Piergiorgio Frassati

C’è un giovane, elegante, che suda manovrando un carretto per le strade di Torino: è un carretto stracarico, colmo delle masserizie della povera gente e quel ragazzo ben vestito, dal tratto fine, pare aver poco a che fare con l’ammucchiarsi affastellato e frettoloso di tutta quella roba. Possibile che il Comune abbia intimato lo sfratto proprio a lui? Non è infatti – il ragazzo – un torinese sfrattato per morosità, bensì l’esponente di una delle famiglie di spicco dell’Italia di allora: i Frassati. Suo padre, poi ambasciatore d’Italia a Berlino, aveva fondato il quotidiano La Stampa nel 1895 e si dichiarava agnostico mentre la madre – Adelaide Ametis – univa al carattere forte un temperamento d’artista ed era credente, ma senza una reale passione per Gesù e la sua Chiesa: in lei, la religione è anzitutto un sistema di regole. Il giovane, Pier Giorgio, era nato il 6 aprile 1901, poi seguito dalla sorella Luciana sua compagna di giochi e avventure.

Pier Giorgio sperimenta, sin dai primi anni, una familiarità al mondo di Dio e della fede che nessuno in casa gli ha trasmesso, ma gli viene dalla luce del Maestro interiore: dietro al «velo delle norme e dei precetti religiosi», testimoniati dalla madre, egli scopre un significato vivo e uno strumento di vita buona e felice. La sua fede «fiorisce per iniziativa di Dio», che delle virtù teologali è il datore, e trova nei gruppi e in tanti incontri la via per approfondirsi e dirsi. Raggiunta l’età in cui una maggiore libertà gli è permessa, Pier Giorgio insiste nel ricevere la Comunione quotidiana; prega ogni giorno il Rosario – la cui corona, sempre in tasca, definisce il suo testamento – ed entra nelle Conferenze di San Vincenzo per verificare la propria adesione a Cristo servendolo nel povero: quello di cui Pier Giorgio si sta innamorando è un Gesù concretissimo, da abbracciare nell’Eucaristia e da toccare negli ultimi. «Intorno ai poveri e agli ammalati – confida – io vedo una luce che noi non abbiamo».

Si fa perciò samaritano a vantaggio di ognuno: ora sudando nel manovrare i loro carretti o trainando carretti propri carichi di tutto ciò che servisse, ora salendo egli stesso in quelle case (spesso tuguri bui e malsani) dove porta il conforto delle medicine e del sorriso. Pier Giorgio sale per scale buie alla ricerca del povero che non ha nessuno: può vegliare per tutta la notte un malato senza nemmeno sapere di chi si tratti. Comprende così che il suo posto è accanto a questi ultimi, che sono fratelli: non per rinnegare le proprie origini, ma per reinvestire a vantaggio di tutti la condizione di privilegio in cui senza alcun merito si era trovato a nascere. Valutata perciò una possibile chiamata al sacerdozio, decide di non approfondirla sentendosi piuttosto chiamato a “essere accanto” senza che alcuna distinzione di status si frapponga tra lui e gli altri: decide anzi di intraprendere un percorso che gli permetta di abbassarsi ancor di più, sul modello di Cristo che «da ricco che era si è fatto povero»: Pier Giorgio di iscrive a Ingegneria meccanica, con specializzazione “Mineraria” per poter un giorno stare tra i minatori e occuparsi di loro, gli operai «più umili e meno qualificati».

Intanto vive appieno il proprio tempo, in un turbinio di iniziative: dal 1919 entra in FUCI, quindi in Azione Cattolica. Partecipa al Circolo “Milites Mariae” ispirato al motto «PAS = Preghiera Azione e Sacrificio» e nel 1920 entra, con larghezza di vedute, nel Partito Popolare Italiano, lui di estrazione familiare liberale. Nel 1921, mentre a Roma sfila con migliaia di giovani della Gioventù Cattolica Italiana, tenendo alta la bandiera portata dal Circolo Cesare Balbo, le truppe regie assaltano e attaccano per prevenire disordini. Pier Giorgio resiste, ma finisce bloccato come gli altri. Interrogato su chi fosse e sul mestiere del padre, detto che papà era l’ambasciatore d’Italia a Berlino si vede subito offerta una proposta di liberazione, che tuttavia respinge: «uscirò quando usciranno gli altri».

