Eppur si muove
La realtà in movimento
Eppur si muove: questo dovremmo ripeterci, ogni volta che pensiamo di essere in una realtà statica. La frase erroneamente attribuita a Galileo Galilei voleva significare l’intimo convincimento che la Terra si muovesse, nonostante l’abiura a cui lo scienziato era stato costretto. Dovremmo ripeterla noi, piuttosto, non solo riguardo alla Terra, ma a tutta la realtà.
La questione parte da lontano: a Eraclito viene attribuito, in modo un po’ manualistico, il famoso panta rhei, che però non è attestato nei frammenti che ci sono giunti. La realtà è in costante movimento (anche se sarebbe forse più appropriato parlare di “mutamento”): «Non si può discendere due volte nel medesimo fiume». Il problema di conciliare queste considerazioni con il logos immutabile e con la rigorosa logica di Parmenide (l’essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere) è in un certo senso il motore di Platone e Aristotele, ciò che li spinge ad elaborare un certo tipo di metafisica.
Con un balzo in avanti, e facendo un accostamento un po’ audace, potremmo ricordare le parole del Faust di Goethe: «In principio era l’azione [Tat]», che però sono un tentativo di rendere il prologo del Vangelo di Giovanni. Sappiamo che quella Parola, il Verbo (Logos), non è una semplice sequenza significante: forse anche per questo Faust prova a tradurla come azione. Un altro celebre incipit può essere accostato, quello del Tractatus logico-philosophicus: «1. Il mondo è tutto ciò che accade. 1.1 Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose». Nell’opera che forse più di ogni altra mira alla rappresentazione perspicua del rispecchiamento tra linguaggio e mondo, Wittgenstein sceglie i fatti (e gli enunciati) come gli elementi fondamentali, rispetto alle parole e alle cose.
In effetti sono i nostri “schemi” a essere statici. Le immagini del reale lo sono: non solo le fotografie, non solo i video (successione di fotogrammi statici che danno l’illusione del movimento), ma più in generale le teorie scientifiche sono anch’esse “descrizioni”, se così possiamo chiamarle, sostanzialmente statiche del reale.
Del resto, la questione del moto è sempre “relativa”: relativa a un sistema di riferimento e a un punto di osservazione. Nella nostra vita, gli oggetti che definiamo solidi ci sembrano permanenti, fermi, “immutabili”. Così appaiono, in effetti, a chi cambia più velocemente di loro: in realtà sono essi stessi in perenne movimento, dato che anche in un solido le molecole oscillano attorno a una posizione, anche se il loro moto è fortemente condizionato dal reticolo del quale fanno parte.
Rispetto alla realtà che descrivono, le teorie sono relativamente più “permanenti”: sintetizzano – a volte in semplici formule, le cosiddette “leggi” scientifiche – vari aspetti del reale in modo da aiutarci ad avere una visione semplice. La cosa non deve stupire: è una necessità logica, su cui si potrebbe scrivere a lungo, quella di costruire un’immagine semplice e stabile del reale, che però non va confusa con il reale stesso, che rimane in continua evoluzione, in continuo movimento.
Né si può pensare che la questione sia ridotta alla fisica. Quello che chiamiamo “essere in salute” non è uno stato: è piuttosto un equilibrio dinamico in cui l’organismo si rinnova, in una continua sfida con il mondo esterno che a sua volta è in movimento.
Come le scienze e la filosofia, anche la storia ci insegna la caducità delle vicende e delle strutture umane: è un leitmotiv che caratterizza la narrazione storica sin dalle origini del genere. Il movimento della storia fa sì che stati, imperi, istituzioni siano costretti continuamente ad adattarsi e a cambiare. Con un’analogia più volte sfruttata, molti storici hanno guardato alle vicende di queste realtà umane come se fossero persone, descrivendone a volte la “malattia”, a volte la “morte”. Le metafore indicano con chiarezza la consapevolezza non solo del continuo movimento della storia, ma anche della conseguente mutevolezza delle cose umane.
