Discernimento: un orizzonte e tre movimenti fondamentali
“La questione” posta dal prossimo Sinodo
Ritengo che occorra percepire il messaggio sotteso al tema del Sinodo. Non si parlerà – come nei sinodi più recenti – dell’Eucaristia o della Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, e nemmeno dell’evangelizzazione o delle vocazioni paradigmatiche all’interno del popolo di Dio (presbiteri, laici, consacrati). Scegliere di parlare dei giovani vuol dire parlare del futuro, della sfida vitale per la Chiesa di trasmettere la fede e accompagnare le persone a farne il criterio fondante e ispirativo delle scelte di vita.(abstract)
La Chiesa si sta dunque interrogando su qualcosa di decisivo. Potremmo dire – prendendo a prestito il titolo della famosa lettera pastorale del card. Suhard, arcivescovo di Parigi – Essor ou agonie de l’Église? E cioè: siamo di fronte all’agonia della Chiesa o all’alba di una nuova primavera ecclesiale? In effetti la capacità di trasmettere la fede non è una questione, ma “la” questione decisiva: siamo in grado di trasmettere la fede alle nuove generazioni? E il segno di una fede autentica e matura non è forse la capacità di scelte di vita evangelica, di profezia cristiana?
Carenza di educatori e formatori?
La sintesi delle risposte ai questionari in preparazione al Sinodo presentata dalla Conferenza Episcopale Italiana, riporta alcuni dati che da soli mostrano quanto sia urgente la sfida e grande la posta in gioco. Nel nostro Paese, infatti, le nascite sono al minimo storico, i matrimoni sempre meno numerosi e si compiono ad un’età sempre più avanzata – 35 anni gli uomini, 32 le donne (si parla di primo matrimonio che sia civile o religioso). Sempre meno donne diventano madri. I giovani disoccupati dai 15 ai 29 anni sono 1.082.000, quasi il 12%. Circa il 24,3 % – ossia 2.220.000 giovani – i NEET, cioè giovani che non lavorano, non studiano, né fanno corsi di formazione. E in quella stessa sintesi delle risposte al questionario della CEI si afferma esplicitamente: «Un dato che emerge è la carenza di educatori e di formatori che si impegnino non solo nella pastorale giovanile, ma con competenza nella direzione spirituale». A questo grido d’allarme il nostro seminario vuole dare una risposta concreta e qualificata, convinti della preziosità e della insostituibilità di educatori e formatori che, impegnandosi con competenza nella direzione spirituale, siano in grado di accompagnare la crescita nella fede delle nuove generazioni fino alle scelte di vita, da compiersi con quella chiarezza e serenità di cui parlava il Card. Martini.
Fa piacere anzi vedere segnalata in quella stessa sintesi questo nostro seminario annuale, espressione di una concreta attenzione ai giovani, alla loro crescita nella fede e alle loro scelte di vita, per una Chiesa che non si sottrae alla sfida.
“La vostra carità cresca in conoscenza e nel sentire per discernere il meglio” (Fil 1,9-10)
Nel seminario, l’attenzione è sul tema del discernimento e alle sue dinamiche costitutive.
C’è un testo dell’apostolo Paolo che rimarca significativamente l’importanza del discernimento. Rivolgendosi ai cristiani della comunità di Filippi scrive: «Rendo grazie al mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi. (…) Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù. È giusto, del resto, che io provi questi sentimenti per tutti voi, perché vi porto nel cuore, (…) voi che con me siete tutti partecipi della grazia. Infatti Dio mi è testimone del vivo desiderio che nutro per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù. E perciò prego che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento, perché possiate distinguere ciò che è meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di quel frutto di giustizia che si ottiene per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio» (Fil 1,3-11).
