Quale cultura è vocazionale? Una ricerca biblica
La vocazione, ogni vocazione, nasce in un preciso momento storico, dentro una determinata cornice sociale, in un determinato frangente culturale. È quanto emerge anche dalla Bibbia, se questa è letta con un occhio critico, soprattutto con il desiderio di ricuperare e quindi valorizzare l’ambiente vitale dentro il quale la storia si snoda, le persone si relazionano e gli eventi s’intrecciano.
Questo metodo si raccomanda da sé: anche senza appesantire la lettura biblica con orpelli critici, si può arrivare ad un saporoso e gratificante incontro con Colui che parla attraverso la testimonianza di quanti lo hanno incontrato personalmente, storicamente.
Una domanda preliminare
Quale cultura è vocazionale? Pur nella sua genericità una domanda come questa suscita un forte interesse. Non solo in un tempo di crisi delle vocazioni, com’è il nostro, ma in sé e per sé: vale sempre la pena di riflettere sulle condizioni necessarie e indispensabili perché una persona si apra alla chiamata di Dio, perché una comunità coltivi e favorisca il dono delle diverse e complementari vocazioni.
Temo però che l’interrogativo si presti a non pochi equivoci. Soprattutto sono dell’avviso che esso non debba essere analizzato astrattamente. Occorre invece partire da un’attenta lettura della situazione storica e vedere come Dio entra in essa per incontrarvi l’uomo, la persona umana individua; per parlarle direttamente, per proporle un cammino di conversione, per offrirle una missione. La Bibbia ci educa a questo: chi ha solo un po’ di familiarità con essa sa che la vocazione dei grandi personaggi biblici nasce e cresce in un preciso momento storico, il quale pertanto va analizzato in tutto il suo spessore, con tutte le sue problematiche, assumendo anche quella distanza critica che costituisce un criterio ermeneutico ineludibile.
Lo scopo della presente ricerca consiste appunto nel rivisitare alcune pagine dell’antico Testamento e nel far emergere non solo l’intimo legame tra cultura del tempo e vocazioni nascenti, ma anche la profonda incidenza della cultura del tempo nel determinare, nel consolidare e nell’orientare le vocazioni. Avremo pure modo di focalizzare il termine “cultura” per coglierne non solo lo spessore esistenziale e antropologico, ma anche teologico. Considereremo una vocazione femminile, una maschile ed una collettiva.
Debora, la profetessa
Nel difficile periodo che seguì all’insediamento del popolo di Dio nella terra promessa, sorgono alcuni “giudici”, il cui compito è quello di “giudicare”, cioè governare. Sono uomini e donne scelti e inviati da Dio per liberare alcune tribù d’Israele da situazioni storiche di pericolo e d’oppressione (Gdc 4-5).
Una di questi è Debora, la cui personalità si staglia nitida e forte al di sopra di tutte le altre. Essa vive in tempi calamitosi: non solo per l’oppressione del re cananeo Iabin, che regnava su Azor, ma anche per l’infedeltà del suo popolo verso Jahvè. Israele, infatti, si mise di nuovo a fare il male, cioè ad andare contro la volontà del Signore. Tuttavia, stretti nella morsa del nemico, “gli Israeliti invocarono l’aiuto del Signore”. È in quest’alternanza di dolore e di speranza, d’infedeltà e di fiducia, d’oppressione e d’anelito alla libertà che si pone la vocazione e la missione di Debora, coadiuvata da un’altra donna, Giaele, la moglie di Eber il Kenita, che era alleato di Iabin, re di Azor.
Vi sono altre notizie che ci aiutano a cogliere la nequizia, o quanto meno la delicatezza dei tempi: da un lato il popolo è demotivato, anzi infiacchito: “nessuno, infatti, impugnava lo scudo e la lancia”; d’altro lato, – ed è ancor peggio – gli Israeliti si abbandonano al culto di idoli e pongono in essi la loro fiducia (5,8). Ma quello che conta di più e non deve essere dimenticato se non si vuole cadere in una “lettura” parziale e deviante dei tempi è il fatto che Jahvè, il Dio d’Israele, non abbandona il suo popolo ma lo richiama sempre alla fedeltà e alla comunione con sé, anche se questo comporta un periodo di prova e di oppressione. È qui che emerge la dimensione pedagogica degli interventi di Dio nella storia del suo popolo e dell’intera umanità: Dio mentre salva educa, anzi egli educa salvando.