In Pier Giorgio Frassati c’è dunque questa consapevolezza di un «noi»: benché abbia cultura, autonomia economica, grande fiducia e libertà di movimento in famiglia e fuori, egli non intende procede solitario, per arrivare prima, ma si attarda con tutti, per procedere assieme. Vive questo «noi» anche con gli amici, “in cordata” ad essi in tanti momenti si svago e nelle grandi camminate in montagna tra «Tipi loschi». Non ha il dono essere intonato e dunque gli amici lo riempiono di caramelle perché con le caramelle in bocca si trovi impedito nel cantare; oppure – in chiesa – si nasconde egli stesso in un confessionale per stonare in maniera meno plateale, per non disturbare gli altri col suo canto fuori tono.

Quando nella compagnia di amici conosce Laura, una giovane della quale si innamora, saprà esigere da se stesso il più grande sacrificio e rinunciare a lei, volendo evitare con quella sua scelta di ingenerare tensioni nei genitori, a un passo dalla separazione per scongiurare la quale lui e Luciana stanno lottando: Pier Giorgio chiede forse a se stesso più di quanto fosse giusto, eppure sceglie la via d’una rinuncia dolorosa sapendo che ogni aspetto della vita terrena non è che penultimo in ordine all’esercizio della perfetta carità e perciò della vita eterna.

Quando nel 1925 Luciana sposa un diplomatico e si trasferisce all’Aja, Pier Giorgio «sente scivolare sulle sue spalle tutto il peso della situazione familiare» e quando, nel giugno dello stesso anno, il padre gli chiede di rinunciare al sogno di Ingegnere per entrare a La Stampa, ancora una volta rinuncia, china il capo, dice di sì.

Poiché cristiano, Pier Giorgio ha scoperto la libertà radicale di essere solo di Cristo, di rinunciare per amore anche se costa il più grande dolore. Ha lasciato detto: «Tu mi domandi se sono allegro; e come potrei non esserlo? Finché la Fede mi darà la forza sempre allegro». Eppure in quel 1925 confida a un amico: «Ormai sono vicino a raccogliere ciò che ho seminato». È una vita a cui si erano chiuse tutte le porte che avrebbe voluto aprire.

Nell’estate 1925, a Pier Giorgio Frassati mancano due esami per terminare Ingegneria. In casa la nonna materna si ammala e muore il 1° luglio, la famiglia è assorbita dalle preoccupazioni per lei e tutto ruota attorno a questo lutto. Il 30 giugno, però, anche Pier Giorgio comincia a stare male: sono i primi sintomi di cui si misconosce la portata allarmante e che egli sopporta senza gravare sulla famiglia già tanto provata. Cede solo quando gli è divenuto impossibile reagire. La diagnosi – benché si tenti in extremis ogni cosa – è inappellabile: poliomielite fulminante. Muore il 4 luglio, dopo meno di una settimana di malattia, lasciando la famiglia sgomenta per la sua rapida fine e per le immense folle che accorrono alle esequie. Non avevano mai compreso quanta gente il loro figlio avesse “sanato” con la sua presenza. La sua stessa malattia era stata, verosimilmente, contratta dai poveri.

Pier Giorgio aveva ancora fatto in tempo a chiedere a un amico di acquistare le iniezioni per un povero e di rinnovare la polizza a un altro, insomma di prendere il testimone, di continuare lui. «Il giorno della sua morte – aveva assicurato – sarò il più bel giorno della mia vita». Moriva anche da terziario Domenicano, con il nome di fra Girolamo e l’ardore che aveva apprezzato in Caterina da Siena e Girolamo Savonarola.

Dichiarato Venerabile nel 1987 e beatificato da Giovanni Paolo II nel 1990 che lo definì« moderno testimoni della speranza», è stato canonizzato da Leone XIV il 7 settembre 2025