Sì, tornare
Ulisse e la nostalgia canaglia
«Narrami, o Musa, l’uomo dall’agile mente
che a lungo andò vagando, poi che cadde Troia,
la forte città, e di molte genti vide le terre
e conobbe la natura dell’anima, e molti dolori
patì nel suo cuore lungo le vie del mare».
Tra gli incipit immortali (qui nella traduzione di Salvatore Quasimodo del 1945) quello dell’Odissea conquista a buon diritto il podio. Ulisse, e con lui il suo decennale girovagare per tornare a casa, è un personaggio così simbolico che letteratura, poesia, musica, cinema se ne sono impossessati da sempre, in una rielaborazione continuamente attuale. Tra i tanti, e rimanendo in Italia: Umberto Saba, Cesare Pavese, Paolo Rossi, Moni Ovadia, Roberto Vecchioni, Francesco Guccini, Vinicio Capossela.
Del resto, «L’Odissea è la prima fiction a episodi… Il montaggio avviene nella testa dello spettatore che può conoscere o ignorare gli episodi precedenti… è un arco che scavalca le epoche, è classicità e al tempo stesso modernità, inventa il flashback tremila anni prima del cinema americano, cala Odisseo all’Inferno duemila anni prima di Dante»[1].
È facile, quasi scontato celebrare la retorica del nóstos come il combinato disposto di più sentimenti. Riassunto non esaustivo: ritorno fisico ed emotivo, laddove il nóstos non è solo un viaggio geografico, ma un ritorno a un luogo, a una famiglia e a un’identità perduta; ritorno come viaggio che è esperienza di vita, un’esperienza che trasforma e fa tornare più saggi e consapevoli; nostalgia, termine che nasce dall’unione di nóstos con àlgos, il dolore, ovvero il desiderio doloroso di ricongiungersi con la famiglia lontana.
«Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare».
Itaca (1911 – Konstantinos Kavafis)
Itaca come la speranza che non delude. Ma, fuor di poesia, perché Ulisse torna? Chi glielo fa fare? Ha dimostrato di essere il più astuto, il più intelligente, il più scaltro degli eroi greci. Parte da Troia, reduce stanco, ma fiducioso, con i suoi soldati che via via sono sempre meno – «lottando per tornare in patria coi compagni, che per loro follia (come simili a fanciulli!), non poté sottrarre alla morte» –, pedine di un disegno più grande in un gioco governato dagli dei, da cui uno solo potrà uscire vincitore e vivo. Davvero c’è qualcuno che pensa che Squid Game sia originale?
E poi gli piace l’avventura, la scoperta, l’andare a esplorare mondi nuovi. Perché dovrebbe tornare a un’isoletta piccola pietrosa dove è sì il re, ma è re di poco, quasi nulla? Un’isola di capre e maiali e poco altro. Perché dovrebbe tornare quando, secondo i moderni parametri di misurazione del successo, ha la possibilità di vivere con le donne più belle del suo tempo e i loro doni? Circe, dea e maga; Calipso, baciata dall’immortalità; Nausicaa, la figlia del re dei Feaci, che porterebbe in dote anche un regno grande, ricco, fiorente. Perché deve tornare a casa? Da cui, oltretutto, fuggirà nuovamente (e lo sa, perché glielo ha detto Tiresia). Non a caso Dante, che per primo ne fa l’archetipo dell’ingegno umano e dello spirito d’avventura, del voler continuamente superare paure e orizzonti predefiniti, pone Ulisse all’Inferno, dove sta espiando i tanti consigli fraudolenti dati in vita e l’ambizione di voler oltrepassare ogni limite. Perché non c’è solo il famoso fraseggio del «fatti non foste», ma anche la totale e perentoria autonomia, l’autodeterminazione assoluta, l’hybris di chi non sa fermarsi: «Né dolcezza di figlio, né la pietà / del vecchio padre, né ’l debito amore / lo qual dovea Penelope far lieta […] ma misi me per l’alto mare aperto» (Inferno, canto XXVI, vv. 95-100). Ulisse rivendica con fierezza la sua decisione: misi me, mi sono messo da solo. Ulisse non temeva la morte, temeva di non vivere.
