N.06
Novembre/Dicembre 2024

Ricordare il domani

La speranza alla luce della Scrittura

 

E tuttavia, ancora ci vuoi donare gioia,
per questo mondo e per lo splendere del suo sole
e noi vogliamo allora ricordare il passato
e così appartiene a te la nostra intera vita […]
Da potenze buone, miracolosamente accolti
attendiamo confidenti ogni futuro evento.
Dio è con noi alla sera e al mattino
E certissimamente in ogni nuovo giorno.

Bonhoeffer, Resistenza e Resa

 

 

Se chiedessimo alla Bibbia di parlarci della speranza sarebbero molti i passi adatti a farlo. Tra di essi vi è una manciata di versetti tratti dal libro delle Lamentazioni che non offre definizioni a riguardo, ma è in grado di raccontarne qualcosa in modo originale.

Lam 3  18 Dico: «È scomparsa la mia gloria, la speranza che mi veniva dal Signore».

                 19 Il ricordo della mia miseria e del mio vagare è come assenzio e veleno.

                 20 Bene se ne ricorda la mia anima e si accascia dentro di me.

                 21 Questo intendo richiamare al mio cuore, perciò voglio sperare:

                 22 le grazie del Signore non sono finite, non sono esaurite le sue misericordie.

                 23 Si rinnovano ogni mattina, grande è la sua fedeltà.

                 24 «Mia parte è il Signore – io esclamo – perciò spero in Lui».

 

Di queste righe stupisce il contenuto quasi paradossale: l’immagine di chi si trova al colmo della disperazione (v. 18) e insieme ritrova lo slancio per tornare a sperare (v. 21). “Paradossale” perché tutto sembra avvenire senza gradualità, ma con una facilità e una velocità tali che stonano con l’immane patimento riferito poco prima (cf. Lam 3,2-17). Il terzo capitolo di Lamentazioni, infatti, si apre con l’autopresentazione del parlante[1] nelle vesti di “colui che ha visto l’afflizione sotto la verga del suo furore” (v. 1), dove “suo” si riferisce a Yhwh. Gli effetti tremendi dell’ira divina, descritti nei vv. 2-17, sono colpi mortali nel corpo e nell’animo, tanto da mettere in discussione qualsiasi immagine di un Dio buono ed eternamente sollecito. Il paradosso emerge dall’atteggiamento di quest’uomo disperato e ormai sulle soglie della morte che vede in Dio il responsabile del male subìto e insieme la sua unica speranza per tornare a vivere. Senza nessuna esitazione, infatti, il sofferente anonimo (che potremmo chiamare col nome di chiunque) confessa con franchezza di aver perso ogni speranza “da Yhwh” (v. 18). Qui il testo ebraico possiede una certa ambiguità che lascia aperta la possibilità d’intendere l’enunciato in due modi: “è venuta meno la mia speranza (1) che viene/veniva da Yhwh”, nel senso di origine della speranza; oppure (2) “a causa/per opera di Yhwh”, in quanto autore dei mali prima elencati. Tale ambiguità, difficile da risolvere, ribadisce l’aspetto paradossale della vicenda, ma è sincera. Se infatti decidiamo di mantenere entrambe le interpretazioni, la speranza assume i tratti di perenne oscillazione tra ciò che essa è, la tensione verso un bene futuro all’interno di una realtà che spesso contraddice e ostacola questo desiderio. Il sofferente di Lam lotta dentro di sé perché la speranza che nutriva è venuta meno proprio da colui che doveva esserne il garante.

Un simile contrasto sorprende specialmente se si accosta ad altri passi biblici[2] in cui l’orante si rivolge a Dio con netta fiducia e senza alcun dubbio che da Lui venga il bene. Eppure, è proprio questa l’originalità di Lam 3,18: tenere insieme i due aspetti, ricondurre a Dio tutta la propria afflizione mentre si crede fermamente che Lui sia l’unica speranza. Come accettare che proprio nella più grande disperazione, cioè l’assenza di speranza, si possa al tempo stesso ricominciare ad esercitarla? Ciò che risulta difficile accogliere razionalmente non lo è più alla luce del vivere quotidiano, né per coloro che non si arrendono alla morte, al dolore, o per chi conosce qualcosa di Dio. Sono i vv. 22-24 a dischiudere il nucleo indistruttibile della speranza rinnovata, un anelito così tenace che non cede alla delusione dichiarata nel v. 18. Insieme ai suoi dolori (vv. 19-20) il sofferente si lascia orientare dal ricordo di chi è veramente il Signore: il suo è un Dio che non conosce la parola fine per l’amore, né la sua bontà conosce limiti. Il “perciò voglio sperare” (v. 21) richiama per contrasto l’abbandono della speranza (v. 18), ma perde il suo aspetto paradossale grazie al richiamo di un passato in cui sono avvenuti eventi di grazia e dimostrazioni di bontà. La menzione del cuore − sede dell’intelletto e della volontà − è importante perché indica una scelta cosciente che esclude ogni sentimentalismo o casualità[3].

