N.02
Marzo/Aprile 2025

Mettersi in viaggio

Implicazioni e riflessioni pedagogiche del partire

 

Perché un pretesto per tornare
bisogna sempre seminarselo dietro,
quando si parte.

Alessandro Baricco, Oceano mare

 

 

La dimensione del cammino si configura come un elemento antropologico fondamentale, presente in ogni cultura e in ogni epoca storica. In un contesto cristiano, essa acquisisce un significato particolare, radicato nella tradizione biblica, dove l’esodo (Es 13,17-15,21) emerge non soltanto come un evento storico, ma come un paradigma esistenziale in grado di strutturare la comprensione intima del credente invitato a partire. La metafora del cammino, infatti, permea l’intera narrazione biblica, dal viaggio di Abramo, «invitato a mettersi in cammino “verso” una terra promessa, a mettersi in viaggio verso il compimento dei desideri che abitano il proprio cuore, senza fermarsi o stabilirsi»[1] con la consapevolezza che il progetto di Dio è benedizione dell’uomo (Gen 12,1-9), fino all’epifania dei Magi (Mt 2,1-12), configurandosi come un percorso di trasformazione che si erge a schema archetipico dell’esperienza umana.

Questa visione del cammino, intesa sia come esperienza individuale che collettiva, segnata da un intrinseco dinamismo, sembra trovare un’eco significativa nella visione di Chiesa in “uscita”, proposta da papa Francesco in Evangelii Gaudium[2]. La Chiesa viene qui interpretata come una realtà dinamica, in continuo divenire, che si sviluppa attraverso relazioni aperte e processi di incontro, riconoscendosi nella propria essenza di pellegrinaggio[3]. Tale approccio consente di rivedere il cammino non solo come una metafora narrativa, ma anche come una pratica esistenziale e pedagogica, finalizzata a promuovere il dialogo tra fede e esperienza quotidiana.

Dal punto di vista antropologico e pedagogico, l’essere umano si configura come un homo viator[4], per cui «esistere significa essere in cammino». Questa prospettiva evidenzia come il viaggio rappresenti non soltanto un movimento fisico, ma soprattutto un processo di scoperta e di auto-riflessione, nel quale il soggetto è chiamato a confrontarsi con le proprie aspirazioni, paure, ansie e timori. L’esperienza del pellegrinaggio diviene, pertanto, un’opportunità per la conoscenza di sé e per l’interazione con un mondo in continua evoluzione.

Le riflessioni pedagogiche, in questo contesto, si orientano verso la valorizzazione delle risorse che emergono dall’esperienza del cammino. Dewey, in Esperienza e educazione[5], evidenzia come l’apprendimento nasca proprio dall’interazione diretta con l’esperienza e dalla riflessione critica su di essa, suggerendo che ogni tappa del percorso possa rappresentare una fonte di crescita. Parallelamente, Mezirow – nella Teoria dell’apprendimento trasformativo[6] – ci ricorda che la revisione critica delle esperienze personali può innescare un cambiamento profondo di prospettiva, favorendo una trasformazione interiore che si riflette anche nell’ambito relazionale e comunitario.

Queste e altre riflessioni sul valore dell’esperienza sottolineano come tale percorso, articolato in tappe trasformative, se colto come occasione di apprendimento, stimoli la riflessività, la responsabilizzazione e anche il senso di comunità, integrando dimensioni cognitive, emotive e relazionali. In questo modo, il cammino diviene terreno fertile per lo sviluppo personale e per il consolidamento di relazioni significative, aprendo nuove prospettive sul rapporto tra apprendimento e trasformazione personale.

Pertanto, l’invito a partire e a mettersi in cammino non si riduce a un mero spostamento fisico, ma rappresenta un percorso esistenziale e pedagogico intriso di dinamiche nuove, permeate di cambiamento. Da queste premesse scaturisce l’importanza di riconoscere e valorizzare i molteplici aspetti dell’esperienza del pellegrinaggio, che spaziano dalla ricerca di sé al confronto con il mondo esterno. A partire da queste riflessioni, nei paragrafi successivi si entrerà nel merito degli innesti pedagogici legati ad una fase del pellegrinaggio, quella del “partire”.

