N.05
Settembre/Ottobre 1993

Ragazzi, cultura , valori, oggi

Cultura e valori sono aspetto intrinseco della natura umana. Partendo dal momento in cui la mente si pone il problema delle relazioni che intercorrono tra il proprio esistere e il contesto in cui l’esistenza si svolge; tra il possedere delle capacità e il realizzare delle opere, il riferimento a un ordine generale è implicito e necessario. Tale momento accade per ciascun individuo nel passaggio dalla adolescenza allo stato di giovane adulto.

Già durante la seconda infanzia la mente è protesa a guardare anche “fuori di casa”; cioè ogni bambino, intelligente e sufficientemente stimolato da rapporti diversificati con la realtà, pone domande attente sul funzionamento della vita comune e sulle regole che la governano.

La differenza fondamentale con la fase successiva della sua evoluzione, cioè la adolescenza, sta nel fatto che egli rivolge le domande significative agli adulti e non ancora a se stesso.

Il dialogo sui “perchè” e sui “come” della vita è quindi dialogo con gli altri; non è ancora dibattito interiore e non può per il momento sfociare in valutazioni proprie e in scelte soggettive. Il ragazzino accoglie e fa suo ciò che lo convince, per fiducia nell’altro, più che per ragionamento.

Questo significa che il rapporto adulto-bambino negli anni della seconda infanzia costruisce il tessuto fondante i riferimenti di valore e di cultura.

Nel corso di questi particolari anni, il bambino conosce come la propria famiglia, e gli altri contesti educativi e culturali cui i genitori lo affidano, descrivono e spiegano la realtà, e contemporaneamente come la vivono.

Sulle risposte implicite ed esplicitate che la propria “curiosità” e l’intrinseco bisogno di “orientamento” ricevono, la piccola persona costruisce la sua prima immagine di mondo organizzato e acquisisce dei criteri di riconoscimento del “bene” e del “male”.

La cultura psicologica, che permea la nostra civiltà, ha reso i genitori, che vogliano naturalmente essere tali, sensibili e attenti alla importanza del loro rapporto col bambino nella prima infanzia, quale fondamento della sua personalità.

Purtroppo, avendo la psicoanalisi liquidato la seconda infanzia col termine di “fase di latenza” e occupandosi la psicologia cognitiva principalmente delle comunicazioni e degli atteggiamenti di cura primaria, il significato relazionale genitore-figlio nel corso della seconda infanzia viene sottovalutato.

Quasi che la scuola ed altre agenzie educative fossero in questa età migliori interlocutori culturali dei genitori. E, ancora più insensatamente, lasciando spesso che le risposte ai grandi quesiti espressi dal bambino, intensamente pensante in questa età, vengano erogate dal miscelatore culturale televisivo.

Si attuano così due gravi errori: quello della radicale scissione tra “conoscenza” ed “esperienza” e quello di spostare il valore del riferimento culturale sui “contenuti” invece che sul dibattito inesauribile “soggettività-oggettività”, che costruisce, proprio col restare aperto e continuamente riformulato, la capacità soggettiva di regolazione sociale.

Questo delegare ad altri, ritenuti esperti, è sostenuto da un diffuso sentimento di inadeguatezza genitoriale di fronte alla complessità sociale ed è fenomeno tipico nelle attuali società evolute. Comprensibile per due motivi: la varietà ed eterogeneità di conoscenze a disposizione fanno sentire il singolo individuo “incompetente” su tanti aspetti della cultura; la competitività sociale, che a suo tempo era investita solo su spartizioni e difese materiali, costituendo invece la cultura un contenitore unificante, è oggi ampiamente sviluppata anche in guerre ideologiche e di primati scientifici e tecnologici, poi rapidamente demoliti da altri primati.

Il genitore che non spiega al figlio di dieci anni il perché delle proprie scelte, il rapporto imprescindibile fra lo stile di vita assunto e le mete cui fa riferimento; che non esplicita il dilemma delle necessarie esclusioni e la sofferenza della misura di fallimento e di delusione inevitabili ad ogni realizzazione, spesso lo fa per non condizionarlo con la propria soggettività.

Oppure pensando che nel precoce confronto con le eterogeneità che caratterizzano l’attualità sociale egli possa poi mantenersi equidistante da ogni possibile fede. Per evitargli così la “crisi” adolescenziale; o comunque per evitare di venire individuati, nel momento della crisi, come il “nemico” da annientare.

Una corretta riflessione ci porta invece a capire che il processo di formazione del rapporto individuo-valori passa proprio dalla distruttività della crisi. Il pensiero adolescente si trasforma altrettanto radicalmente quanto il corpo adolescente. Perché comincia a funzionare la capacità di produrre astrazioni.

Il bambino più grande usa e riconosce le astrazioni che gli vengono insegnate dall’adulto, ma non possiede ancora la padronanza del processo mentale logico-astratto. La naturalità del rapporto mente-valori è intrinseca alla capacità di trasformare l’insieme delle esperienze concrete e della cultura acquisita in oggettivazioni mentali che organizzano significati e fini della vita stessa.

