N.06
Novembre/Dicembre 2025

Imparare a guardare

«Egli dona largamente ai poveri» (Sal 112,9)

San Lorenzo era un diacono romano che subì il martirio nel 258 d.C., il 10 agosto, durante la persecuzione di Valeriano. Costantino, nel IV sec., fece erigere, nell’area, la basilica maior e un piccolo oratorio sul luogo della sua sepoltura. È su questo nucleo più antico che, nel VI sec., papa Pelagio II edifica una seconda basilica con scale che permettevano di accedere alla tomba del santo. Il complesso, che ha l’ingresso sul piazzale del Verano a Roma, è dato dall’unione di questa chiesa primitiva con quella fatta erigere da Onorio III, nel XIII secolo. Nel 1943, i bombardamenti distrussero gran parte della facciata e del portico d’ingresso dei Cosmati, poi restaurato. Tra i mosaici superstiti dell’architrave, si intravede un Agnello dentro un clipeo. Nel nartece, gli affreschi duecenteschi recuperati ci introducono alle storie di san Lorenzo e di santo Stefano, sepolti insieme nella cripta con san Giustino. Qui si trova anche il monumento funebre di Alcide de Gasperi del Manzù.

Oltre la soglia si entra, dunque, nella parte medievale della basilica, a tre navate, e bisogna oltrepassare gli amboni per giungere a quella pelagiana che aveva un orientamento invertito. Occorre voltarsi verso la controfacciata per vedere il mosaico dell’arco trionfale del VI sec., con due finestre agli estremi, ora cieche. Al centro, come chiave di volta della realtà, c’è Cristo benedicente sul globo azzurro del mondo, in Maiestas, la croce come scettro. «Il Signore, infatti, domina mediante il legno [della croce]», scriveva sant’Agostino.

A sinistra è possibile individuare papa Pelagio II con un modello della basilica e, all’estremo opposto, un’altra figura con le mani coperte, sant’Ippolito, nell’atto di offrire una corona di gloria, quella del martirio. Accanto al pontefice troviamo san Lorenzo vestito di luce dorata, di gloria,  presentato a Cristo proprio da san Pietro, come se rientrasse idealmente tra i suoi successori; infatti condividono l’attributo della croce. Sul libro aperto leggiamo: Dispersit, dedit pauperibus – Egli dona largamente ai poveri, dal Salmo 112. È il versetto che meglio descrive l’azione del giusto, lo spreco come cifra dell’amore, il dono generoso di sé. Mentre nei versetti successivi del Salmo, il malvagio è descritto come uno che «vede e va in collera, digrigna i denti e si consuma». Questa è l’immagine dell’invidia (dal lat. vedere contro) per eccellenza, una distorsione del vedere che fa dell’altro un nemico, piuttosto che una ricchezza. Ecco perché san Filippo Neri associa proprio a questa chiesa – la sesta tappa del pellegrinaggio alle sette chiese – il vizio dell’Invidia contrapposto al dono dell’Intelletto. Intus-legere è “leggere dentro” la realtà, vedere tutto con il filtro della carità fraterna, avendo sempre davanti agli occhi la Croce, perché è Cristo il Giusto che ha donato tutto.

Lorenzo era incaricato di amministrare i beni della Chiesa e di distribuire le elemosine. Diverse fonti ci hanno tramandato la sua vicenda: la Passio Polychronii, opere di Ambrogio e Agostino, confluite poi ne La Legenda Aurea di Jacopo da Varazze: narra che Valeriano voleva appropriarsi di questi beni, ma che il diacono vendette tutto per dare il ricavato ai poveri. Allo scadere di tre giorni si presentò con poveri, orfani, vedove, ciechi e storpi dichiarando: «Ecco, questi sono i tesori della Chiesa».

Proseguendo nella lettura, troviamo san Paolo, santo Stefano e sant’Ippolito. I simboli sono quelli del martirio (dal greco martyría, testimonianza). Come san Lorenzo, anche il protomartire ha tra le mani un libro aperto: Adesit anima mea – A te si stringe l’anima mia, dal Salmo 63, il canto del desiderio, della sete di Dio. La sofferenza, il sangue del sacrificio, si trasformano in intima unione con Cristo. E Paolo, che aveva raccolto i mantelli dei persecutori di Stefano, qui lo precede. Anche la sua conversione è un frutto di questo sangue versato. Dei lapidatori si legge che digrignavano i denti contro Stefano. Ma si scagliano contro di lui per quello che gli è dato di vedere e che non vedono: un uomo, Cristo, proprio l’uomo che hanno messo a morte, alla destra di Dio.

Le finestre qui lasciavano vedere cieli aperti, facendo fare ai fedeli la stessa esperienza di Stefano. Stefano muore come Cristo, perdonando. Lorenzo muore sulla graticola, invitando ironicamente i suoi persecutori a voltarlo dall’altra parte perché fosse ben cotto e a mangiare di lui. La scritta su fondo azzurro in corrispondenza dell’arco ricorda il suo martirio tra le fiamme, «… ora giustamente doni la veneranda luce al tuo tempio». È la testimonianza che apre il varco alla Luce che è Cristo. Una Luce che permette di guardare. Ai due estremi dell’arco troviamo due città: Gerusalemme, il luogo della Passione, e Betlemme, la città dell’Incarnazione. Sono cinte di pietre preziose come nella Gerusalemme Celeste (Ap 21), e le stesse gemme incorniciano anche le finestre. Nella liturgia entriamo in questa città nuova, quadrata, che riceviamo in dono dall’alto, e siamo portati a compimento dall’Agnello che sta nel mezzo, sull’altare. Il ciborio sta nel mezzo del presbiterio, ed è stato realizzato dai Cosmati nel 1148.

Le colonne di porfido rosso sangue definiscono una porzione di spazio quadrato e reggono una copertura in marmo bianco composta di tre volumi sovrapposti, di cui due ottagonali, che sembrano smaterializzarsi. Bianco e rosso, acqua e sangue del costato di Cristo, sono i colori dei sacramenti del Battesimo e dell’Eucaristia, i colori dell’Agnello. Il ciborio è proprio in corrispondenza della cripta, del sangue versato da questi primi cristiani. Il pavimento cosmatesco ci fa pensare al cammino dell’uomo, al nostro pellegrinaggio sulla terra. Possiamo seguire la logica del vedere-contro che possiede ed uccide, o quella del dono, della carità fraterna, che ci fa guardare all’altro come a una finestra preziosa che apre sul cielo.