E la letteratura? Qui davvero non mancano gli esempi. Partiamo dalla prima e più grande avventura della letteratura occidentale, quell’Odissea che racconta il complesso viaggio di ritorno di Ulisse attraverso una struttura narrativa che è essa stessa in movimento tra passato e presente (buona parte del viaggio di Ulisse è raccontato da Ulisse stesso al re dei Feaci).
Si potrebbe dire che ogni racconto eroico sia il racconto di un viaggio, del movimento dell’eroe che deve incontrare il nemico, sia per superarlo e tornare, sia a volte per esserne tragicamente sconfitto. A volte l’eroe incontra se stesso (lo stratagemma usato, ad esempio, ne L’impero colpisce ancora, il quinto episodio della saga di Guerre stellari), a volte è costretto ad abbandonare la propria casa per affrontare l’ignoto, come accade a Bilbo, ne Lo hobbit, e a suo nipote Frodo, ne Il signore degli anelli. I due hobbit abbandonano la propria comfort zone, come si usa dire oggi, per affrontare quel che in condizioni normali sarebbe impensabile: un lungo viaggio in terre sconosciute. Un’ulteriore variante (La storia infinita) è l’incontro tra Atreiu e Bastiano, che si decide a entrare in Fantàsia dopo aver seguito con attenzione e apprensione i viaggi di Atreiu per salvare l’Infanta Imperatrice. Ne potremmo aggiungere molte altre…
Non può sfuggire l’influenza, anche letteraria, che il testo biblico esercita su questi topoi. Basti ricordare qui il celebre passo del Deuteronomio: «Mio padre era un Arameo errante…» (Dt 26,5) in cui si fa memoria delle vicende storiche del popolo ebraico, teatro dell’azione di Dio (sul viaggio mi permetto di rimandare a G. De Virgilio, «Mio padre era un arameo errante» (Dt 26,5). Aspetti biblici del “viaggio”, in questa rivista, 1/2014). A maggior ragione questa concezione si applica a Gesù e alla Chiesa, “pellegrina sulla Terra”.
Per noi, insomma, il movimento non è qualcosa di estrinseco. Siamo movimento, nella misura in cui facciamo parte di un reale che è esso stesso movimento. Quanto ci sembra stabile è solamente in equilibrio: non incapace di movimento, non senza movimento, ma con un movimento equilibrato in modo da “permanere”.
Di fronte a una tale messe di esempi, viene da chiedersi perché abbiamo continuamente la “tentazione” di star fermi, di non partire, di non muoverci. Qui occorre essere attenti e non confondere due questioni affatto diverse. Da un lato, infatti, abbiamo il bisogno di serenità, riposo, quiete, pace: tutte cose che si apprezzano proprio perché siamo in movimento, in cammino, perché una volta partiti speriamo di arrivare. Dall’altra abbiamo l’atteggiamento di chi non vuole agire per paura, per salvaguardare se stesso: è l’uomo che sotterra i talenti invece di investirli, che si sottrae all’impegno per paura di perdere il poco che ha.
Vivere da uomini significa sperare nel riposo, dopo aver camminato lungo la via. Suonano davvero adatte, qui, le immortali parole contenute nel legendarium di Tolkien (cap. 1 de Il signore degli anelli, qui riprodotto nella trad. rivista):
Eng:
The Road goes ever on and on
Down from the door where it began.
Now far ahead the Road has gone,
And I must follow, if I can,
Pursuing it with eager feet,
Until it joins some larger way
Where many paths and errands meet.
And whither then? I cannot say.
It:
La Via prosegue senza fine
Lungi dall’uscio dal quale parte.
Ora la Via è fuggita avanti,
Devo inseguirla ad ogni costo
Rincorrendola con piedi alati
Sin all’incrocio con una più larga
Dove si uniscono piste e sentieri.
E poi dove andrò? Nessuno lo sa.