N.05
Settembre/Ottobre 2025

Le tappe di un cammino di discernimento

Note per evitare la trappola dei percorsi interminabili

Accompagnare un credente nel cammino di offerta di sé al Signore è un’arte che si apprende soprattutto nella costante meditazione delle Sante Scritture: e lì che troviamo il paradigma di avanzamento di una vocazione, nonché i criteri di autenticità della chiamata. Chi accompagna dovrebbe riconoscere i segnali di un intervento del Signore nella coscienza, ma anche le varie tappe che aiuteranno il battezzato ad entrare nel mistero del Regno. Il cammino non è privo di imprevisti (come ogni atto educativo), ma ciò che sarebbe importante evitare sono due derive particolari:

 – Trascinare le persone – o farsi trascinare – in interminabili cammini che non portano da nessuna parte, che sembrano trasformare il discernimento in una sorta di ‘stato di vita’. Quando accade vuol dire che o la persona è indecisa, o poco generosa, o che l’accompagnatore improvvisa, poiché non possiede la mappatura interiore del cammino.

 – Un secondo rischio è quello che l’accompagnatore creda che il discernimento si giochi sul sentire suo o di chi sta accompagnando, dimenticando che esso richiede criteri oggettivi ed ecclesiali. La grazia divina molto spesso è sorprendente, ma si possono riconoscere i tratti del suo agire. La dottrina mistica della Chiesa e le vite dei santi ne offrono abbondante testimonianza. Non camminiamo al buio.

 

Ciò posto ci chiediamo se sia possibile individuare alcuni passaggi nel cammino che va dall’intuizione vocazionale alla prima scelta; ovviamente non si tratta di una descrizione esaustiva né tanto meno rigida, poiché le persone sono diverse e vivono sovente le varie tappe con un ordine tutto proprio. Ma, mi permetto di suggerire, ciò che qui si descrive, prima o dopo ‘avviene’.

 

Prima tappa: lo straniamento. Non si inventa la vocazione, si riceve o nell’intimo della coscienza o tramite una chiamata diretta della Chiesa (che ha potere di proporre ai giovani il ministero ordinato). L’appello può giungere tramite una parola esplicita, una testimonianza di vita, la scoperta di una Presenza che invita. Quale che sia il veicolo, ciò provoca un certo straniamento: Maria rimase turbata alle parole dell’angelo (cf. Lc 1,29). Ciò è salutare ed è anche indice di animo buono nella persona, poiché chi “si chiama da solo” non prova alcun sussulto. In questa situazione la guida può aiutare la persona ad entrare nel mistero della chiamata, all’inedito volto di Dio che in essa si svela: il Signore chiama per nome e da ciascuno dei suoi figli attende la collaborazione per il Regno. Lo sconvolgimento che la chiamata causa è veicolo benedetto della scoperta che Cristo non solo ha dato la vita «per me» (cf. Gal 2,20), ma che interpella proprio il soggetto irripetibile che sono. In tale fase è fondamentale prestare attenzione ad un fatto noto: molti confondono la conversione con la vocazione; far luce da subito sulla questione risparmierà per il futuro molteplici sofferenze ed equivoci.

Lo straniamento per la chiamata si declina in maniera molto diversa in quei giovani che sentono il percorso vocazionale come una naturale prosecuzione della loro formazione cristiana; è normale che sia così, ma non bisogna comunque perdere l’occasione per aiutare a scoprire la novità del rapporto con Dio che la consapevolezza vocazionale determina. La ‘naturalità’ non può diventare ovvietà: chi si sente ‘chiamato da sempre’ non è esente dal confronto con le esigenze sconcertanti della sequela.

