N.06
Novembre/Dicembre 2025

Dalla crisi alla conversione

La riforma della Chiesa*

La riforma della Chiesa è una tematica inflazionata e pure abusata nella nostra contemporaneità con il rischio di far perdere di vista la serietà della questione, se non addirittura di banalizzare. A livello di cattolicesimo e di cristianesimo si avrebbe difficoltà a trovare leader religiosi o semplici fedeli contrari alla riforma, o a una comunque non meglio definita riforma di Chiesa. Tutto questo unanimismo può aiutare a comprendere l’equivoco di fondo intorno al termine ‘riforma’ nella sua ricezione attuale, per cui uomini e donne di diversi approcci teologici e visioni di Chiesa si richiamano allo stesso significante, ma con diverso significato. Di quale riforma si parla? Non è chiaro.

L’etimologia viene in aiuto. Riformare viene dal latino “reformare”, composto da “re” e “formare”, che insieme indicano un dare forma, formare di nuovo (nello stesso modo o in modo diverso). Il termine può guardare tanto al passato, che al futuro (trasformare dando forma diversa e migliore, anche modificando radicalmente). Nel cristianesimo il tema della riforma ha a che fare con l’ambito della purezza, con il togliere le incrostazioni della storia alla Chiesa fondata da Cristo. C’è una pretesa teologica di continuità nei secoli, accompagnata dalla convinzione che si tratti sempre dello stesso soggetto, con la stessa identità, lungo tutta la storia. Dunque si tratta per lo più di una riforma che guarda al passato, allo stadio primordiale (la Chiesa delle origini), per poi poter progettare il futuro. Riformare significherebbe allora tornare a vita e forme di vita il più possibile vicine al Vangelo e alle comunità cristiane delle origini. Si tratta di ricreare la Ecclesiae primitivae forma.

 

L’impiego di un vocabolo

Bisogna subito affrontare una questione importante: al di là dell’etimologia, cosa si intende con il termine “riforma”? L’auge del vocabolo si ha storicamente per il periodo che va dal 1450 al 1530, quando la vita religiosa europea è attraversata dall’appello alla riforma, che, per dirla con le parole del cardinale Cusano, è un ritorno ad una «forma evangelica originaria, ad una forma Christi»[1]. Un personaggio successivo a quel tempo, il noto cardinale Roberto Bellarmino, così presenta la riforma: «Reformatio Ecclesiae omni tempore necessaria est, quia fragilitas et imbecillitas humana semper labitur in deterius»[2].

La storia viene vista come una “de-formazione” della comunità dei credenti, perché la commistione tra potere religioso e potere politico aveva ingenerato delle abitudini e delle strutture che in qualche modo soffocavano la vita religiosa. E per ciò allora si parlava di riforma in capite et in membris, anche qui intesa come un ritorno alla forma evangelica primigenia. In fondo, però, si tratta di vivere la fede in «modo diverso»[3]. E la diversità è enorme nel momento in cui prendono forma le numerose riforme. All’inizio non c’è volontà di spaccatura. Ma poi si andrà in altra direzione.

La storiografia usa e inflaziona i riferimenti al concetto di “riforma”. Si parla così di riforma dell’XI secolo, riforma gregoriana, riforma cattolica, riforma protestante, controriforma, riforme religiose, che vengono chiamate “osservanze”, perché vogliono osservare integralmente le Regole delle origini. E così per contaminazione si impiegano tanti termini simili: “rinascimento” carolingio per l’alto medioevo, “restaurazione” per la Compagnia di Gesù che nel suo bicentenario però vuole essere ricordata come “ristabilimento” (secondo l’impostazione voluta dai vertici dei gesuiti), “restaurazione” della cristianità a fine Ottocento, avendo però per tempo mitico il medioevo e propriamente quello di Innocenzo III, e per ultimo “aggiornamento” per la Chiesa del Concilio Vaticano II. In tutti questi termini, il campo di significato in gioco è quello di ritorno alle origini, ad eccezione di “aggiornamento” perché qui viene valorizzato anche il “nuovo”, non più inteso come degenerazione. D’altra parte si sta nella cultura della seconda metà del XX secolo dove l’idea di progresso e di progressismo è sempre più vincente dal punto di vista culturale e politico, come esito finale dell’epoca moderna in cui la curiosità per la “novità”, il novus, predomina e si impone.

D’altra parte il campo semantico della ‘riforma’ è sfuggente e può indirizzarsi verso esiti non previsti, alimentati dai miti, come quello del Paraguay, che da modello di riforma politico-religiosa dell’Antico regime diviene bandiera dell’intransigenza gesuitica, fino a diventare un argomento per la proposta politica reazionaria e tradizionalista della Restaurazione in Europa.