Ed è qui che si vede la differenza con quella che sarà la visione cristiana, ripercorsa da sant’Agostino: «È come se uno vedesse da lontano la patria, e ci fosse di mezzo il mare: egli vede dove arrivare, ma non ha come arrivarvi. Così è di noi, che vogliamo giungere a quella stabilità dove ciò che è, perché esso solo è sempre così com’è. E anche se già scorgiamo la meta da raggiungere, tuttavia c’è di mezzo il mare di questo secolo. Ed è già qualcosa conoscere la meta, poiché molti neppure riescono a vedere dove debbono andare. Ora, affinché avessimo anche il mezzo per andare, è venuto di là colui al quale noi si voleva andare. E che ha fatto? Ci ha procurato il legno con cui attraversare il mare. Nessuno, infatti, può attraversare il mare di questo secolo, se non è portato dalla croce di Cristo»[2].
Ma Ulisse non torna soltanto a Itaca, Ulisse torna anche nel mondo dei vivi dopo essere sceso nel mondo dei morti. Un viaggio cui pochissimi sono ammessi; ancor meno sono quelli che hanno il privilegio di poter tornare indietro a raccontarlo. Proprio nell’Ade, l’eroe ha un autentico momento di smarrimento e di rimpianto, di rimorso. Gli appare la madre Anticlea, morta in sua assenza non di malattia o di ferite, ma di struggimento per quel figlio perduto: «la brama di te, l’affanno per te, l’accorato amor di te, la mia vita distrussero, o nobile Ulisse». Eppure, quando lui, commosso, si slancia per abbracciarla, diventa evidente che quel che si è perso è destinato a non essere recuperato: inutilmente per tre volte cerca di cingerla tra le braccia, e per tre volte il fantasma della madre è evanescente come l’aria: «e tre dalle mie mani svolò, come un’ombra od un sogno». La lontananza ha un prezzo, l’assenza ha un costo, la brama di avventure non è senza conseguenze per nessuno. E viene in mente Dino Buzzati, con il racconto dei giorni perduti…
Forse, a un certo punto, Ulisse torna a casa perché si sente invecchiato. E in vecchiaia la nostalgia e il rimpianto si fanno più acuti. Vuole tornare a vedere se c’è ancora qualcuno che lo aspetta, che si ricorda di lui, se è tutto come lo ha lasciato.
«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti», scrive Cesare Pavese[3].
«La casa sul confine dei ricordi / la stessa sempre, come tu la sai / e tu ricerchi là le tue radici / se vuoi capire l’anima che hai… E te li senti dentro quei legami / i riti antichi e i miti del passato / e te li senti dentro come mani», chiosa Francesco Guccini[4].
Si torna per sé o per gli altri? In ogni caso, il ritorno non è dolce, né facile. Se ritornare a casa è anche un ritorno alle origini, a quel che si era, il problema è che chi torna non è più lo stesso uomo che era partito e il tuo paese raramente è rimasto immutato. Anche Ulisse adesso è un’altra persona.
Già allo sbarco il timore lo assale: come accertarsi di essere benvenuto? Serve un nuovo travestimento, una nuova identità, Mattia Pascal al contrario, per vedere di nascosto l’effetto che fa. «Chi mi è fedele?» si chiede, come un personaggio shakespeariano. E la risposta gliela danno gli umili, gli anziani, gli autentici depositari della memoria: il pastore Eumeo, il cane Argo, la nutrice Euriclea. Perché ogni ritorno, per essere tale, ha bisogno di qualcuno che si ricordi – e ti ricordi – che sì, tu appartieni proprio a questo posto. E che ti ascolti quando racconti, come si fa ai bar del paese, quegli episodi che ti hanno visto protagonista in quel lungo viaggio che è la vita, in cui ti sei distinto per furbizia, destrezza, sagacia, e l’avversario si fa più grande e più cattivo a ogni rinnovato e minuzioso resoconto.
Cosa importa se i racconti di Ulisse sono veri o no, lui è un grande narratore di storie ed è tornato a casa. E, millenni prima, dà ragione a Gabriel García Márquez: «La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla».
[1] S. Maifredi, regista, in Odissea, racconto mediterraneo, Teatro ligure.
[2] Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, Città Nuova, Roma 2005, 95-96.
[3] La luna e i falò, 1950.
[4] Radici, 1972.