“Ti ha dato tutto”, un valore nell’itinerario dell’iniziazione cristiana
Dall’“ingerenza” al “dono”
Dio non è mai meschino; la sua Rivelazione è graduale, ma totale. Dio non ha zone d’ombra, che non vuole manifestare all’uomo. Dio è la trasparenza assoluta, perché è Amore e l’Amore o si dona totalmente o non è Amore vero. L’uomo spesso gioca “a nascondino” con Dio e con i suoi simili: si mostra e si ritrae, si espone e si rintana in base all’interesse immediato. Dio invece è fedele all’Alleanza, anche quando l’uomo la tradisce. Dio non è “il ragioniere”, che sa fare i conti con esattezza matematica e con freddezza computerizzata. Dio ha un cuore di padre e di madre, desidera il massimo di bene possibile per il suo partner, l’uomo: ogni uomo e donna, di qualsiasi età e condizione. Oggi viviamo in una società che Marcuse ha definito la “società – fabbrica”, perché divenuta lo spazio dei rapporti interessati, nella quale si mira al profitto e si spengono gli spazi della creatività e della gratuità.
La fede cristiana è nettamente in contrasto con la cultura dominante odierna. Il premio Nobel per la chimica Monod diceva che “l’uomo è uno zingaro sperduto nell’immensità dell’universo glaciale e indifferente a lui”. E Carl Jung, discepolo di Freud, affermava che “la vita per molti è una malattia con una pessima prognosi”. La visione cristiana della vita personale e cosmica è invece improntata alla dimensione vocazionale. Non è il caso, il determinismo storico, il condizionamento a determinare il progetto di vita. La creazione continua e coinvolge la totalità dell’esistenza: è sempre un atto totalizzante. L’uomo è abituato al compromesso, alle mezze misure, all’opportunismo: Dio è capace di radicalità, di comunicazione globale, di dono di sé. La misura di Dio è l’essere senza misura nell’amare. Certo, il “tutto” di Dio non equivale all’accontentare l’uomo, ma è correlato alla “verità” della vita e del compimento della persona. Il “tutto” di Dio è ciò che consente alla persona di realizzarsi, non nella logica di un programma precostituito, ma nell’atmosfera di amore e di interesse che fa sentire alla persona la dimensione della figliolanza, cioè che Dio la desidera, la ama, gode della sua presenza. La psicologia riconosce che i ragazzi pluriaccontentati non hanno uno sviluppo normale della personalità: restano egocentrici, introversi, possessivi, narcisisti, incapaci di oblatività. Ma Dio non è così. Al “tutto” di Dio, che arriva sino alla Croce, deve corrispondere il “tutto” dell’uomo. La logica del “vivere in dono” si contrappone frontalmente alla concezione opposta dell’auto-soddisfazione. La vita dei ragazzi è stata spesso rappresentata con il “tempo delle mele”. Ma l’albero delle mele non si sottrae quando si avvicina la mano per raccogliere i suoi frutti. Se lo facesse, poco dopo questi cadrebbero a terra, inutilizzati.
Oggi, si preferisce “saltellare” piuttosto che “fare un passo”; si tende a “provare” più che ad “investire” energie per un progetto definitivo; si ama “fare esperienze” più che “scegliere” per sempre; si punta a “stare sulla soglia” piuttosto che entrare e compromettersi per sempre. Forse, questo impedisce di vivere la fede con gioia. Solo chi si concede tutto a Dio, ne sperimenta la pienezza.
Questo educa ad un atteggiamento di “meraviglia” e di “sorpresa” di fronte all’opera di Dio, sulla scia del Magnificat di Maria. Il “tutto di Dio” apre anche al “silenzio” meditativo, perché il frastuono ricorrente impedisce, attira solo a mete parziali e riduttive. Un altro atteggiamento è la “sintesi” di fronte alla frammentarietà in voga. Il cristiano è colui che tiene insieme i paradossi, vive l’“et-et” e non l’ “aut-aut”.