Il vocabolo “riforma” è così pregnante di tanti e diversi significanti e rimandi, che vanno sempre declinati nel contesto storico adeguato.

 

Il mito delle origini

Nel mondo cristiano la Chiesa delle origini ha assunto nel tempo i connotati di una Chiesa “mitica”. Punto di riferimento ideale, spesso ideologico. E tutte le ri-forme della Chiesa si sono ispirate a quei tempi “paradisiaci”, ovviamente più immaginati e idealizzati che reali. Se la Chiesa delle origini ha perso nell’immaginario cattolico una aderenza alla realtà, non poteva di conseguenza non essere lo stesso per il periodo successivo, esattamente a partire dal IV secolo. A livello storiografico almeno dal XVII secolo, quel tempo è stato chiamato «era costantiniana», intesa quale «decadenza del cristianesimo dalla purezza primitiva»[4], in quanto l’ambito politico prese il sopravvento su quello spirituale, inteso quale evangelico. L’operazione storiografica nei secoli XX e XXI ha raggiunto un enorme successo, nonostante si trattasse di un sintagma di sintesi, che alla fine è solo fuorviante già nel nome, perché il cristianesimo diviene religione di Stato solo verso la fine del IV secolo con l’imperatore Teodosio. Ciononostante, questa categoria interpretativa in qualche modo vuol rendere conto dell’influsso del potere politico e governativo che ha condizionato il cristianesimo nella sua storia. Non bisogna cadere nell’ingenuità storiografica che quest’epoca sia finita con il Concilio Vaticano II che ha riportato il Vangelo al centro. Ogni epoca ha i suoi condizionamenti e la relazione tra cristianesimo e società, tra mondo religioso e mondo politico è necessariamente osmotica, andando a condizionare le stesse modalità di porsi della Chiesa nel tempo. Non bisogna dimenticare che il primo concilio ecumenico della storia (Nicea 325) è stato convocato da un imperatore, Costantino, che per giunta non era neanche battezzato. La Chiesa prende “forma” a partire dagli stimoli esterni. Ad esempio dal potere politico, come appena detto. Ma anche dall’imitazione di modelli socio-religiosi precedenti. È il caso dei concili nati nel III secolo come locali (provinciali), imitando usi augusteo-pagani. Una delle forme più significative del governo dentro la Chiesa ha origine pagana. La stessa società esterna crea modelli ecclesiali di governo. E queste forme sono state anche veicolo delle ri-forme della Chiesa. A livello esemplare si pensi al Concilio di Trento (1545-1563) e al più recente Vaticano II (1962-1965), che nel termine iniziale “aggiornamento”, voluto da Giovanni XXIII, portava in realtà istanze più profonde.

 

Il gioco dei vocaboli e l’ancoraggio storico

Bisogna stare attenti all’impiego dei termini. Perché in realtà, al di là del mito o dei miti di riferimento, le riforme sono dei cambiamenti, indicano la natura dinamica della Chiesa, cioè delle sue forme.

Le riforme della Chiesa non sono neutrali: dicono della comunità credente e della visione di Dio. Si tratta di caratterizzazioni e accentuazioni che trovano spazio anche nelle immagini della tradizione cristiana.

Il tema del ripensamento del modo d’essere della Chiesa nella storia appare con forza alla fine del primo millennio per quanto riguarda il Papato ed esplode chiaramente nell’XI secolo, al tempo della “riforma” gregoriana, chiamata altrimenti “crisi” o addirittura “rivoluzione papale”. Si trattava di un cambio epocale, della fine di una forma di cristianesimo. Infatti, a fronte di tentativi di supplenza laicale alle carenze di monaci e chierici, si rispondeva con una gerarchizzazione e clericalizzazione della Chiesa. Quel Papato, con il movimento spirituale ad esso connesso, diede forma alla Chiesa del II millennio, favorendo l’affermazione del primato del romano pontefice sulla Chiesa universale, come della superiorità dello spirituale sul temporale. L’obiettivo era la rigenerazione del cristianesimo, ma si vollero accantonare i laici nella gestione dell’istituzione ecclesiastica. La riforma gregoriana genera su lungo periodo un cambiamento del governo della Chiesa, nonostante lo stesso papa fosse un frutto delle politiche imperiali, che si facevano garanti della purezza della Chiesa. Lungo i secoli sia laici, sia ecclesiastici, a volte in modo concorrenziale e altre volte tra loro alleati, si sono sentiti responsabili della corretta forma della Chiesa e per questo si sono impegnati nella riforma.