L’adolescente ha quindi bisogno di partire da un mondo interno ordinato, familiare, organizzato dagli altri in cui crede, secondo una precisa cultura e regole riconoscibili, proprio per potersi cimentare a demolirlo, attraverso l’esercizio della verifica critica. Questo non per improvviso esplodere del piacere distruttivo, ma perché alla luce della critica nessuna fiducia può più essere aprioristica, tanto meno la fiducia in se stesso, che il ragazzo tenta faticosamente di conquistare.

Ha bisogno di affinare le proprietà dialettiche nella contrapposizione del confutare, ma anche del venire confutato, perché si sviluppi in lui la ragione delle scelte, più che le scelte in quanto tali. Ma mentre opera questa rivoluzione mentale, che trasformerà il suo pensare in pensiero produttivo invece che solo ripetitivo e costruttivo; e che sposterà il confronto dialettico inter-personale anche in dialogo interiore, fra aspetti alternativi dello stesso Sé, l’adolescente ha bisogno, per non perdersi, anche di una referenza di sicurezza. Una referenza emozionale, non razionale, che verrebbe coinvolta dal processo di smantellamento critico o di contrapposizione.

Un’immagine relazionale: quella del rapporto tra la vita familiare e la vita sociale. In altre parole il ragazzo ha bisogno, per mantenere un filo conduttore vitale non spezzato dalle crisi soggettive, di vivere la sicurezza che le scelte dei suoi genitori, in termini di cultura e di valori, sono coerenti con i loro affetti e il loro stile di vita. Non importa invece che lo siano o meno con lo stile sociale emergente.

Questo gli permetterà di capire, man mano nel percorso della ricerca personale, che credenze, scelte, aspirazioni della singola persona o del particolare gruppo sono sicuramente limitate, confutabili, in alternativa a molte altre possibili. Che sono validi riferimenti non in base alla direzione intrapresa, altrimenti il destino umano sarebbe profondamente segnato dalla ingiustizia, ma per avervi investito la propria coscienza di realtà e l’impegno di realizzazione del proprio contributo alla sua evoluzione.

Potrebbe anche sembrarci che la maturazione psicologica della persona si esprima così in un eclettismo di scelte valoriali, affidate esclusivamente al raziocinio individuale: alla capacità di ciascuno nell’organizzare concezioni astratte e costrutti ideali, perdendosi l’universalità del “bene” e del “male”.

Per capire che proprio le relazioni familiari salvaguardano da questo e che entro la nostra attuale società sono più che mai necessarie, dobbiamo aggiungere un’altra riflessione.

In ogni società più contenuta della nostra, dove confini geografici corrispondevano a una chiara definizione di “dentro” e di “fuori” ben diversificati, il dentro è sempre stato assunto come “vicino” e come “appartenente” da ogni membro che vi vivesse; e il fuori come “lontano” ed “estraneo”. Questo dava a cultura e valori socialmente condivisi forza unificante e potere regolatore sovra-individuale. Stabiliva inoltre un legame sostanziale tra le opere comuni e l’impegno di ciascuno. Non occorreva che si dialogasse per capire chi si fosse: bastava guardarsi intorno e imparare a leggere gli indicatori forniti dalla propria lingua.

Mai la civiltà umana ha goduto di comunicazioni estese e polivalenti quali noi ora possediamo: ci possiamo potenzialmente ora sentire cittadini di un universo di relative estraneità, il che è contraddittorio e profondamente ci confonde.

L’immagine televisiva per esempio porta dentro la nostra stessa casa un conflitto, un massacro, lontanissimo per ciò che concerne nostre possibilità di operarne una modificazione, ma emotivamente reso prossimo da tecniche di influenzamento, sapientemente manipolate. Mentre bastano ancora alcuni muri e la reciproca diffidenza a tenere totalmente fuori dal nostro mondo la vita e il dolore di chi sta nella casa accanto.

Per questo i ragazzi trovano talmente tante risposte ai loro perché, così eterogenee e reciprocamente contraddittorie, che i sistemi critici e ragionativi individuali non sono più in grado di operare delle selezioni attendibili e dei costrutti di qualche unitarietà e coerenza, cui potere fare affidamento per regolare la propria vita sufficientemente convinti. E la cultura comune non è più comune abbastanza per offrire riferimenti di sicurezza.

In questa allarmante e insieme affascinante miscellanea socioculturale, che non lascia per ora intravedere se sfocerà in una universalità armonica e condivisa da tutti i popoli, o rientrerà in una ripartizione di spazi diversificati e ciascuno riconoscibile come diverso, chi si fa adulto ora può ugualmente vivere una sicurezza di vicinanza, riconoscibilità e continuità se è membro di una famiglia, che si riconosca pienamente tale e dove il dialogo fra ogni membro costruisca il tessuto quotidiano.

E dialogo non significa tante o tanto ricercate parole, ma confidenza basata sul riconoscersi reciprocamente espressione e garanti di una “storia” di valori trasformati in esperienza e di una cultura, che nel passaggio di revisione critica che ogni generazione rinnova, scarta l’ormai inutile o superato per riproporre ciò che resta nel tempo essenziale.