La fede porta alla “concelebrazione” tra Dio e l’uomo, la libertà e l’obbedienza, il progetto di Dio e la realizzazione dell’uomo, la fede e la vita ecc. Ancora: la visione cristiana della vita implica la propensione al bello, al positivo, al vero pur nel riconoscimento del male e del peccato. Purtroppo, è passata spesso l’identificazione di fede-tristezza più che il richiamo fede-risurrezione. È una stortura da correggere: la meta è la Pasqua, anche se passa attraverso la Croce. Cristo non tarpa mai le ali a nessuno, anzi apre nuovi orizzonti di realizzazione e di futuro, imprevedibili alla razionalità e al buon senso dell’uomo. I Santi lo testimoniano: l’iniziazione cristiana è un dono che promuove la maturazione umana e la civiltà dell’amore, cioè è anche un evento culturale di notevole valore. La vita cristiana cessa allora di essere concepita e vissuta come “dovere”, come “scadenza”, come “convenienza sociale”, come “peso”. E si liberano le energie pasquali della chiamata-risposta, presente-futuro. E dall’ingerenza (Dio come “estraneo o intruso” o “guardone”) si passa alla coscienza del dono. Il “tutto” di Dio, che viene incontro alla debolezza dell’uomo.
La chiamata alla vita
La prima educazione del cristiano segue la chiamata alla vita, La prima pagina della Bibbia, la Genesi, costituisce un catechismo insostituibile. “Ogni giorno sulla terra si compie la meraviglia di nuove vite umane che vengono alla luce. Ogni bambino e bambina è amato da Dio perché creato a sua immagine e somiglianza”[1]. I piccoli “valgono prima di tutto per se stessi, nella stagione di vita che stanno vivendo, e non in vista di ciò che in futuro potranno dare alla famiglia, alla società, alla Chiesa o allo Stato”[2]. La notizia di una nuova vita è una buona notizia e porta gioia. Ogni bambino “è se stesso e si manifesta in modo unico e irripetibile. Fin dal grembo materno ha una sua vocazione originale e personale, che non conosce esclusione da malattia, handicap o povertà”[3].
Nel quotidiano, la vita può essere segnata dalla risposta generosa alla chiamata di Dio o dalla pigrizia e dalla infedeltà, dal peccato o dalla vigilanza per fare frutti copiosi. Certo, “ogni istante di vita è prezioso. Ma in certi momenti gustiamo con maggiore intensità la gioia di esistere”[4]. Dare un nome ad una persona “indica sempre una chiamata personale. Ogni bambino è chiamato a essere ciò che nessun’altra persona è mai stata e sarà”[5]. I fanciulli guardano il modo di fare, interpretano gli atteggiamenti e tendono ad imitare le persone che trovano nel loro ambiente di vita: i genitori, gli insegnanti, i catechisti… Da loro imparano a giudicare azioni e situazioni come “buone” e “cattive”[6]. L’età dell’infanzia e fanciullezza è il periodo della “curiosità”: i fanciulli vedono, domandano, scoprono; la loro meraviglia può diventare contemplazione di Dio, la loro solidarietà verso le cose e le persone può aprirli all’amore. I fanciulli possono scoprire che “Dio è Padre, creatore del cielo e della terra”. Ma non possono scoprirlo da soli![7].
Nella vita, “più ancora della forza fisica e dell’ingegno, contala forza interiore che è dono dello Spirito e insieme frutto di lungo esercizio. Essa rende capaci di essere fedeli ai propri impegni, ideali e valori, anche in mezzo alle difficoltà”[8].
In un tempo come l’attuale, fatto di molte occasioni di banalizzazione della vita e di trasgressione, il richiamo alla vita come “vocazione” non è poco, perché ripropone il valore della “serietà” della posta in gioco e della responsabilità; del dono di sé e della circolazione dei talenti.
La chiamata al discepolato
Il CdB riconosce che “nei bambini esiste la capacità di cercare Dio e di aspirare a Lui. Essi hanno diritto di essere aiutati a conoscere Dio, Creatore e Padre di tutti gli uomini” (nn 45, 59, 63, 134). E ancora: “I bambini appartengono anzitutto a Dio” (n. 63), per cui “comunicare la gioia che viene dalla fede è dare ai bambini quel senso di sicurezza che viene dalla presenza di un Dio forte e amorevole” (n. 101). Per i fanciulli, Dio chiama ognuno per nome e lo tiene per mano, non si dimentica mai di nessuno, è difesa contro il male, è più forte della morte[9].