La questione della riforma della Chiesa continua nel tempo, in un confronto non solo tra laici ed ecclesiastici, ma tra autorità statali e quelle religiose. Lo vediamo chiaramente alla fine del XVIII secolo, quando al tempo della Rivoluzione francese l’Assemblea costituente votò e approvò la Costituzione civile del clero, con la sua teologia giurisdizionalista che voleva che il potere politico – statale – determinasse le “forme” della Chiesa. Se all’Assemblea Nazionale si diceva di non toccare il contenuto della fede, il “dogma”, ma solo l’esteriorità, il modo d’essere della Chiesa in un territorio ed il suo autogovernarsi, Roma, al contrario, vede un attacco alla fede, perché la maniera di essere in un dato territorio e il modo d’elezione dei vescovi e dei parroci non è neutro, soprattutto se accompagnato da usi giansenizzanti di Utrecht.

Gli attori in gioco per determinare le ri-forme della Chiesa sono veramente disparati. A volte alcuni sono messi all’angolo e altri lasciano il gioco. Si pensi quando nel 1799, in esilio, detronizzato, senza aver comunicazione esterna, muore Pio VI, il papa che le cronache dell’epoca chiamano “l’ultimo papa”. In questo senso il cattolicesimo contemporaneo ha visto emergere la leadership papale per le sue esigenze interne di riforma. Allo stesso tempo Roma accelera e frena le riforme della Chiesa. Se si pensano le numerose riforme della Curia romana a partire dal 1908, si comprende che Roma prima di riformare la Chiesa universale voglia semplificare e rendere più efficienti i suoi uffici per ulteriori azioni di cambiamento da imprimere al cattolicesimo. Si pensi ai codici di diritto canonico del 1917 e del 1983, al sostegno ai movimenti religiosi a prescindere dai vescovi locali e ai cambiamenti liturgici.

Il tema della riforma esplode di nuovo nel cattolicesimo nel XX secolo, trovando considerazione e spazio nelle riflessioni dei teologi. Particolarmente va segnalato il contributo di Yves Congar, teologo con approccio storico (come altri teologici dell’epoca; si pensi a Henri de Lubac), che intende la riforma come un tornare alle fonti: anche qui si guarda al passato.

Questa lunga digressione giusto per dire che ogni epoca ha avuto i suoi modelli e i suoi punti di riferimento per tentare di vivere da parte dei credenti la migliore vicinanza a Dio. Perché, in fondo, a livello teologico e dunque storico tutti i tentativi di riforma nella Chiesa hanno voluto riguardare proprio l’implementazione di un rapporto più “puro” possibile tra il battezzato e Dio. Si tratta indubbiamente di una pretesa, in quanto la distinzione tra “puro” e “impuro” è sempre determinata dalla propria comprensione contingente.

 

Spinte ed esigenze di riforma

Vanno considerate le spinte riformiste che vengono dall’interno della Chiesa. Qui non ci si può limitare a intendere la riforma come un semplice cambiamento, ma bisogna farsi carico dell’esigenza teologica. Come già accennato, nel cattolicesimo c’è la presunzione della continuità dell’unico soggetto Chiesa. Questo assunto è teologico e non storico. Nel senso che la storia non può esprimere una tale convinzione perché non rientra nelle sue competenze. Si registra solo il fatto che nella convinzione di continuità nel cattolicesimo le riforme proposte e attuate vogliono sempre riportare indietro nel tempo, cioè ad una purezza delle origini. Si pensi anche a ciò che è accaduto dopo il Vaticano II quando tutti gli ordini hanno voluto riscoprire il proprio carisma, eliminando i segni della storia secolare: le origini divengono il criterio del presente. Ma ovviamente di mezzo c’è l’interpretazione. L’aggiornamento, altra categoria novecentesca dell’ambito del concetto di riforma, è il modo di interpretare il passato, la purezza del passato, per il presente.

Si tratta di un revisionismo storico e di un uso della memoria a seconda del progetto religioso degli anni ’60 e ’70 del ‘900. In qualche modo, secondo lo storico Pietro Stella, si subordinava o si rischiava di far subordinare le ricerche storiche «a esigenze di altra natura, favorendole solo nella misura in cui fornivano elementi utili a un disegno sia pastorale sia forse anche ideologico»[5]. Questo approccio, allo stesso tempo, generava una «“ossessione” delle origini», che andava chiaramente a scapito «della comprensione degli ulteriori sviluppi che tali istituzioni hanno subito, spesso snaturandosi, nel corso dei secoli»[6].