E lo fa per mezzo di alcuni mediatori, nel nostro caso per mezzo di una, di due donne: Debora, la giudice-profetessa, e Giaele. È nelle loro mani (4,9) che il Signore metterà Sìsara, il nemico. È per mezzo di Giaele che Sìsara viene eliminato, e non dalle armi di Barak; anzi costui continuava ad inseguire Sìsara (4,22) quando questi era già stato ucciso da Giaele. È per mezzo di loro che il “Signore stroncò davanti a Israele la prepotenza di Iabin” (4,23), ma è soprattutto per mezzo di Debora che Jahvè si riappropria il suo popolo e lo stringe a sé in un rinnovato vincolo di amore. È quanto risulta dallo stupendo “canto di Debora” uno dei poemi più belli di tutta la Bibbia e una delle pagine più antiche della letteratura ebraica.
Per merito di Debora, i capi di Israele presero il comando e il popolo partì volontario (5,2). All’invito di Debora il popolo è accorso pronto a combattere (5,13): si apre così la strada verso la liberazione. A ragione Debora può essere acclamata “madre per Israele” (5,7).
Così, al tempo di Giaele (5,6-24), per mezzo di Debora, Dio libera il suo popolo dall’oppressione del nemico, ma soprattutto dal peccato dell’idolatria e dell’infedeltà all’alleanza; Dio si manifesta potente per mezzo di creature deboli; Dio rivela il suo stile paradossale ma efficace; Dio si rende presente in un mondo che lo considera assente.
Non vi è nessun tempo che debba essere considerato chiuso alla chiamata di Dio, proprio perché Dio è sempre aperto al ricupero delle situazioni storiche anche più difficili. Ogni tempo della storia umana è potenzialmente aperto alla “visita” di Dio-salvatore: per questo in ogni tempo può sorgere un uomo o una donna di Dio, un profeta o una profetessa, un padre o una madre per Israele. A Dio bastano anche solo strumenti poveri e deboli: rimane sempre Lui il protagonista. Il valore primo e insostituibile che emerge come fondamentale dalla vocazione-missione di Debora consiste nella piena e radicale disponibilità della creatura nei confronti del suo Signore: quando tale disponibilità s’incontra con la sapiente onnipotenza di Dio, allora scocca il momento della liberazione, è l’ora della salvezza.
Poi venne Elia: era come il fuoco
Così lo presenta Ben Sira, autore del libro dell’Ecclesiastico (48,1ss) e continua: “la sua parola bruciava come fiamma”. È un modo assai plastico per sintetizzare il significato della sua missione. Elia fu un profeta non-scrittore, chiamato da Dio per contestare l’empietà di Acab, allora re di Israele, e per riportare il suo popolo all’ascolto della sua parola. Le vicende relative alla missione profetica di Elia sono narrate nel primo libro dei Re (17-22) e all’inizio del secondo libro (1-2).
“Parti e và verso oriente… Elia ubbidì all’ordine del Signore. Andò a stare oltre il Giordano” (17,2-7): questa è la memoria essenziale della vocazione di Elia. D’ora innanzi egli deve sfidare l’ira di Acab e di Gezabele, moglie di Acab (capitoli 19 e 21), la loro miope invidia e la loro insaziabile avarizia. D’altro canto Elia deve contrastare i falsi profeti di Baal (capitolo 18) allo scopo di salvaguardare la vera religione, lo Jahvismo.
Degno di nota il fatto che, proprio per questi “scontri” Elia va soggetto a crisi terribili che lo portano sull’orlo della desolazione e della disperazione (19, lss): la paura lo assale, fugge per salvarsi la vita, ma è pronto a morire. “Signore – disse – non ne posso più! Toglimi la vita, perché non valgo più dei miei padri… Sono stato preso da un’ardente passione per te, quando ho visto che gli Israeliti hanno violato il tuo patto, hanno demolito i tuoi altari e hanno ucciso i tuoi profeti; sono rimasto solo io, ma cercano di togliermi la vita” (19,4.10.14). Ma è Dio stesso a confortarlo e a riconfermarlo nella sua missione: non solo gli procura pane e acqua, ma lo sollecita a camminare fino all’Oreb, il monte di Dio dove gli parla, ma anche gli mette accanto, come suo aiutante, Eliseo (1 Re 19; 2 Re 2) il quale continuerà con estrema fedeltà la missione del suo maestro.
Ai tempi di Elia la situazione socio-religiosa è pure quanto mai difficile: il re si è completamente allontanato da Dio e dalla sua Legge; i falsi profeti alzano la voce e trascinano verso l’idolatria; il popolo è in balia di pochi, furbi e prepotenti; dilaga l’empietà, l’ingiustizia e la corruzione. Ma Dio da questa situazione fa emergere un profeta grandioso: Elia, l’uomo di Dio per eccellenza, consumato dallo zelo per Jahvè e per la vera religione, colui che vive con umiltà e afferma con coraggio il primato assoluto di Dio, il difensore dei poveri e delle vedove (17,8-24), il difensore dei deboli contro i prepotenti (21,17-29), l’amico, il confidente del Signore (19,1-18). Con Elia e dopo Elia nasce e si consolida una scuola profetica autentica, che avrà nuovi sviluppi con i profeti-scrittori: Isaia, Geremia, Ezechiele, ecc.
