N.01
Gennaio/Febbraio 2025

Il Tempio e la Santa Gerusalemme

«Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, poiché non vi sarà più notte» (Ap 21,25).

La cattedrale di Roma, San Giovanni in Laterano, è immagine e narrazione della città, e, come essa, mostra le tracce, nelle sue forme, strutture e decorazioni, degli eventi che hanno segnato dei punti di svolta nella sua storia. Fondata dall’imperatore Costantino dopo la vittoria su Massenzio e l’Editto di Tolleranza del 313, la basilica è in effetti dedicata al Salvatore e ai santi Giovanni Battista ed Evangelista. Proprio i giubilei ne hanno definito l’immagine che oggi vediamo: in occasione del grande Anno Santo 1600 fu completamente rinnovato il transetto della chiesa, definendolo quasi come una navata a sé stante, dotata di una facciata verso la città e verso Santa Maria Maggiore, a sottolineare il suo essere parte di un itinerario di pellegrinaggio, e dotata di un suo “altare maggiore” diverso da quello monumentale posto sotto il ciborio, ossia l’altare del Santissimo Sacramento voluto da papa Clemente VIII, che assieme alla decorazione pittorica e marmorea fa del transetto un grande tabernacolo eucaristico. Ma a cambiare in maniera decisiva l’aspetto della basilica fu l’intervento commissionato da papa Innocenzo X a Francesco Borromini, in vista del giubileo del 1650.

Vincolato dalla richiesta di conservare il prezioso soffitto a cassettoni e il pavimento cosmatesco e dalla volontà del pontefice non di abbattere e ricostruire, bensì di restaurare l’antica e venerabile chiesa, il grande maestro del barocco romano intervenne in primo luogo sul piano strutturale, per risollevare la nave costantiniana dalle pessime condizioni statiche in cui versava. Consolidato l’edificio, Borromini, con l’appoggio di padre Virgilio Spada, diede un nuovo significato allo spazio, o meglio narrò l’essenza stessa della basilica attraverso l’uso di un apparato di simboli che si rifacevano alla tradizione paleocristiana e ai testi biblici.

Entrando nella chiesa, si rimane colpiti dal candore inaspettato di tutte le superfici, le pareti, le volte delle navatelle. Del medesimo candore sono i pannelli scolpiti che, nella nave maggiore, narrano le storie dell’Antico Testamento mettendole in parallelo con la vita di Cristo: al sacrificio di Isacco corrisponde il sacrificio della Croce, all’acqua del Diluvio quella del Battesimo di Cristo. Come da antica tradizione, la storia della salvezza è narrata in maniera tipologica: l’Antico Testamento prefigura il Nuovo, e il Nuovo spiega e porta a compimento l’Antico. In questo costante riferirsi da un lato alle origini della fede cristiana e alla tradizione biblica, e dall’altro al compimento delle promesse e all’orizzonte del Regno di Dio si svolge tutto l’apparato decorativo. Negli stucchi del fregio in alto, accanto al Chrismon, il nome di Cristo, che evoca anche la storia dell’imperatore che ha fondato la basilica, ardono torce accese; nei capitelli bianchi melograni si aprono sotto gli occhi di chi li osserva, mentre foglie di palma con datteri si intrecciano all’interno degli archi tra la navata maggiore e le laterali. Sono echi, evocazioni dell’immagine del Tempio di Gerusalemme, del tempio che nella Chiesa giunge a pienezza ed a compimento: dove non più pochi ma tutti possono accedere, dove Dio stesso è presente, quando vi sono anche solo due persone radunate nel suo nome.

La navata di San Giovanni in Laterano parla, infatti, della Chiesa come assemblea, come corpo unico fatto di parti diverse, come edificio fatto di “pietre” singole, ciascuna preziosa nella sua individualità, ciascuna amata. I tabernacoli che circondano lo spazio danno infatti la chiave di lettura per l’intero progetto di Borromini: dodici edicole su colonne, con le statue degli apostoli. In questo modo l’architetto propone ai fedeli un’immagine della Gerusalemme Celeste, città d’oro e di gemme descritta nel capitolo 21 dell’Apocalisse, visione simbolica della comunità cristiana alla fine dei tempi, che fonda le sue mura «su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello» (Ap 21,14). L’abbondanza dei frutti richiamata dagli stucchi è dunque una promessa, un annuncio del paradiso, di un luogo senza più tramonto.

Alle spalle di ciascun apostolo si scorge la cornice di una porta: sono le dodici porte che danno accesso alla città santa, aperte verso i punti cardinali, a indicare che ciascuno, di qualsiasi origine e provenienza, è accolto in questa comunità, in questa gioia. E il fedele che entra qui capisce di essere già parte, di stare sperimentando un assaggio dell’eterna liturgia del paradiso, di trovarsi già all’interno di quelle mura raffigurate al centro del mosaico dell’abside della basilica, al di sotto della Croce gemmata.

L’intervento borrominiano è stato avvicinato dai critici a un apparato effimero, un allestimento temporaneo per un festeggiamento: nobilmente rivestita, la chiesa, e la Chiesa, attende Cristo «pronta come una sposa per il suo sposo» (Ap 21, 2). Il pellegrino che vi entra, accompagnato dallo sguardo dei cherubini che reggono sulle loro ali le mura, materiali e spirituali, di un edificio che solo grazie al volere di Dio si sostiene, è chiamato a essere parte di queste nozze.