 

Come si parte

Il mettersi in cammino non è mai il frutto di un desiderio autonomo, ma nasce da un richiamo profondo, da un invito che proviene da altrove e che pone l’individuo di fronte a una decisione. Il pellegrinaggio non è dunque semplicemente un atto di volontà, ma una risposta a un appello. Questo richiamo si configura come un invito che sollecita un riscontro spirituale ed esistenziale, in un processo che trascende la sfera individuale. Il pellegrinaggio, perciò, non sorge mai «soltanto da un nostro desiderio, perché il desiderio stesso, che ne siamo coscienti o no, viene suscitato da un richiamo, da un invito»[7]. Non si tratta di un semplice desiderio personale, ma di una chiamata che sospinge il pellegrino verso una realtà altra, un’esperienza che va oltre il consueto, e lo mette potenzialmente in contatto con l’Assoluto.

«Un viaggio non inizia mai con la partenza, bensì molto prima, con il pensarlo e prepararlo; in altri termini, con il chiedersi perché intraprendere tale viaggio. Sarà questa motivazione a determinare la meta. Quando l’uomo non sa verso dove navigare, nessun vento gli è favorevole – diceva Seneca – e quindi non può partire»[8].

In questo processo di partenza, l’intera persona è coinvolta in una fase di liminalità trasformativa[9], un momento in cui la condizione quotidiana e ordinaria del soggetto viene temporaneamente sospesa, consentendo una riorganizzazione del suo stare nel mondo e nelle relazioni con gli altri. La partenza, quindi, si configura come una rottura rispetto alla normalità, innescando un cambiamento profondo che dà origine a un processo che potremmo dire di dispersione e successiva ricomposizione dell’individuo. Questo movimento dinamico tra de-strutturazione e ri-strutturazione riflette quella che Turner definisce un’“antistruttura”, un concetto che implica la sospensione temporanea delle norme sociali consolidate e la creazione di nuove forme di relazione. La liminalità, in quanto “forza dell’anti-struttura”, diventa la condizione ideale per la formazione di una communitas, un’unità sociale che si sviluppa in un contesto di “sospensione strutturale”, dove tutte le convenzioni e le gerarchie sociali sembrano dissolversi[10]. Secondo Turner, «la fase liminale è una fase di perdita dei riferimenti sociali e di completa estraniazione, di destrutturazione, altamente creativa»[11], una fase che non solo annulla le strutture preesistenti, ma le riplasma attraverso un processo di profonda riflessione, rivisitazione e rinnovamento. Questo spazio di sospensione temporanea avviene durante il cammino, lontano dalla quotidianità e dalle convenzioni sociali, ma anche nel momento della partenza poiché offre al pellegrino la possibilità di scegliere, valutare le motivazioni, prepararsi e poi essere disposto, ad intraprendere il viaggio, poi anche a incontrare se stesso e di trasformare la propria visione del mondo.

«I motivi che trova riflettendo, razionalizzando, sono quelli che dirà agli altri che gli chiederanno, curiosi, ironici, interessati, perplessi. Sono i motivi emersi, visibili, dicibili. Ma a volte, sarà solo lungo il cammino che scoprirà la sorgente segreta, sommersa nel profondo del cuore, di tutti i motivi per cui pensa di essere partito: un immenso desiderio, non più soffocato e tenuto bada»[12].

Pertanto, la fase preparatoria del pellegrinaggio può essere interpretata non solo come una serie di attività fisiche necessarie per affrontare il cammino, ma come un passaggio simbolico di fondamentale importanza. La preparazione, infatti, non si limita a un adattamento corporeo alle difficoltà del viaggio, ma si configura come un processo interiore in cui il pellegrino è chiamato a riflettere sulle cause profonde che lo spingono a intraprendere il cammino. Sebbene il pellegrinaggio risponda, in ultima istanza e come già sottolineato, a un “invito”, è essenziale che l’individuo esplori e comprenda il significato di tale chiamata. La riflessione sul senso del viaggio implica una presa di coscienza delle motivazioni che guidano la decisione di fare un passo verso l’incertezza, un passo che richiede non solo coraggio, ma anche una disponibilità al cambiamento. Il movimento verso la partenza, dunque, non può essere ridotto a un mero atto di volontà, ma esso comporta anche «accettare la presenza di ambiguità e incertezze, conoscere le proprie reazioni e imparare a riconoscere quelle altrui, parlarne, avere una sede interiore dove elaborare e lasciar decantare gli inevitabili accumuli emotivi»[13].