La terra, ogni terra, se resa feconda da Dio, è sempre capace di germogliare: soprattutto quella “terra” che è il cuore dell’uomo, di ogni persona.
I valori autentici nascono in un cuore “bello e buono” (cfr. Lc 8,15) perché e quando in esso Dio pone il seme della verità, dal quale poi deriva la passione per la verità. È quello il campo nel quale coltivare i valori autentici: da esso, allora, nascono vocazioni genuine.
Isaia e i suoi discepoli
Ci si riferisce al periodo storico dell’esilio (587 a.C.) e alla situazione di estrema miseria venutasi a creare: Israele è senza re, senza terra, senza tempio (cfr. 2 Re 25); sradicato dal suo suolo, quello che fu “di Dio” sembra essere ora il popolo di nessuno: senza futuro e senza speranza. Non più amato ma dimenticato, non più difeso, ma abbandonato (cfr. Os 2,23-24; Rm 9,22-26).
In questa situazione, in seno al popolo esiliato – ma soprattutto verso la fine dell’esilio quando si prospetta abbastanza chiaramente la possibilità della liberazione – si manifestano diverse “ipotesi di lavoro”: da un lato Zorobabele propone di ritornare in patria per riconquistare la terra, per ricostruire il tempio, per riavere un re, per rifarsi un sistema socioreligioso alla pari degli altri popoli. È la proposta dei nostalgici, che si chiude sul passato, invece di aprirsi sul futuro.
Ma Isaia e i suoi discepoli – ci si riferisce qui alla seconda e terza parte del libro di Isaia (capitoli 42,60; 61-66) – si impegnano su vie nuove, per una soluzione nuova dell’eterno problema del male e della sofferenza. Non è sufficiente recuperare la sicurezza di un tempo, ma è necessario aprirsi sugli orizzonti di una storia universale, chiamati e sospinti a questo dallo stesso Signore che ha permesso una grande prova per il suo popolo perché esso fosse preparato e pronto per una missione nuova. Per questo compito, difficile ma necessario, Dio chiama non una persona, ma una comunità di persone: Isaia e i suoi discepoli. Essi costituiscono quel nucleo originario – personificato dalla figura profetica ed emblematica del “Servo sofferente di Jahvè” – dal quale si formerà e si svilupperà il nuovo Israele.
Ecco, in estrema sintesi, il loro messaggio, midollo ed essenza della nuova evangelizzazione alla quale sono chiamati: non più un Dio soltanto per Israele, ma Jahvè è il Dio di tutti i popoli; non più una terra solo per un popolo, ma tutta la terra è santa e perciò può essere dimora di Dio; non più una Legge solo per Israele, ma la conoscenza della volontà di Dio è offerta a tutti; non più una monarchia terrena ma il riconoscimento della suprema e universale supremazia dell’unico Dio; non più un culto solo per iniziati ma ogni anelito umano verso la Verità, la giustizia e l’amore è sacrificio gradito a Dio, ecc.
Conclusione
Riprendiamo ora la domanda iniziale: “Quale cultura è vocazionale?”. Alla luce della Bibbia possiamo dire che il termine “cultura” ha da essere considerato in modo complesso e dinamico. Cultura come situazione storica, come intreccio di valori (e disvalori) storicizzati, incarnati, personificati; situazione storica la quale, visitata da Dio, sprigiona l’appello vocazionale ad una persona o a un gruppo di persone, ne sollecita e determina la decisione e, infine, ne circoscrive la vocazione-missione.
Cultura come “luogo” o “campo” nel quale si incontrano e si confrontano l’iniziativa divina e la risposta umana, dentro la situazione storica; come l’ordito umano che si intreccia con la trama divina per formare il tessuto della storia della salvezza, in particolare di quel “brano” di storia che interessa un io umano con il tu divino e coinvolge un popolo.
Cultura come “momento” (Kairòs) nel quale il tempo dell’uomo si apre all’eternità di Dio e l’eterno Dio ac-con-discende (scende fino a noi per stare con noi) per intrecciare con me, con te, con tutti noi un dialogo di reciproca conoscenza e per vivere con me, con te, con tutti noi una comunione di reciproca beatitudine.
Così intesa la cultura non può non essere vocazionale.