Quello che resta di noi quando la memoria svanisce
Struggente opera prima di Sarah Friedland, brava a non cadere nella trappola del patetico e del ricattatorio
C’è una matrice autobiografica in Familiar Touch, opera d’esordio di Sarah Friedland e film più premiato alla Mostra di Venezia 2024 (migliore opera prima di tutto il Festival, migliore regia e migliore interpretazione femminile nella sezione Orizzonti): regista e coreografa losangelina nata nel 1992, inizia a scrivere il film all’indomani della morte della nonna, che ha vissuto i suoi ultimi anni con la demenza senile.
Prende così forma la storia di Ruth Goldman (a interpretarla una sensazionale Kathleen Chalfant), ottantenne che sta perdendo la memoria e che si appresta a trascorrere l’ultimo periodo della sua esistenza in una casa di cura.
Realizzato all’interno di Villa Gardens – struttura californiana popolata da una comunità di pensionati con assistenza permanente, che hanno preso parte al film – Familiar Touch riesce a catturare con estremo pudore e delicatezza il doloroso momento di passaggio verso un altrove oscuro e spaventoso.
L’intento della Friedland non è però quello di declinare in chiave horror la questione (come in un certo modo avveniva nel pur riuscitissimo The Father –Nulla è come sembra di Florian Zeller, che nel 2021 portò sullo schermo il suo dramma teatrale), seguendo piuttosto le traiettorie di un insolito romanzo di formazione: poco a poco Ruth, un passato da cuoca con tanto di libri firmati, fa più fatica a ricordare che l’uomo accanto a sé sia il figlio Steve, ma non dimentica ad esempio quali siano gli ingredienti e i segreti per cucinare alla perfezione il borscht (zuppa tradizionale dell’Europa orientale, variante yiddish dell’ucraina boršč), peculiarità che la aiuterà molto nel difficile percorso di (nuova) crescita e integrazione nel suo nuovo habitat.
Dove la donna è chiamata a costruire giorno dopo giorno un rapporto di fiducia reciproca, tanto con il dottore che la sottopone a vari test quanto, soprattutto, con l’infermiera Vanessa che si prende quotidianamente cura di lei: la regista prende spunto dagli scritti di Lynne Segal (“mentre invecchiamo, cambiando di anno in anno, conserviamo anche, in una forma o nell’altra, tracce di tutti gli io che siamo stati, creando una sorta di vertigine temporale e in un certo senso rendendoci psichicamente di tutte le età e di nessuna età”) per rimarcare le ritrosie con cui Ruth accoglie i “ruoli” che le vengono associati (madre, paziente, vecchia signora…), senza mai perdere di vista il senso dell’opera (e del suo bellissimo titolo), caratterizzata da piccoli gesti, momenti sospesi, abbracci in grado di riempire anche l’angolo più remoto del nostro oblio. Struggente.
Schermi paralleli: Offre una riflessione interessante sulla terza età Come ti muovi, sbagli di Gianni Di Gregorio (Giornate degli Autori – Venezia82, 2025), una commedia acuta e gentile che affronta gli sforzi di un genitore-nonno nel tenere unita la famiglia in tempesta, attento a ritagliarsi una porzione di vita personale e forse anche sentimentale. Temi importanti, densi, governati però con sguardo lieve e brillante (di Sergio Perugini).