La motivazione del pellegrino si intreccia con la libertà di rispondere a un invito che lo sollecita a trasformarsi, a mettersi in cammino non solo fisicamente, ma anche con la sua dimensione più intima e spirituale. In questo senso, la preparazione al pellegrinaggio è in primo luogo un atto di riflessione e di consapevolezza, che permette al soggetto di confrontarsi con il proprio desiderio di cambiamento, di crescita e di rinascita. «Sia la gente comune sia i professionisti spesso riflettono su ciò che fanno, a volte persino mentre lo fanno. Stimolati dalla sorpresa, tornano a riflettere sull’azione e sul conoscere implicito nell’azione. […] C’è qualche fenomeno enigmatico, problematico o interessante che l’individuo sta cercando di affrontare. Quando egli cerca di coglierne il senso, riflette anche sulle comprensioni implicite nella sua azione, che fa emergere, critica, ristruttura, e incorpora nell’azione successiva»[14]. Tale processo riflessivo offre al pellegrino di avvicinarsi alla scelta di partire, confrontandosi anche con le proprie paure, limiti e aspirazioni. Partire è dunque una fase caratterizzata da un complesso intreccio di emozioni, che giocano un ruolo cruciale nel determinare la natura stessa del cammino intrapreso. La partenza non è mai priva di un ampio spettro emozionale, che include timore, speranza, incertezza, ma anche una forma di desiderio «che accompagna il cammino peregrinante [e] nasce in ultima analisi dalla ricerca dell’Assoluto e dalla invocazione di Dio»[15].

La preparazione al pellegrinaggio, quindi, non riguarda solo l’adattamento fisico, ma è un processo di meta-cognizione, in cui «l’apprendere dall’esperienza ed attraverso l’osservazione significa in primo luogo imparare che osservare non consiste in un fuggevole vedere, bensì̀ in un immergersi nell’evento, accoglierne le vibrazioni sensoriali, “sentire” le emozioni e denominarle per ampliare il nostro repertorio sensitivo ed affettivo dal quale attingere per imparare»[16].

In particolare, il pellegrinaggio, in quanto cammino verso l’ignoto, è intrinsecamente legato alla paura dell’incertezza[17] e dell’incontro con sé stessi, ma al tempo stesso è alimentato dalla speranza di una liberazione dalle proprie angosce interiori. La paura, in questo contesto, è legata anche al timore di un cambiamento profondo, che lo porta a confrontarsi con la propria vulnerabilità e fragilità. Tuttavia, è proprio attraverso l’incontro con queste paure che il pellegrino può sperimentare una potenziale trasformazione; anzi, in ogni momento del viaggio si può sperimentare una fase di partenza, davanti ad una difficoltà inaspettata (Es 16, 1-36).

La speranza, d’altro canto, funge da motore che spinge l’individuo a intraprendere il viaggio, alimentando il desiderio di cambiamento, di superamento dei propri limiti e di avvicinamento a una dimensione esistenziale spirituale e più profonda. Paradossalmente, l’incertezza è il terreno fertile in cui possono svilupparsi nuove possibilità di crescita e trasformazione. Da un punto di vista pedagogico, il processo che comporta l’“affrontare l’incertezza” può essere letto alla luce dell’imprevisto, quale elemento da elogiare, secondo cui l’individuo è chiamato a costruire nuove risposte a contesti sconosciuti, in modo da trovare un nuovo equilibrio grazie a soluzioni creative.

Inoltre, come affermato da Van Gennep, la partenza implica anche una separazione dal mondo ordinario, un allontanamento dalle sicurezze quotidiane, che apre a nuove possibilità, come avviene nel caso di rito di passaggio[18]. Il pellegrino è chiamato a “lasciare andare” le proprie abitudini, i propri legami, e a entrare in uno spazio simbolico che è profondamente trasformativo. Come scrive Moro, «la separazione segnata dal pellegrinaggio obbliga ad uscire dal tempo e dallo spazio sottoposto alle regole mondane per entrare in un altro mondo simbolicamente creato dal rito»[19], capace di indurre un cambiamento in chi vi prende parte.

Siamo dinanzi ad un’arte, quella del camminare, caratterizzata dal gesto del “togliere”. «Togliere peso i pensieri e liberarci dalla zavorra che ci lega alla vita di tutti i giorni. E così andare più liberi. Camminare è lavorare per sottrazione. Ma – di conseguenza – è anche l’arte di scegliere. Di selezionare, tra i mille oggetti, quei pochi che saranno fondamentali»[20].

Nondimeno, partire, iniziare a «camminare significa uscire dal proprio contesto di vita e aprirsi al mondo; la percezione della realtà si trasforma perché cambia la prospettiva e l’angolazione da cui guardiamo. Questo consente di percepire la realtà con tutti i sensi»[21]. La preparazione al pellegrinaggio è così una fase in cui l’individuo non solo “gestisce” le proprie emozioni, ma le comprende ed è deciso a partire, in un processo di crescita, che conclusa la preparazione, lo interroga nel profondo: ora che sei pronto a partire, sei disposto a lasciarti incontrare?

