N.02
Marzo/Aprile 2024

Sprigionare energia

La trasfigurazione della vita e della morte

Come si può affrontare la vita quando perdi il senso di ogni cosa, quando la sofferenza lacera l’anima o quando anche il ricordo di Dio in cui avevi riposto la tua speranza sembra svanire perché hai perso tutto e umanamente non restano energie da mettere in gioco? Come cercare l’amore se la persona che più ami sparisce nel silenzio della morte? Certamente non ci sono parole facili né risposte preconfezionate; né basta ripetere a se stessi che bisogna aver fede e che si può credere nella vita eterna, nella Pasqua del Signore. Non bastano le parole. Necessariamente ci si deve rimettere in cammino nell’aridità del deserto per cercare risposte che non si riescono poi a raccontare. Cercare Dio che sembra scomparso nella notte e provare di nuovo a lodarlo per ritrovare la gioia, provare ad affidare a Lui la vita per ritrovare la speranza, affidare a Lui chi amiamo e chi abbiamo perduto per ritrovare Lui e in Lui il tutto. Il cammino di chi è stato colpito al cuore dalla delusione, del proprio peccato, dal tradimento altrui o dalla sofferenza che nasce dall’amore è così lungo eppure profondamente interiore. A chi soffre è difficile dire qualcosa e chi soffre fa fatica a raccontare qualcosa di sé.

L’arte può diventare un modo per cercare dentro se stessi la Vita, l’Amore, l’Amato, l’Eterno: Dio. Attraverso il plasmare la materia l’uomo può ritrovare se stesso e mentre penetra nel mistero, mentre costruisce scalpellata dopo scalpellata, pennellata dopo pennellata la sua opera racconta ciò che vive, lo imprime quasi volesse che le sue parole non dette restassero per sempre. Per sempre nel suo cuore ferito, per sempre quale racconto d’amore e di speranza per tutti coloro che vorranno cimentarsi nel guardare quanto le sue mani hanno raccontato.

E l’opera dell’artista piange, sussurra, ride, grida. Vengono alla mente le parole di Giobbe che grida: «Oh, se le mie parole si scrivessero, se si fissassero in un libro, fossero impresse con stilo di ferro e con piombo, per sempre s’incidessero sulla roccia! Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio» (Gb 19, 23-26). A una mamma che nell’arte ha trovato la forza dopo aver perso il figlio abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza. Aveva iniziato a dipingere da ragazza ma aveva poi smesso presa dalle molte cose[1].

«Sentii la necessità di riprendere in mano i pennelli e i colori con la forza di una madre che ha appena perso un figlio e con l’urgenza di dover trasmettere a tutti il mio stato d’animo.

“Il dolore di una madre” è una sofferenza di cui non mi voglio liberare, che ha preso il posto di mio figlio nel mio grembo, diventando l’unico ancoraggio che mi tiene ancora legata a lui: il vuoto lasciato da un grande amore, può essere colmato solo da un grande dolore e quel grande dolore lo custodisco gelosamente. Sentii così l’esigenza di rendere quel dolore tangibile, reale e palpabile, per essere compreso e condiviso da tutti.

Così decisi di creare opere materiche che potessero sprigionare la mia energia, la mia forza e il mio vigore, attraverso colori accesi, luminosi: i colori che la mia anima, in pieno tumulto di emozioni, emanava.

Quel dolore racchiuso dentro, doveva sprigionare fuori l’esaltazione della mia tenacia e della mia sopravvivenza al fardello che portavo.

Raggiunsi lo scopo scegliendo il marmo, materiale di cui conosco molto bene le caratteristiche tecniche e qualitative, simbolo della mia terra, fatta di aspre montagne, le Alpi Apuane, e uomini duri e forti che da secoli ne subiscono il fascino e il pericolo. Il mondo del marmo è fatto infatti di emozioni belle ma anche dolorose. Pensiamo ad esempio alla passione, alla tenacia, alla forza e alla fatica con cui il cavatore strappa il marmo dalla montagna costantemente esposto a rischi e a pericoli. Troppo spesso quel lavoro antico di millenni si è macchiato del sangue dei suoi stessi lavoratori e sovente si è sentito il suono delle campane a morto provenire dalle chiese dei paesi vicini alle cave. Nei secoli il marmo ha adornato palazzi, ville e cattedrali ed è diventata materia sulla quale le mani di abili scultori hanno potuto plasmare armoniche figure, regalando gioia e destando bellezza e meraviglia.

