La Trinità, nostra dimora
È studiando il libro dell’anima di Cristo che Elisabetta scopre come il Suo primo «movimento» vada nella «casa» trinitaria: il figlio va irresistibilmente verso il Padre, il Padre si protende su di Lui con tenerezza infinita; e il soffio, l’anelito della loro reciproca protensione è lo Spirito.
Per conseguenza, quando Cristo si muove verso di noi (e ci attrae), noi veniamo trascinati da lui nel suo mondo divino.
«La Trinità, ecco la nostra dimora, la nostra casa, la casa paterna dalla quale non dobbiamo uscire più».
Se noi seguiamo Cristo «come fossimo la sua ombra», fino a rassomigliarGli, fino ad aderirGli sponsalmente, eucaristicamente, ci troviamo nella dimora a Lui familiare.
Ma avviene con la Trinità intera, la stessa cosa che avviene con il Figlio: affinché noi giungiamo a penetrare nella Sua vita – e questo sarà lo sbocco finale e il senso della nostra esistenza, nell’aldilà – egli penetra intanto nella nostra: rispetta il nostro al-di-qua, le nostre terrene complicazioni e frammentazioni, il nostro cammino, ma penetra intanto nel profondo del nostro essere.
L’uomo non deve uscire da se stesso: Cristo ci ha avvinti con la sua grazia e il suo amore nel centro stesso della nostra anima, ed Egli è venuto a noi con il Padre e lo Spirito: ha posto in noi la sua abitazione: affinché noi giungessimo a dimorare in Lui, ha scelto di dimorare in noi. C’è nel profondo dell’anima di ogni battezzato una dimora segreta che appartiene solo al Dio Trinità, e l’uomo deve continuamente entrarvi, imparare ad entrarvi.
(Antonio Sicari, Elisabetta della Trinità. Un’esistenza teologica, 2a ed., Roma, 1986, p. 157-158)
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