N.04
Luglio/Agosto 2024

La rivoluzione del lavoro

Intelligenza Artificiale e trasformazioni sociali

Il lavoro è il crocevia delle tre grandi transizioni: digitale, climatico ambientale e demografica.

Per questo è l’aspetto della condizione umana in più rapido e profondo mutamento.

Il digitale scongela lo spazio (i luoghi) e il tempo (gli orari) del lavoro, l’emergenza climatica incide sulla necessità di nuovi modelli di produzione e di sviluppo, di stili di vita. Il nostro default demografico, il silver tsunami italiano (come lo ha definito il New York Times), un rapido invecchiamento e de-giovanimento e riduzione della popolazione (specie in età da lavoro) scompagina tutti i piani. In questo contesto si inserisce l’innovazione tecnologica che promette l’intelligenza artificiale, per la sua rapidità di diffusione e per la sua portata generale. Pochissimi ambiti della nostra vita non ne saranno condizionati.

Ogni tecnologia evolve e matura nel tempo. Recentemente, l’intelligenza artificiale (AI) si è trasformata da concetto futuristico a realtà tangibile. Dagli entusiasmi iniziali dei momenti fondativi al Dartmouth College nel 1956, l’attenzione e lo sviluppo dell’AI ha avuto numerosi abbandoni, veri e propri inverni. Questo primo maggio avviene in una fase di “primavera” dell’intelligenza artificiale. Crescono gli investimenti, l’attenzione mediatica, si allarga la platea di chi vi entra a contatto e la utilizza quotidianamente.

 

Anche stavolta, il nostro paese (e non solo) è diviso tra ostinati ottimisti e irriducibili pessimisti.  E anche le conferenze, a cui spesso partecipo, sono divise tra relatori che cercano di sorprendere spesso con aspetti estremi e applicazioni ancora non mature e altri che cercano di spaventare.

Personalmente ritengo che sia il momento per diffondere “consapevolezza”. Similmente a quanto avvenne, più in generale, per gli algoritmi e i robot, ora si tende a incolpare l’AI per ogni cosa. Ad esempio, quando si dice che le big tech stanno licenziando a causa del maggiore impiego di AI, in realtà quest’ultima è una buona scusa per giustificare piani di riorganizzazione e ristrutturazione. Il depistaggio su un nemico astratto funziona sempre. Si cessa di approfondire e parte un passaparola basato su un’autentica bufala.

Alcune certezze, negli ultimi 5 anni (dati osservatorio Politecnico di Milano) il mercato dell’AI è cresciuto del 262%. Gran parte delle ricerche US e degli studi stimano prevedono che 2/3 del lavoro cambierà notevolmente per mezzo dell’AI. Se cercassimo la crescita di produttività a livello di settore troveremmo la stessa delusione di R. Solow quando nell’1987 disse “si possono vedere computer dappertutto tranne nelle statistiche di produttività”. Analizzare alcune tendenze più realistiche è comunque doveroso.

Esaminiamo le ultime tre fasi dell’evoluzione tecnologica: 1) la robotica avanzata, di per sé, cancella e genera lavori con un saldo positivo. I paesi a più alta densità di robotica (n. di robot installati ogni 10.000 lavoratori) sono i paesi a più bassa disoccupazione. 2) Il digitale di per sé cancella le mansioni routinarie ripetitive e valorizza quelle a maggiore ingaggio cognitivo. La grande trasformazione che nel lavoro erode soprattutto le mansioni ripetitive impiegatizie più che quelle operAIe. 3) L’avvento dell’intelligenza artificiale scompagina di nuovo lo scenario.

L’AI generativa e forse ancora di più la prossima AI generale, ha la capacità di produrre contenuti (testi, immagini, sintesi, contratti, atti, video, etc.) e questo la fa sconfinare l’impiego delle tecnologie in un’area che pensavamo inattaccabile: quella del lavoro creativo e ad alto contenuto cognitivo.

Con un elemento di novità ben descritto dal paradosso di Moravec (1987): i ragionamenti di alto livello cognitivo richiedono pochissima attività di calcolo, mentre l’emulazione delle capacità sensomotorie di basso livello cognitivo richiedono enormi risorse computazionali. Come per il digitale tutto ciò da spazio e profondità occupazionale alla mobilitazione dei nostri sensi e a livelli di ibridazione sapiente della nostra manualità.