Un augurio, quello dell’apostolo, che si fa preghiera perché noi e i giovani che accompagniamo non ci limitiamo a un cristianesimo mediocre ma teniamo sempre viva la tensione verso ciò che è meglio. Ma che cosa fa davvero la differenza e fa sbocciare il profumo della profezia? Per san Paolo – ed è questo il dono che chiede con tutto il cuore a Dio – ciò che fa la differenza è una carità sempre più ricca di conoscenza e – letteralmente – di “quel sentire” che permette di discernere sempre il meglio (cf Fil 1,9-10). Il dono dunque di un “sentire” secondo Cristo, sintonizzati con la sua carità: questa è la grande scommessa. L’attenzione a ciò che sentiamo, che si muove dentro di noi, per sviluppare una nuova sensibilità spirituale, fare nostro lo stesso “sentire di Cristo”, che poco alla volta dà forma alla nostra vita, perché ci aiuta a riconoscere il vero bene per noi e ciò che fa fiorire la nostra vita.
Discernimento: dinamiche di vita per accogliere una promessa
Ritroviamo qui il senso delle consegne che caratterizzano il seminario, innanzitutto l’orizzonte posto dalla domanda fondamentale «cosa devo fare per avere la vita eterna?» e il gesto di Gesù che «fissatolo lo amò» (Mc 10,17.21). Noi non possiamo accompagnare nessuno se non abbiamo mai incontrato questo sguardo che abbraccia tutta la nostra vita così com’è e vi attesta una promessa. Quale promessa? Uno potrebbe dire: “il centuplo…” per chi ha “lasciato tutto…” (Mc 10,28-30). Ma la promessa innanzitutto è quella che Gesù lascia intravedere quando – dicendo “Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri” (Mc 10,21) – annuncia la rivoluzione del Regno di Dio, di cui i primi beneficiari sono quelli che non contano niente. In effetti la direzione spirituale nasce proprio dal desiderio che ciascuno di noi ritrovi e si senta a servizio di questo sguardo e di questa promessa verso tutti, a cominciare dai poveri.
Da qui il senso programmatico dei verbi proposti nel documento in preparazione al Sinodo, individuati come dinamiche costitutive del discernimento. Innanzitutto “scendi nel cuore”. Non possiamo acquisire questa capacità di sentire la voce dello Spirito, che ci muove a riconoscere la presenza e la volontà del Signore, senza scendere nel cuore, come un movimento da vivere costantemente, come uno stile della nostra vita.
“Usa la testa”, nel senso che siamo invitati non solo a fare attenzione a ciò che si muove dentro di noi, ci piaccia o non ci piaccia, ci esalti o ci inquieti, ma a interrogarci: «Signore, in quello che provo dentro di me, cosa mi stai dicendo? Dove mi vuoi condurre?». È importante imparare a leggere quello che si muove dentro, Dio ci parla con tutto, anche con i sentimenti e i desideri che ci fanno arrossire, anzi spesso è proprio con ciò che noi moralmente giudicheremmo impulsi o moti negativi del cuore che il Signore ci parla, non nel senso che dobbiamo assecondarli, ma che questi moti dell’anima ci permettono di cogliere come ci stiamo situando nella concretezza della nostra vita… Usare la testa è mettersi a confronto con la Parola di Dio, ma lasciandola risuonare davvero dentro di noi.
E poi decidersi: “abita la vita” alla maniera di Gesù, riconoscendo che la vocazione personale ha una sua inconfondibile specificità, ma per riconoscerla e viverla occorre che la dinamica vocazionale accompagni tutta l’esistenza.
Dio c’è e anch’io sono un salvato
Nello sviluppo di questo sentire che abilita al discernimento, due cose diventano particolarmente importanti da chiedere al Signore. La prima è la grazia di sentire che Dio c’è ed è Dio. Se ci mettiamo accanto a un giovane è perché crediamo che Dio c’è e la sua presenza è decisiva. Il rischio contemporaneo è di vivere una vita cristiana in cui Dio non significa più niente, e quando anche rimane un vago riferimento alla figura di Gesù Cristo, la sua persona è però svuotata della sua divinità e quindi non gioca alcun ruolo decisivo. La stessa vita della Chiesa finisce per essere vissuta in una chiave puramente umana.