Il CdF/2 è essenzialmente cristologico. “L’amore del Signore è per sempre. La vita è come una lunga giornata, tempo prezioso in cui possiamo ascoltare Gesù che ci chiama a camminare con lui. Quando verrà il giorno della morte, la vita non ci sarà tolta, ma trasformata. In un modo nuovo andremo incontro a Gesù, ciascuno per ricevere la ricompensa di ciò che ha fatto su questa terra. Nel giorno della morte, i denari e le ricchezze, il fare tutto ciò che piace o l’essere forte e potente, non conteranno nulla. Chi lo dimentica e vuole tenere tutto per sé, corre il rischio di non ricevere niente da nessuno, in quel giorno. Rischia di rimanere lontano da Dio, solo e triste”[10]. L’immagine di Gesù è molto plastica, attraente: i suoi insegnamenti e gesti d’amore “infondono coraggio e voglia di vivere. Dio Padre lo ha mandato perché sia l’amico di tutti. Non sei tu a cercarlo per primo, Lui ti viene incontro, ti invita personalmente, ti offre la sua amicizia. Non importa se siamo piccoli, poveri, peccatori: a tutti il Signore rivolge la sua parola; per ciascuno c’è la gioia di stare con Lui ogni giorno”[11].
Ogni giorno, i cristiani devono preparare la venuta di Cristo, riconoscendo con umiltà i propri peccati e compiendo opere di bontà. Gesù non è da invocare in modo interessato nei momenti di prova né solo per chiedere: “Gesù non è venuto per togliere tutte le difficoltà dal nostro cammino, ma per renderci più forti del male e del peccato”[12]. L’esemplarità di Gesù, che percorre la via stretta, e l’unione a Lui sono “la luce necessaria per le decisioni morali del discepolo”[13]. In Gesù “si può capire il proprio posto nella vita, i propri compiti”[14]. “Chi lo segue, si fa lui pure più uomo”[15].
Nell’attuale momento storico – culturale, segnato dal relativismo sincretista, la precisione della centralità di Gesù è essenziale per chi intende fare la proposta educativa cristiana.
Dal “caso” al “progetto”
Soprattutto il CdF/3 è attento a mettere in risalto la progettualità di Dio su ognuno. Conviene citare il testo stesso, nella prima unità che intende aiutare i ragazzi “ad assumere atteggiamenti di fiducia nella vita; a capire che la fede non è un abito da festa, limitata a determinate occasioni, ma un’esperienza profonda di comunione con il Signore. Far scoprire ai ragazzi il progetto di Dio, la storia della salvezza che continua nella loro vita, è aiutarli ad accogliere come un dono: il corpo che cresce, la propria personalità come qualcosa di originale: le relazioni con gli altri come nuovi orizzonti che si aprono. È un campo immenso da esplorare per discernere in se stessi, nelle esperienze della vita, un segno privilegiato di Dio che ama e che apre un cammino verso la libertà, anche quando la vita è segnata dal dolore e appesantita dal male”[16].
L’itinerario catechistico mira a favorire nei ragazzi la presa di coscienza del progetto di Dio “come una proposta di amicizia per ciascuno di loro; a rispondere con fiducia alla chiamata di Dio, come hanno fatto Abramo, Mosé, Davide; a leggere nei personaggi della Bibbia i diversi modi con cui Dio chiama a collaborare con Lui”[17]. Su Dio e le sue promesse, si può sempre contare, perché non delude mai. Dio libera da ciò che può incatenare la vita, non approfitta mai della debolezza umana, non guarda alle apparenze. Se non è vissuta con superficialità, la vita appare una “traccia che suscita il desiderio di un’esistenza piena, di un’amicizia senza condizioni”[18]. Ognuno, in forza della grazia battesimale donata per una missione importante, deve chiedersi: “Che cosa vorrà da me, Dio?”[19]. La scelta battesimale va fatta ogni giorno, in vista della santità, che non è riservata a persone eccezionali.
Nonostante le difficoltà quotidiane, “non abbiamo motivo di essere pessimisti perché la storia degli uomini è nelle mani di Dio e i suoi progetti arrivano sempre a compimento. Nulla è affidato al caso. La tua persona e tutto ciò che capita attorno a te è illuminato da un grande e unico disegno di salvezza”[20]
Nel cuore e sulle spalle
La chiamata alla vita cristiana non è mai “teorica”, astratta, ideologica. Non per niente si tratta di una “iniziazione cristiana”, che non può avvenire senza la mediazione ecclesiale. La Chiesa madre e maestra, apprendistato vocazionale e luogo di esercizio della propria missione. Fin da piccolo, il bambino “ha bisogno di una Chiesa domestica per crescere nella fede” [21].