Il tema è pertanto, molto più serio del “quanti posti di lavoro perderemo”. Si tratta di utilizzare un “metodo” per capire le tendenze. Quello che propongo riguarda la necessità di ripartire dalle 804 professioni che l’Istat categorizza e censisce in Italia.

Su di esse l’AI avrà 3 diversi livelli di impatto: 1) genererà nuove professioni oggi sconosciute 2) cancelleràalcune professioni 3) integrerà, potenzierà e supporterà professioni esistenti.

Il terzo effetto sarà il più rilevante. Ogni professione viene esercitata con diversi ruoli, competenze e abilità. Come molte ricerche già ci confermano, il primo passo è tornare a scomporre il lavoro e le professioni in abilità e attività (task). Misurare lo score (il punteggio) ovvero il grado di “esposizione” di queste attività (E. Felten et al.) al poter essere trasformate, aumentate, supportate, integrate dall’AI.  Ovviamente questa rilevazione va eseguita periodicamente perché il perimetro dei task su cui l’AI può esercitare un ruolo supplementare o complementare è crescente.  Vi sono poi effetti indiretti relativi a come l’AI modifica l’organizzazione del lavoro, si integra con altre tecnologie. Queste ultime convergenze (pensate ad esempio all’AIot, l’integrazione tra AI e Internet delle cose) cambiano a loro volta direttamente l’organizzazione del lavoro e indirettamente le professioni al suo interno. Non solo, abbassano la soglia di accesso alle tecnologie dell’automazione, consentono anche alle aziende che per dimensione o tipo di processo di utilizzare e valorizzare l’utilizzo dei dati ed una migliore possibilità di interfacciare le persone con le macchine.

 

Polarizzazione tra persone, tra imprese, tra paesi

Altra certezza è la polarizzazione di un mercato del lavoro italiano già fortemente polarizzato tra chi avrà (per condizione, nascita, possibilità, etc.) di essere coinvolto dentro questa trasformazione e chi ne resterà marginalizzato. Più che agitare un futuro di lavoro povero generalizzato bisogna costruire le condizioni perché il processo di innovazione sia un processo di diffusa e vasta partecipazione. Anche perché la stessa polarizzazione avverrà tra imprese, coinvolte e protagoniste o marginalizzate e in questo la taglia dimensionale troppo piccola delle nostre è un vero guaio. Per questo avere una rete diffusa di trasferimento tecnologico e di competenze è molto più importante e credibile che avere una “open AI” italiana. Puntiamo ad avere un tessuto produttivo pronto e rapido ad accogliere, adattare e ripensare le innovazioni abbassando la soglia del loro accesso indipendentemente dalla loro taglia dimensionale.  Sempre secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano, l’82% delle Pmi non ha alcun progetto di utilizzo dell’AI, percentuale che scende al 39% per le grandi Imprese.

 

Gli operAI del deep learning

Va segnalato che, in questa fase, sta emergendo una parte di lavoro “povero” collegato all’AI. Persone che eseguono test o “data labeler, gli etichettatori di dati e che operano all’interno di quelli che spesso vengono definiti gli “scantinati dell’intelligenza artificiale” spesso collegati da remoto da paesi del sud del mondo a meno di due dollari l’ora (come racconta un’indagine del Time) per addestrare gli algoritmi e ripulire i dati raccolti. Ma questo non deve portare a dire che l’AI porterà alla “servilizzazione” del lavoro. Più probabile una polarizzazione ancora più marcata tra paesi/imprese/lavoratori che ne saranno coinvolti da protagonisti e chi ne resterà marginalizzato.

La sfida che ci ponte l’intelligenza artificiale è anche e soprattutto educativa: 1) Educare all’intelligenza artificiale (diffondere consapevolezza. 2) Educare con l’intelligenza artificiale (l’AI aiuta a personalizzare i metodi di apprendimento a prevenire la dispersione scolastica e a personalizzare i materiali didattici). 3) Educare l’intelligenza artificiale. (la necessità di addestrare questi algoritmi è fondamentale per proteggere la prospettiva umanocentrica di questo sviluppo).

 

La vera innovazione è tale se rappresenta un processo di partecipazione. Nessun destino è segnato, la sfida è aperta e le nostre possibilità di estendere le opportunità e ridurre i rischi sono ancora nelle nostre mani.