Cambia tutto, invece, se credo che Dio c’è, che è già all’opera nella vita delle persone e chiede di mettersi accanto, per testimoniare la sua presenza fedele e il suo sguardo carico di una promessa di vita piena.
L’altro dono da chiedere, come fondamentale per un autentico sentire spirituale che apre al discernimento, è il riconoscersi e sentirsi dei salvati, dei perdonati, dei graziati. Solo così ci si può accostare in maniera autentica agli altri, senza pretese e senza giudizi, come chi ha incontrato Cristo e in Lui si sente gratuitamente salvato, redento, graziato.
Il servizio di accompagnamento come “uscita da sé”
Papa Francesco ricorre spesso, soprattutto per i giovani, all’immagine di Abramo: “esci dalla tua terra e va’” (cf Gen 12,1): uscire da se stessi per aprirsi al disegno di Dio, alla sua promessa per i poveri, a una vera fioritura e creatività. Anche il nostro servizio di accompagnamento può essere visto come un luogo privilegiato in cui il Signore ci chiama ad uscire, a convertirci, a maturarci.
Ecco allora le persone che incontro: proprio perché c’è Gesù, c’è una vocazione per tutti, anzi Lui è la vocazione inscritta in noi. La nostra vita si manifesta quindi costitutivamente vocazionale: qualcuno ci interpella, ci invita a metterla in gioco dentro un disegno più grande.
Se ho questa certezza e faccio mio questo sguardo del Signore sulle persone che incontro, allora non c’è nessuno che io possa considerare irrimediabilmente fallito, nessuno per cui possa pensare che adesso Dio nella sua vita non agisca più, che per lui non ci sia più alcuna promessa.
Per questo “scendi nel cuore”: quando ascolti una persona domandati innanzi tutto cosa si sta muovendo dentro di te, perché questa persona possa incontrare Gesù nella sua storia e non essere imprigionata nella tua storia. Lo “scendere” significa fare attenzione a cosa si sta provando accompagnando un fratello, per poter accogliere veramente la storia dell’altro nella sua originalità e farla incontrare con la storia di Gesù.
Poi l’altro movimento “usa la testa”: è fondamentale che nel colloquio, nel dialogo personale, pur con tutta l’attenzione all’umano della persona accompagnata, si respiri questo senso della presenza del Signore che sta agendo, aiutando a riconoscerne la presenza e gli appelli.
Poi bisogna decidersi: “abita la vita”. “Abita la vita” è creare quel clima di libertà senza il quale non possono nascere scelte davvero autentiche. I giovani di oggi si chiudono se avvertono che chi li accompagna non custodisce e non promuove questo clima di profonda libertà, al contrario si aprono con coraggio se sono accompagnati a vedere il Signore che è all’opera nella loro vita e ad aprirsi alla creatività che il Signore ha pensato per loro. Atteggiamenti direttivi e ricatti affettivi finirebbero per ingabbiarli, e questo non li farebbe crescere, ma forse alimenterebbe solo tendenze immature di delega delle proprie scelte.
Ma questo respiro di libertà non va dato per scontato: «Signore, io abito la vita davvero con la tua profezia? O in fondo vivo come chi ha smesso di prestare ascolto ai tuoi appelli il giorno della professione o dell’ordinazione?». E’ indubbio che tutto ciò lo si respira immediatamente e incide nel rapporto di accompagnamento.
Nella catena dei testimoni
Ma se ci è chiesto di accompagnare altri, è perché sul nostro cammino abbiamo incontrato qualcuno che ci ha fatto sperimentare lo sguardo pieno di promessa di Gesù, ci ha aiutato a leggerci dentro, a sentire questo respiro di libertà di Dio sulla nostra vita, ma anche il gusto di cominciare a mettersi in gioco. Ciascuno di noi è chiamato a fare memoria grata di questi incontri, di tutti quei volti che hanno segnato la sua vita e a chiedere la carità piena di conoscenza e di quel sentire per poter discernere sempre il meglio ed essere a nostra volta capaci di passare efficacemente il testimone nella trasmissione della fede.