Decisi così di trarre ispirazione da questi artisti creando qualcosa di nuovo e di diverso, utilizzando il marmo ma sotto forma di polvere: con passione, forza e tenacia ho lavorato di getto e d’istinto usando la spatola per plasmare l’opera sulla tela bianca, senza avere uno schema ben preciso e senza aver fatto prima alcun schizzo o bozzetto. Fu così che presero forma le mie opere materiche e informali, derivanti da una metamorfosi in cui la polvere è tornata ad essere materia viva, esattamente come un corpo che dopo la morte torna polvere per poi tornare a vivere in una vita nuova.

I colori hanno fatto il resto, dando luci e ombre per risaltare quelle stesse emozioni, quegli stessi sentimenti e stati d’animo che già la materia vorticosamente era riuscita ad estrapolare dalla tela.

Col procedere del lavoro, il mio mondo interiore si concretizzò davanti a me: non era più frammentato, ma aveva adesso un’armonia, un ritmo, una forma, costruendo così negli anni un percorso ben definito.

Ho visto il mio mondo interiore e grazie alla materia l’ho potuto toccare. Ciò mi ha portato alla consapevolezza dei miei limiti, delle mie debolezze, aiutandomi a combatterle e a superarle, ma anche della mia forza, della mia grande tenacia, energia e passione.

Attraverso l’arte, il mare che colpisce per impeto e vigore, i fiori che mossi dal vento non si spezzano e donano energia, rappresentano una metafora della mia vita da cui mi sono sentita tradita quando mi ha sottratto ingiustamente, con la morte di mio figlio Lorenzo, una felicità che mi aveva regalato.

Tuttavia nelle mie opere c’è sempre un amore incondizionato verso Dio, certa che ha un disegno ben definito per ognuno di noi; una fede che si basa sulla forte convinzione della presenza di Lorenzo in una dimensione ultraterrena dove un giorno avverrà il ricongiungimento definitivo, non più nei miei dipinti, ma in un incontro nell’eterno amore.

Ed è così che l’arte diventa un potente anello di congiunzione fra l’immanente e il trascendente, fra il mondo terreno e il divino. L’arte per me ha al centro l’uomo nella sua dimensione irrazionale, emotiva, sentimentale, passionale ed è un collegamento con l’aldilà, con la vita ultraterrena dove ormai sono confinati i miei affetti, ove cercare rifugio e forza di sopravvivere.

C’è sempre un richiamo alla vita eterna, un collegamento al mondo di Dio che veglia dall’alto. Ho scoperto che l’uomo può faccettare il progetto che Dio ha deciso per lui, senza mai cadere nella tentazione dell’autodistruzione; la limitatezza della ragione non ha, infatti, gli strumenti per comprenderlo.

Cosa salva l’uomo dall’amara accettazione di un incomprensibile destino pieno di sofferenza? L’irrazionale, che si concretizza nelle emozioni, nei sentimenti.

L’arte è stata per me strumento con cui rendere materia i miei sentimenti affinché vengano compresi e fatti propri, diventando improvvisamente quelli di tutti, coinvolgendo l’osservatore in un profondo stato meditativo, in armonia con Dio, in sintonia con la purezza dello Spirito e in simbiosi con l’Eterno: un potente strumento di speranza per l’uomo, dunque, che mi ha permesso di metter ordine fra i sentimenti, sopravvivere alle sofferenze, e farmi così avvicinare a Dio».

 

 

[1] L’introduzione alla testimonianza è stata curata dall’ Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto della Conferenza Episcopale Italiana. Le parole che seguono sono dell’Autrice.