N.03
Maggio/Giugno 2024

Petites. La vita che vorrei… per te

Acuta riflessione tra gravidanza e genitorialità, tra bene per sé e per l’altro da sé

Camille (Pili Groyne) ha 16 anni quando viene spostata in una casa-famiglia per giovanissime gestanti. Obbligata a lasciare la casa materna, dopo aver tentato di porre fine autonomamente alla sua gravidanza al quarto mese, la ragazza non sente ciò che sta crescendo dentro il suo corpo divenuto una sorta di terra straniera. “Qui è tutto morto”, dice, raccontando la sua dissociazione, eppure una ancora invisibile creatura sta bene e progressivamente bussa alla sua attenzione grazie al lavoro educativo di cura e accompagnamento che sperimenta nella nuova struttura, con l’educatrice Nadine (Romane Bohringer). La presa di distanza dalla relazione tossica, e troppo simmetrica, con la madre apre a Camille le porte della crescita, della percezione di sé e della responsabilità che consegna una “vita piccola”.  

Petites. La vita che vorrei… per te, opera d’esordio della sceneggiatrice Julie Lerat-Gersant, ha il pregio di mettere a fuoco quanto si possa perire sia di troppa sia di poca famiglia e quanto sia altrettanto urgente introdurre nella vita di bambini e adolescenti rappresentazioni familiari fondate sulle competenze dell’adultità e consapevoli delle proprie eredità emotive. La scrittura di Petites, ispirata dalla conoscenza sul campo di Lerat-Gersant di strutture francesi per l’accoglienza di madri adolescenti, illumina il processo di cambiamento della protagonista. 

In comunità, Camille sperimenta le regole di una casa, l’amicizia della giovinezza, ma anche l’incapacità di alcune di loro di essere presenti nei confronti delle esigenze dei propri figli, nelle azioni e negli atteggiamenti. Toccando le conseguenze di queste “assenze” impara a distinguere tra gravidanza e genitorialità, a cogliere che il bene più grande per sé e per l’altro da sé, che prende vita da(l) noi, richiede un fare verità altissimo, un discernimento che solo argini saldi e adulti possono sollecitare in una ragazza cresciuta all’ombra di una madre incerta e senza un padre. Sentirsi finalmente figlia, il bene che Camille riceve dal vivace abitare della casa-famiglia, regala alla creatura che porta in grembo, oltre che la possibilità di vita, anche la certezza che un “nido” è una faccenda seria. Accanto al parto biologico si compie anche la rinascita di una ragazza che, camminando sui passi delle proprie radici, impara a fare famiglia prima di tutto con se stessa. C’è ancora tempo per innamorarsi e per i pattini con la musica dei Superpoze… ma senza fare del male. Straordinario l’impatto estetico di questa maturazione: dai primi piani addosso ai personaggi, alla maniera dei fratelli Dardenne, al progressivo allargamento dello sguardo che sa riconoscere la persona dentro un ambiente sociale e interiore. 

 

 

Schermi paralleli. Sul tema la commedia drammatica The Miracle Club (2024) di Thaddeus O’ Sullivan, con Maggie Smith, Kathy Bates e Laura Linney. Film che esplora silenzi e traumi del passato, aprendo al coraggio di perdonare e perdonarsi. Opera densa di temi complessi (fede, morte, disabilità, malattia, trauma dell’aborto, abbandono), gestiti però con grazia e gentilezza (Sergio Perugini).