 

La disponibilità ad incontrare

Il camminare a piedi «è un’esperienza sensoriale totale, in cui nessuno dei sensi è trascurato»[22]; infatti, partire diviene uno spazio pedagogico libero e duttile, che interroga il soggetto alla sua “disponibilità”, ad incontrare sé stesso, gli altri e infine Dio, con tutto il suo essere. «Il pellegrinaggio utilizza l’esperienza come metodo di ricerca. L’atteggiamento disincantato e scettico e anche un po’ annoiato, tipico della ricerca meramente intellettuale, è agli antipodi dello stupore dei pellegrini, atteggiamento che rivela un’apertura reale della persona ad accorgersi di ciò che accade»[23].

In primo luogo, il gesto del camminare consente al pellegrino di ritagliarsi spazi di silenzio e riflessione, trasformando il movimento corporeo in un percorso di autoconoscenza. Il cammino, in questo senso, diventa occasione per interrogarsi sul proprio essere e per confrontarsi con la propria storia personale, favorendo un ascolto interiore che supera i preconcetti e apre a nuove possibilità interpretative. Come sostiene Morin, «non è più soltanto a posteriori che la conoscenza interviene: è anche nel corso stesso della conoscenza, del pensiero e dell’azione [come nel partire per camminare]; così il pensiero può pensarsi facendosi, nel suo movimento stesso. Possiamo sempre mettere il nostro punto di vista nell’orbita del metapunto di vista (riflessivo) e farlo ritornare al punto di vista pilota, integrando ad esso la lezione della riflessività, in altre parole modificando la conoscenza, il pensiero o l’azione in virtù della presa di coscienza»[24].

In secondo luogo, il pellegrinaggio può assumere una dimensione collettiva, in quanto lungo il percorso è possibile incontrare altri viaggiatori. Questo scambio, che Lévinas definisce come la percezione della “traccia dell’infinito” nell’incontro con l’altro, può tradursi in un dialogo interculturale ed esistenziale che arricchisce il percorso. Il volto, con la sua epifania, rappresenta l’identificazione con un’alterità che si avvicina allo sguardo e si rivela nella sua prossimità, senza configurarsi come un’identità preconfezionata o una mera relazione segnata dal carattere del possesso. Ciò che sfugge a ogni tentativo di afferrarlo risiede nella sua natura intrinsecamente trascendente, che resiste a essere inglobata nelle nostre conoscenze. Il volto esprime infatti una particolarità che sfugge a ogni forma di categorizzazione e generalizzazione, incarnando una tensione verso l’universalità che si manifesta attraverso la pluralità dei suoi aspetti. Tale interazione con l’altro può aprire alla fraternità e alla dimensione più estesa di comunità, stimolando anche una rielaborazione critica delle proprie convinzioni attraverso il confronto diretto con soggetti diversi. Nell’incontro, dunque, si riconosce l’alterità tenendo presente che «la nostra possibilità di essere unici, irripetibili, – scrive R. Fadda – è indissolubilmente legata allo sguardo del volto dell’altro che diventa specchio del nostro io, che ci definisce e ci riconosce come alterità e individualità»[25].

Infine, il camminare si trasforma in uno strumento di ascolto verso il sacro quando la natura, intesa come linguaggio del divino, manifesta la sua presenza attraverso il creato. In questa prospettiva, la costante presenza del Dio fatto carne accompagna il pellegrino ed evidenzia come il divino non sia un’entità distante, ma un compagno di viaggio. Grazie a questa presenza dovremmo essere «capaci di leggere la sua firma in tutto il creato; quel creato che oggi noi non custodiamo, ma in quel creato c’è la firma di Dio che lo ha fatto per amore»[26]. Il gesto di attraversare spazi naturali, con rispetto e stupore, riafferma la sacralità del territorio e invita il viandante a lasciarsi contaminare dagli incontri, una vulnerabilità che rende permeabili alla presenza di Dio ad ogni passo.

Con il partire «il pellegrino sperimenta un certo senso di povertà, di precarietà e di estraneità poiché tutte le barriere che lo separavano dal mondo, dagli altri, da Dio e dalla novità sono state ormai abbattute»[27]. Alla luce di ciò il pellegrinaggio si configura come un modello formativo integrato in cui le dimensioni sensoriali, riflessive, relazionali e trascendenti si intersecano, offrendo così uno spazio contemporaneo di maturazione e cambiamento, generatività e novità.

