N.03
Maggio/Giugno 2025

Quanti sperano nel Signore, camminano senza stancarsi (Is 40,31)

Il versetto che vogliamo analizzare si trova alla fine del capitolo 40 del libro del profeta Isaia. Il capitolo inizia con la ripetizione dell’imperativo «Consolate, consolate il mio popolo» (Is 40,1). Con queste parole si apre, infatti, la sezione di Isaia chiamata «Libro della consolazione». Il popolo deve essere convinto che la sua pena (che è stata molto grande) sia definitivamente finita. Una voce si fa sentire e invita a preparare la via del ritorno dall’esilio nel deserto. È necessario costruire una strada ampia e agevole per il Signore. Lui stesso guida il suo popolo in un corteo degno del trionfo di un eroe di guerra ma, contemporaneamente, come un pastore premuroso, si fa carico delle difficoltà del gregge. Viene, in seguito, magnificata la sua grandezza proponendo un inno che snocciola tutte le prerogative e connotazioni divine. Anche gli astri, identificati come delle entità mitologiche, concorrono a formare un vasto esercito sottoposto ai comandi del Signore. 

È in questo contesto che si situa l’apertura di speranza e di incoraggiamento che viene prospettata in Is 40,31. La speranza viene espressa dal verbo ebraico qāwāh che contiene una sfumatura particolare. L’atteggiamento che si vuole descrivere è quello dell’attesa. Quindi si spera perché si attende qualcosa. Viene alla mente la poesia di Clemente Rebora «Dall’immagine tesa». Il protagonista sembra non riuscire a comprendere il motivo della sua attesa: non aspetta nessuno! Ma, nonostante tutto, perdura l’atteggiamento irrazionale della vigilanza in mezzo a un deserto dove non c’è nessuno, nei pressi del campanello che, pur non annunciando nessuno, espande delle vibrazioni impercettibili. L’ostinazione nell’attesa alla fine è ripagata e, all’improvviso, sboccia qualcosa di inedito che infonde perdono e ristoro. Nel testo di Isaia si spera perché si attende la venuta del Signore. C’è addirittura un verbo stereotipato nella Bibbia Ebraica (pāqad) che designa la visita di Dio al suo popolo o a una persona in particolare, per compiere le sue promesse. Quindi visitare e compiere una promessa (da parte di Dio) vanno insieme. La speranza è l’attesa di questa visita. San Paolo invita a essere perseveranti nelle tribolazioni in virtù della speranza che non delude perché è stata riversata in noi ad opera dello Spirito Santo (cfr Rm 5,5; Fil 1,20). La speranza deve essere coltivata a oltranza, anche quando sembra impossibile («contra spem in spem», Rm 4,18). Solo in questo modo si può vincere la fatica e lo scoraggiamento che si possono incontrare nel cammino.

Infatti, nella parte finale del versetto, si enuncia la prospettiva di camminare senza stancarsi (cfr Is 40,31). Il verbo camminare, in ebraico hālak, è alla base della parola halakah. Quest’ultima definisce una raccolta di commenti ai passi legislativi della Bibbia Ebraica e dà luogo a una serie di precetti che devono essere osservati. Quindi “camminare” non è semplicemente un’azione fisica e motoria, ma assume un significato spirituale. L’uomo deve scegliere tra la via del bene e quella del male, la via della vita e quella della morte (cfr Sal 1 e Ger 21,8). Il suo cammino deve essere all’interno dei precetti della legge del Signore. Non per niente la parola ebraica “tôrāh, che con eccessiva disinvoltura traduciamo con “legge”, sta a indicare molto di più rispetto a un insieme inappellabile di regole. Contiene i concetti di istruzione e di direzione che quindi presuppongono (guarda caso) un cammino, una maturazione, un apprendimento esistenziale lungo, contrassegnato da successi e da sconfitte, da dubbi e da certezze, da guadagni e da perdite. Il verbo ebraico yārāh (da cui deriva tôrāh) significa lanciare in una direzione (ad esempio una freccia) e, di conseguenza, insegnare. Infatti è il maestro che indica la direzione giusta con le parole e con l’esempio, lasciando provare l’allievo e guidandolo con sapienza. Successivamente tutto questo viene codificato in un insieme di leggi e di precetti, ma questa è solo la forma finale di un percorso molto più ricco e profondo. Il viaggio in se stesso rappresenta un obiettivo e non solo il fatto di conquistare la meta finale.

La verifica spirituale sulla nostra fede è questa: se camminiamo e ci stanchiamo allora abbiamo ancora bisogno di conversione (cioè dobbiamo cambiare direzione), se invece non sentiamo la fatica significa che stiamo camminando sulla strada giusta. Se ci troviamo in questa situazione proviamo anche un piacevole senso di libertà.