Solitaria di Dio
Io sono la Rosa di Sharon, il giglio delle valli (Ct 2,1)
La città di Palermo, quest’anno, celebra il quattrocentesimo Festino in onore della sua Santa Patrona e, per tale occasione, la comunità diocesana ha indetto un giubileo particolare. Era il 15 luglio 1624, mentre la città era colpita dalla peste, quando il marinaio Vito Amodeo, guidato da Geronima La Gattuta, trovò nel luogo indicato nell’eremo il corpo di santa Rosalia vissuta al tempo dei normanni. Definita da Papa Francesco sublime figura di donna e di “apostola”, che non ha esitato ad accogliere le prove della solitudine per amore del suo Signore, Rosalia fu ascetria in monte peregrino, abitata dallo spirito del crocifisso risorto e consolata dalla Parola e dalla preghiera contemplativa. La storia che s’intreccia attorno a questa figura è ricca di molti fatti e leggende rendendo questa donna il focus della devozione palermitana; la nascita nobiliare, la scelta religiosa, l’eremitaggio, la giovane età, furono tutti elementi che contribuirono a delineare un personaggio traboccante di spiritualità, ma anche fonte d’ispirazione artistica. Rosalia, insieme a San Sebastiano e a San Rocco, divenne la figura a cui appellarsi in caso di febbre maligna come peste, colera e tutte le malattie riguardanti la pelle; da quell’anno il culto della romita siciliana si diffuse in tutto il mondo. Tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, la Chiesa della Controriforma promosse la devozione ai santi, specialmente quelli locali, rispolverando antiche biografie e in particolare quelle dei santi che abbandonarono le ricchezze per un’esperienza di stenti, preghiera e di dedizione agli ultimi. Nel ‘600 furono fissati anche i canoni iconografici e gli attributi che serviranno come strumenti chiari e di riferimento del soggetto rappresentato; lo stesso avvenne per la “Santuzza”, riconoscibile con la corona di rose, il giglio, il teschio, insieme al cilicio, alla clessidra, al libro, al conta-preghiere e al saio penitenziale. Furono i gesuiti, secondo le indicazioni del cardinale Giannettino Doria, ad occuparsi del “caso Rosalia”, mettendo per iscritto le antiche tradizioni orali e fissando una biografia e un’iconografia che da quell’anno rimasero immutate. Nel 1625, Gregorio Tedeschi, per volontà del senato cittadino, scolpì per il santuario del monte Pellegrino la santa Rosalia spirante, che ricalcava la postura che presumibilmente aveva la romita subito dopo la sua morte.
Questa tipologia di operazione sembra proprio voler richiamare quella che venne fatta a Roma, nel 1599, da Carlo Maderno per rappresentare e immortalare la disposizione del corpo di Santa Cecilia. L’arte, come in questi casi, tentò di rendere eterno ciò che la morte, di fatto, aveva realizzato, ovvero la consumazione del corpo. Ma non solo, l’arte contribuiva a manifestare la ragione della fede nei santi, in quanto veri modelli di vita. Nel contesto barocco del memento mori, di catechesi escatologiche sul fine dell’umanità, come si poteva rendere visibile la promessa evangelica che nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto? (cfr. Lc 21-19); come dare ragione del culto dei santi, della loro eroicità, in un contesto di continue lotte teologiche tra cattolici e protestanti? Il rinvenimento delle ossa profumate di Rosalia pose fine al putrido contagio che incombeva e il suo corpo morto pose fine alla morte della città; ma l’arte, d’altro canto, ridona vita a quel sacro deposito grazie alla scultura del Tedeschi collocata esattamente sulla tomba, rendendo eterna agli occhi dei suoi devoti colei che aveva scelto il silenzio e la solitudine, perché chi lascia casa, amici ecc., avrà il centuplo qui e per la vita eterna (cfr. Mt 19,29). Così Rosalia era rinata agli occhi dei fedeli e rigenerata dalle loro suppliche, in estasi, distesa, che volge gli occhi a quel Dio che tanto amava e per il quale ha lasciato ogni cosa, ma l’elemento che emerge è indubbiamente il vestito oro che venne donato dai Borbone nella seconda metà del XVIII sec. Il marmo bianco e l’oro permettono che questa immagine risalti notevolmente nel contesto rurale e buio della grotta, come colomba pura tra le fenditure della roccia (cfr. Ct 2,8-14), divenendo l’imago della devozione del capoluogo dell’isola. Il rinvenimento del corpo comportò la fase di urbanizzazione del culto, passando da un contesto periferico e agreste, quale l’eremo, alla città dei palazzi nobiliari e dei viceré spagnoli. Fu necessario dedicarle una cappella e realizzare l’urna argentea per custodire quel corpo nella cattedrale normanna. La vara, che viene portata ogni anno in processione il 15 luglio, culmina nell’immagine apicale della Patrona che schiaccia il dragone della peste. Un simbolico parallelismo con il racconto della donna dell’apocalisse per consegnare ai suoi devoti l’immagine della Chiesa che deve sempre custodire il dono prezioso che è il Signore, sull’esempio della solitaria di Dio che fugge nell’eremo pur di essere libera e capace di liberare dalla peste di ogni tempo e per ogni tempo; schiaccia così i prepotenti esiti della storia e offre una salvezza nutrita dalla fiducia e dalla speranza in Dio che è capace di fare nuove tutte le cose.