone è proprio quello il segno più vero che la sua testimonianza è una testimonianza valida. Testimone della speranza è colui che attraverso la propria vita cerca di lasciar trasparire la presenza di Colui che è la sua speranza, la speranza in assoluto in un amore che cerca l’unione definitiva con l’amato e intanto gli manifesta quest’amore nel servizio a Lui, visto presente nella Parola, nel sacramento, nella comunità, in ogni singolo uomo specialmente nel più povero, finchè si compia per tutti il suo Regno e Lui sia per tutto in tutti. Manifesta insomma quel desiderio ardente di un amore che ha fame della presenza del Signore.” 

Ditemi voi se questa non è una vetta mistica. Ricordiamo S. Paolo quando scrivendo alla comunità diceva “io vorrei essere separato da voi per restare già con il Signore, però ci siete voi e allora preferisco restare qui”. Lui dice presago di quello che gli sarebbe accaduto, il testimone è quello che di fatto sa che prima o poi sarà martire e vive questa speranza di totale unione con il Signore che incontra nella Parola, nel sacramento, nella comunità, in ogni uomo, specialmente nel più debole. E don Puglisi è rimasto a fare il parroco perché pur avendo l’ardente desiderio di essere un tutt’uno con il Signore, di essere con Lui come Paolo scrive, sa però che quella comunità ha bisogno e ci resta bevendo fino in fondo il calice della passione perché quel testimone di cui Puglisi aveva detto nel ’91 era lui, perchè nel ’93 questo testimone è diventato martire.