 

Seconda tappa: la promessa. Quando Dio chiama promette. Le Scritture lo confermano costantemente. Così fece con Abramo in Ur dei Caldei, con Giacobbe dopo il sogno della scala in Betel, con Maria e Giuseppe. La promessa è legata sovente alla prosperità nella posterità, la nascita di un discendente che farà grande il popolo d’Israele. La chiamata – proprio grazie alla promessa – si svela non come mero evento di autorealizzazione, ma quale salvezza per tutti. In un certo senso il chiamato è un semplice strumento di cui Dio si serve per beneficare la sua Chiesa. Ciò non vuol dire che sia secondario, ma semplicemente che la sua vita è inserita e ordinata alla santità di tutta la comunità e non può essere compresa in nessun caso (nemmeno nel caso della vita monastica) come un ‘affare personale’. Anche la vocazione più solitaria è sempre ordinata alla fecondità. Quando il Signore dice “seguimi”, risuona sempre un “sarai”: un grande popolo, una discendenza numerosa, pescatore di uomini. Accompagnare nella seconda tappa comporta l’aiutare a prendere coscienza della promessa e in essa della dimensione ecclesiale della vocazione. Questo passo non è scontato poiché sovente le persone proiettano in uno stato di vita i sogni di gloria o i loro bisogni. «Voglio diventare prete perché così potrò sfruttare al massimo le mie competenze» mi disse un giorno un seminarista! Discernere la promessa – così come la Scrittura la intende – diventa un imperativo, soprattutto perché essa aiuta a smascherare e a mettere da parte le illusioni narcisistiche che si celano dietro non poche scelte. Dio mi ama così tanto che chiama me a realizzare una promessa di bene che va oltre me e le mie aspettative.

 

Terza tappa: l’esperienza. Il discernimento vocazionale richiede l’ascolto della storia in cui Dio parla; non solo quella passata (che spesso si rilegge con categorie funzionali per arrivare a conclusioni inconsciamente già definite ancor prima di iniziare il percorso), ma soprattutto la storia che sta davanti. La vocazione «è una scarpa comoda, non necessariamente elegante», diceva il mio padre spirituale; se la vocazione è bella, lustrata, ma non comoda, c’è da riflettere. E, dunque, andare e sperimentare: sarà un tempo in convento, in monastero, in parrocchia (più che in seminario!), l’importante è che l’anima sia sollecitata dai dati crudi della realtà. Qui la guida deve vigilare acciocché la persona senta interiormente e non si nasconda le difficoltà, pur di “farsi andar bene le cose”. Il contesto dell’esperienza dovrebbe rispecchiare la verità della situazione; faccio un esempio: mandare un giovane qualche giorno nel convento migliore della provincia religiosa non è una buona idea. Certamente non va proposta una comunità problematica, ma nemmeno la perla dell’ordine o della congregazione, né la parrocchia migliore della diocesi. L’esperienza va fatta in luoghi ordinari, che rispecchiano onestamente ciò che un domani il candidato si troverà a vivere. Se le esperienze in luoghi inadeguati scoraggiano, quelle in posti smart illudono! Il luogo adatto è quello in cui il soggetto sperimenta consolazioni e desolazioni, debolezze e occasioni di crescita, sempre ricordando che “viva” non è la comunità ove tutto va bene, ma quella in cui si cresce nella sequela.

 

Quarta tappa: la scelta. Arrivare alla scelta vocazionale non determina la conclusione del discernimento, poiché ad essa segue una congrua verifica. Sant’Ignazio di Loyola – ma prima di lui la tradizione monastica – non dubitano su questo punto: la pace e le consolazioni diranno se si è sulla buona strada. L’accompagnatore, in questa tappa, potrebbe sottolineare due aspetti. Il primo: scegliere non significa semplicemente ‘decidere’ (come si fa per l’università o per un lavoro) bensì offrirsi a Dio perché faccia in noi la sua volontà, come e quando vuole. Il secondo: è utile comprendere che la radice dell’offerta di sé è sempre la gratitudine per i benefici ricevuti e non il senso del dovere o il bisogno di ricoprire un ruolo. L’offerta di sé e la gratitudine sgorgano dalla dimensione eucaristica della vita cristiana.