Infine, è il v. 25 a sancire l’ultima motivazione che rende inamovibile la speranza: la certezza che questo Dio eternamente misericordioso è la “mia parte”. Con questo termine ebraico, la Bibbia indica la porzione di territorio assegnato a una famiglia o clan che ne garantisce la sopravvivenza.

L’uomo di Lam fuga ogni residuo di dubbio nei confronti di Dio perché è sicuro di appartenergli.

Tra lui e Dio vi è un legame indissolubile e inalterabile a salvaguardia della vita.

Questo brano, pertanto, non impone definizioni ma dischiude squarci di luce sulla speranza.

Ci spiega che essa è per chi si sente sguarnito di bene e per gli afflitti; può nascere da crisi, fatica, povertà. Talvolta somiglia a un grido che però tiene acceso il desiderio di bene per noi e gli altri.

La speranza promette che la disperazione avrà fine, nutrendosi del ricordo di quando si è mostrata la grazia di Dio. Essa è il fiato indispensabile per camminare, ricercare e coltivare la gioia se non fuggiamo dal presente, qualunque esso sia. Insegna ad accogliere ogni giorno anche dentro i confini poco promettenti del nostro tempo, sapendo che fioriranno ancora occasioni favorevoli. La speranza non è l’approdo al bene sognato, ma una spinta continua, un cammino fatto di soste e passi spediti lungo i passaggi stretti della vita, individuale e collettiva.

La speranza non si esaurisce quando siamo disperati, ma se non ricordiamo né riconosciamo la bellezza di cui la vita ci ha già ricolmati. È il segno, invece, che siamo vivi e desideriamo esserlo ancora. Perciò chi possiede anche un solo brandello di vita può sempre tornare a cantare.

Speranza è l’altro nome dell’attesa, a volte estenuante. I verbi ebraici che la Bibbia usa per queste due azioni sono quasi interscambiabili. Sperare è un atteggiamento impegnativo perché richiede pazienza[4] per rimanere dentro giorni non sempre incoraggianti, specialmente se Dio sembra chiudersi in un silenzio che sa di abbandono.

Chi spera diventa capace di attendere perché sa di non dirigersi incontro al nulla, ma già scorge Qualcuno. La differenza decisiva per l’uomo di Lam risiede nel suo oggetto, Dio. Così per noi, riporre in Lui la nostra speranza definitiva è il segreto perché non resti vana né venga delusa[5].

La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,5).

 

 

 

 

[1] Difficile stabilire se questa scoraggiata confessione provenga da un uomo storico in particolare, il profeta Geremia; un uomo che incarna il popolo di Giuda a seguito della presa di Gerusalemme e poi dell’esilio (586 a.C.) da parte dei Babilonesi; un individuo del tempo qualunque; il locutore delle precedenti lamentazioni. Nulla impedisce di riconoscervi chiunque abbia sperimentato la stessa afflizione.

[2] Cf. Sal 25, 3.5: “Chiunque in te spera non resta deluso […] io spero in te tutto il giorno”; Sal 39,8: “E ora cosa posso attendere Signore? È in te la mia speranza”.

[3] La capacità di sperare è un lavoro umano e divino insieme, non a caso la Chiesa qualifica la speranza una virtù teologale. Sulle virtù teologali il CCC (nn. 1812-13) spiega: «[…] esse dispongono i cristiani a vivere in relazione con la Santissima Trinità. Hanno come origine, causa ed oggetto Dio Uno e Trino […] Sono infuse da Dio nell’anima dei fedeli per renderli capaci di agire quali suoi figli…».

[4] «Virtù strettamente imparentata con la speranza: la pazienza […] Riscoprire la pazienza fa tanto bene a sé e agli altri. San Paolo fa spesso ricorso alla pazienza per sottolineare l’importanza della perseveranza e della fiducia in ciò che ci è stato promesso da Dio, ma anzitutto testimonia che Dio è paziente con noi […] La pazienza, frutto anch’essa dello Spirito Santo, tiene viva la speranza e la consolida come virtù e stile di vita. Cf. Spes non confundit, n. 4.

[5] Cf. Is 40,31; 49,23; Ger 17,13; Mi 7,7; Sal 22,6; 25,3; 33,18-22; 40,1-4; 42,6.12; Pr 23,18; Rm 5,5; 2 Ts 2,16.