 

Riforma: risposta alla crisi

Il cattolicesimo occidentale contemporaneo da diversi decenni è lacerato da una crisi. A livello di esemplificazione, basti citare tre soli libri, che già nei loro titoli riconoscono la gravità della situazione. Il primo è del 1943, pubblicato da Henri Godin e Yvan Daniel, e mostra che già durante la seconda guerra mondiale i territori considerati il motore del cattolicesimo mondiale versavano in una crisi profonda: La France pays de mission?. Il secondo del 1977 di Jean Delumeau parla addirittura di morte del cristianesimo, Il cristianesimo sta per morire?. L’ultimo è di Andrea Riccardi, che parla nel 2021 di una Chiesa in fiamme, a partire dall’immagine simbolica del rogo di Notre Dame di Parigi: La Chiesa brucia: crisi e futuro del Cristianesimo[7].

La crisi del cattolicesimo è sempre più tematizzata. Ma bisogna ragionare in senso storico. Spesso si usa la categoria della secolarizzazione, indicando cause esterne al cattolicesimo che nel tempo hanno indotto una crisi allo stesso sistema cattolico. Oggi queste motivazioni, probabilmente valide per i secoli XVIII-XIX e parte del XX, non paiono più così convincenti, perché ci si trova più in una società del pluralismo, che in una secolarizzata.

 

“Crisi”: la cifra del Novecento (e non solo)

Il termine interpretativo più adatto sembra essere proprio quello di “crisi”, perché è ugualmente impiegato dalla storiografia per descrivere non solo il cattolicesimo, ma l’insieme del cristianesimo occidentale tra gli anni ’60 e ’80 del ’900, là dove Occidente va inteso in senso geografico e culturale assai ampio. Se la storiografia ha indugiato sulla categoria della “crisi” soprattutto per l’Europa occidentale, essa analogicamente può essere applicata in modo più esteso anche all’Occidente inteso in maniera più vasta. Non si tratta solo di “trasformazioni” interne al cristianesimo, ma anche di altro più significativo e incisivo.

Nello specifico il cattolicesimo attraversa una crisi di compattezza interna, a livello delle idee e dottrine condivise, degli stili di vita apprezzati e promossi, della disciplina dei suoi fedeli (specialmente degli ecclesiastici e i religiosi). Una crisi che segue e risponde al proprio contesto epocale.

Ma di quale crisi si sta parlando di fronte a questa carrellata di esempi? C’è chi parla propriamente di “crisi di identità”. La questione dell’identità è rimarcata da Giovanni Paolo II sin dall’inizio del suo pontificato[8], proponendo nei suoi interventi pubblici la volontà e la necessità di superare la fase degli «esperimenti interminabili» della vita religiosa o di quella che è stata definita una «rivoluzione continua» o di un perpetuo stato «costituente»[9].

Va posta un’ultima considerazione. Se finora si vedeva la crisi ecclesiale come conseguenza di fattori esterni (come la secolarizzazione), per il cattolicesimo tra XX e XXI secolo non si vedono questi incisivi condizionamenti esterni (che tuttavia ci sono sempre), quanto una crisi per lo più interna. Cosa sta accadendo? È in corso una implosione interna al cattolicesimo. Antonio Gramsci, intellettuale marxista, parla di una parte del cattolicesimo che si suicida. Andrea Riccardi pone la giusta domanda: «è davvero questa la realtà?»[10].

 

Dalla crisi alla riforma/rinnovamento/conversione

La domanda provocante rimane ancora oggi aperta, ma quel che conta è che a questa crisi si è voluta dare una risposta con una e più riforme istituzionali, che vanno dalle riformulazioni delle regole degli istituti religiosi (nel tempo postconciliare) alla riforma della Curia romana (1967, 1988 e 2022), dalla riformulazione del Codice di diritto canonico del 1983 alla creazione di nuove istituzioni (come le Conferenze episcopali o il Sinodo dei vescovi nel 1965). Contemporaneamente sono avvenute non poche riflessioni del centro romano sulla riforma ecclesiale. Giovanni Paolo II nel 1995 nella enciclica Ut unum sint apriva alla «continua riforma» della Chiesa, sottolineando quello che per lui è «un chiaro nesso tra rinnovamento, conversione e riforma»[11]. Benedetto XVI, nell’incontro con la Curia romana del 22 dicembre 2005, ha nella lettura della Chiesa una «ermeneutica della riforma» a discapito di una «ermeneutica della rottura o della discontinuità»[12] in relazione al Concilio Vaticano II e, a ben vedere, al tema dello sviluppo dottrinale. La riforma viene concepita quale «rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa». In ultimo papa Francesco è stato eletto nel conclave del 2013 sotto la spinta dell’insoddisfazione rispetto alle ritenute disfunzioni della Curia romana con l’obiettivo della riforma della stessa Curia e di tutta Chiesa[13], tanto è vero che nel documento programmatico del suo pontificato, l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013), si parla di «riforma della Chiesa in uscita missionaria», di una «conversione ecclesiale» e di un «rinnovamento ecclesiale», di una «riforma delle strutture» e di una «conversione del papato»[14]. L’insieme del magistero papale degli ultimi decenni è accomunato dal riferimento al campo semantico del «rinnovamento», in maniera coerente all’impianto dei documenti del Concilio Vaticano II, che impiegano solo una volta il termine “riforma” (nel decreto Unitatis redintegratio) e ben 64 quello di “rinnovo” o “rinnovamento” (renovatio).