 

Conclusioni: partire ha a che fare anche con il tornare?

Anche il pellegrinaggio ha un suo ritorno, partire significa anche ad un certo punto tornare. Non inteso come «un ritorno al passato. Non bisogna pensare a una dinamica regressiva di rifiuto della vita e della storia. “Tornare” non significa “tornare indietro”, bensì risalire all’essenziale, a ciò che ci riguarda profondamente e ci invita a una condizione più vera»[28]. Di conseguenza, alla fatica del distacco, che si vive nella partenza, dopo essere stati esposti alle istanze del viaggio, si unisce il movimento del ritorno, che richiede anch’esso disponibilità, e trasforma la percezione della realtà quotidiana, arricchendola di significati nuovi. Questa dinamica del partire-camminare-tornare emerge dunque come paradigma pedagogico fondamentale, dove l’intreccio tra dimensione spirituale, esistenziale ed educativa è evidente, sin dalla partenza.

 

 

[1] G. Cappelletto, In cammino con Israele. Introduzione all’Antico Testamento, Edizioni Messaggero, Padova 2009, 174.

[2] Francesco, Evangelii Gaudium, n. 24.

[3] Francesco, Evangelii Gaudium, n. 97, 224, 238, 283.

[4] G. Marcel, Homo viator, Borla, Roma 1945, 15.

[5] J. Dewey, Esperienza e educazione (1938), Raffaello Cortina, Milano 2014.

[6] J. Merizow, Teoria dell’apprendimento trasformativo (1978), Raffaello Cortina, Milano 2018.

[7] A. Grun, Una cosa sola con Dio. La spiritualità del pellegrinaggio, Gribaudi, Torino 2009, 24.

[8] E. Bianchi, Il pellegrinaggio nel cristianesimo, Edizioni Qiqajon, Magnano 2018, 12.

[9] V. Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986.

[10] S. De Matteis, Introduzione in V. Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986, 14-17.

[11]  S. De Matteis, Introduzione in V. Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986, 15.

[12] D. Gandini, La meta e la via: il pellegrinaggio a piedi di preghiera e di ricerca, in P. Asola, D. Gandini, La strada buona. Appunti dopo Santiago, Marietti, Genova 2008, 28

[13] V. Iori, Nei sentieri dell’esistere. Spazio, tempo e corpo nei processi formativi, Erickson, Trento 2006, 62.

[14] D.A. Schön, Il professionista riflessivo (1983), trad. it. Dedalo, Bari, 1993., 76.

[15] G. De Virgilio, La categoria biblica del pellegrinaggio e il suo simbolismo. Per una rilettura nel contesto della pastorale giovanile, in «Note di Pastorale Giovanile», 38 (2), 2004.

[16] D. Vigna, Imparare a osservare, Borla, Roma 2002, 119.

[17] Interessante pensare che il dubbio possa essere emblema di passaggio, di approfondimento, come lo è stato per Abramo, invitato a partire da Dio (rif. Gen. 15, 1-16). Per approfondire G. Ravasi, Il viaggio dei figli di Adamo, in «Luoghi dell’infinito», XXIX, (302)2025, 8-9.

[18] A. Van Gennep, Le rites de passage, Nourry, Parigi 1909.

[19] A. Moro, Il pellegrinaggio come esperienza liminale della fede, CLV, Roma 2021, 391.

[20] A. Mattei, L’arte di fare lo zaino, Ediciclo, Venezia 2018. 10.

[21] F. Balbo, R. Bertoglio, Pregare con i piedi. Spiritualità del cammino, Ancora, Milano 2008, 40.

[22] D. Le Breton, Il mondo a piedi. Elogio della marcia, Feltrinelli, Milano 2013, 23.

[23] D. Gandini, La meta e la via: il pellegrinaggio a piedi di preghiera e di ricerca, op.cit, 35.

[24]  E. Morin, La conoscenza della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1989, 215.

[25] R. Fadda, Dall’identità come data alla scoperta dell’alterità. Ripensare la soggettività come problema pedagogico in Ead. (a cura di), L’io nell’altro. Sguardi sulla formazione del soggetto, Carocci, Roma 2007, 36-37.

[26] Francesco, Catechesi: Il mistero della Creazione, Udienza generale, 20 maggio 2020.

[27] A. Labbucci, Camminare, una rivoluzione, Donzelli, Roma 2011, 14.

[28] R. Mancini, Il viaggio come ritorno. Riflessioni sul senso del pellegrinaggio cristiano, Edizioni Terra Santa, Milano 2021, 21-22.