In tal senso va sottolineato che c’è crisi anche quando una riforma che doveva farsi non si è fatta: una riforma incompiuta genera una trasformazione non preventivata.

In ogni caso va ribadito che la coscienza dell’epoca attuale è coscienza di una crisi del proprio tempo, che coincide con un passaggio epocale. In questa capacità di lettura della realtà circostante si gioca anche l’autocomprensione della Chiesa con la sua capacità di adattamento. Emerge una questione di metodo: che tipo di domande poniamo alla crisi? Come si definisce l’ecclesialità della crisi? Qual è l’aspetto cattolico della crisi? Come identificare l’aspetto critico ecclesiale proprio?

Si ha il privilegio di vivere in un tempo storico che a ragione viene considerato un cambio di epoca. Questo fatto comporta una responsabilità unica della nostra generazione di incidere sui processi in atto: ciò che oggi viene deciso, scelto e vissuto avrò un impatto su lungo periodo, determinando le condizioni di vita delle future generazioni. Un privilegio e una responsabilità. E ciò riguarda anche la riforma della Chiesa.

 

 

* Si riprende in maniera sintetica un precedente saggio: Roberto Regoli, Riforma, riforme e crisi della Chiesa: tra continuità e discontinuità, in Alessandro Clemenzia – Nicola Salato (ed.), Quale riforma della Chiesa?, Firenze, Nerbini, 2023, 17-39.

[1] M. Marcocchi, Presentazione all’edizione italiana, in J.-M. Mayeur – Ch. e L. Pietri – A. Vauchez e M. Venard (dir.), Storia del Cristianesimo, vol. 7, Dalla riforma della Chiesa alla riforma protestante, Borla-Città Nuova, Roma 2000, 7.

[2] R. Bellarmino, Considerationes quatuor ex concilio Tridentino [Rome, octobre 1612], in Actuarium Bellarminianum, R.P.X.-M. Le Bachelet (ed.), Paris 1913, 533n.

[3] M. Marcocchi, Presentazione all’edizione italiana, 11.

[4] G. Ruggieri, Prefazione. L’era costantiniana: un concetto di lotta e di testimonianza, in G. Zamagni, Fine dell’era costantiniana. Retrospettiva genealogica di un concetto critico, il Mulino, Bologna 2012, 10.

[5] P. Stella, Le ricerche su don Bosco nel venticinquennio 1960-1985, 385.

[6] S. da Campagnola, La storiografia monastico-religiosa, oggi: tra ideologia e metodologia, in “Laurentianum” 18 (1977) 523-545, qui 529.

[7] H. Godin – Y. Daniel, France pays de mission?, Paris, Cerf, 1943; J. Delumeau, Il cristianesimo sta per morire?, prefazione di Vittorio Messori, SEI, Torino 1977; A. Riccardi, La Chiesa brucia: crisi e futuro del Cristianesimo, Editori Laterza, Bari-Roma 2021.

[8] Giovanni Paolo II, lettera, I problemi della vita consacrata, 31 maggio 1983, in Enchiridion vaticanum, vol. IX, Bologna 1987, 164-259.

[9] E. S. Santos, La vita religiosa nella storia della Chiesa e della società, Ancora, Milano 1997, 965- 966.

[10] Riccardi, Vita consacrata. Una lunga storia. Ha ancora un futuro?, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2015, 57.

[11] Giovanni Paolo II, enciclica Ut unum sint, 25 maggio 1995, n. 16, 17, 18, 82.

[12] Benedetto XVI, discorso alla Curia romana, 22 dicembre 2005, Acta Apostolicae Sedis, 98 (2006) 40–53.

[13] Cf. Francesco, chirografo con il quale viene istituito un consiglio di cardinali. Nel chirografo si impiega il termine ‘rinnovamento’.

[14] Francesco, esortazione apostolica, Evangelii Gaudium (2013), 17, 26, 27, 32.