Crescendo, non deve mancare l’esperienza della comunità parrocchiale nella quale si cresce insieme, piccoli e grandi, con un proprio compito da svolgere. La logica cristiana è questa: “tutto è dono di Dio, non solo per sé ma per gli altri”[22]
La Chiesa è “vivibile” grazie all’azione dello Spirito che supera le divisioni e genera speranza; converte i cuori; rende più conformi al Cristo; apre alla comunione tramite l’esperienza di gruppo; perfeziona le virtù della prudenza, giustizia, fortezza e temperanza; rende pane di bontà e di forza per i fratelli. In ogni comunità, lo Spirito “suscita molti doni e ciascuno può scoprire quali servizi svolgere per il bene di tutti”[23].
Portatori di un dono speciale dello Spirito, i ragazzi possono portare agli adulti entusiasmo, generosità e gusto di vivere. Bontà, misericordia, umiltà, mansuetudine, pazienza devono abitare nel cuore del ragazzo cristiano “come fossero un vestito quotidiano”[24].
Nessuno può tirarsi indietro di fronte alle difficoltà e ai difetti della comunità cristiana; bando allo scoraggiamento, “anche se non siamo perfetti, abbiamo la possibilità di migliorare”[25]. L’esperienza cristiana consente ai ragazzi di maturare atteggiamenti di condivisione, di perdono, di accoglienza e di universalità. Questo favorisce l’unità e la fraternità perché “anche i ragazzi possono costruire unità o portare divisione”[26]. L’incontro con quanti appartengono ad altre religioni, la comunione con altre Chiese, l’impegno effettivo nel quartiere diventano possibili se si vive intensamente l’appartenenza ecclesiale.
Nessuno al tuo posto
Pur riconoscendo il valore imprescindibile della famiglia nell’itinerario di maturazione cristiana e della comunità, tuttavia rimane determinante la scelta personale, la quale non può mai essere delegata ad alcuno. Il segno dell’avvicinamento alla maturità è dato dall’assimilazione di ciò che l’altro fa per te e dalla responsabilità acquisita nelle decisioni personali. Il tutto nella fedeltà al Vangelo, “che vale più degli amici, della famiglia delle leggi dello Stato, perfino dalla propria vita”[27]. Questa è anche la testimonianza dei Santi e dei Martiri. La vocazionalità è direttamente proporzionale alla freschezza e formazione della propria coscienza. Pur nel quotidiano, che spesso è piccolo e ripetitivo, il ragazzo va stimolato a “scegliere”, pagando di persona le proprie opinioni e decisioni. Purtroppo, la mentalità corrente sembra preferire il rimando, la scusante, il grigiore del compromesso, il puntare al minimo, il vivere alla giornata, il conformismo. La virtù de “coraggio” va certamente riscoperta e proposta con maggior vigore. In questo senso, l’accompagnamento dei ragazzi verso la prima scoperta della propria vocazione è favorita dall’incontro con persone che vivono scelte vocazionali diversificate. In vari educatori cristiani è diffuso il timore di “chiedere molto” ai ragazzi: si tenta quasi di annacquare la proposta evangelica per renderla meno pesante e meno sconvolgente. Invece, il discepolato va presentato nella sua veridicità e grandezza, per non farlo scadere a una delle tante possibilità. Il “tutto” di Dio ha un suo fascino unico, non barattabile con niente e nessuno. Il centro della fede, la tenerezza di Dio che si dona pienamente, non può scambiarsi con la debolezza che produce disimpegno. “Tenerezza” non è sinonimo di sentimentalismo. Credere nell’amore tenerissimo di Dio significa accettare di adeguarsi ad un amore che non fa calcoli, rispondergli senza centellinare l’adesione. Amore con amore si paga. “Non ti ho amato per scherzo”, diceva Gesù a Sant’Angela da Foligno! Questa vicinanza, dono totale di sé e partecipazione avviene nella Eucaristia. L’incontro personalizzato, la convocazione di ognuno e di tutti, la missione affidata a ciascuno nel legame con i fratelli. Ecco perché il CdF/2 può affermare: “Nella comunità cristiana, la domenica è il grande giorno della chiamata del Signore” (p 14 e 86). Più si vive l’Eucaristia e più si vive la chiamata di Dio.
Insomma, i nuovi catechismi sono attenti al “tutto” di Dio e chiedono la risposta del “tutto” dell’uomo, di qualunque età. È il gioco dell’amore. E l’iniziazione cristiana tende a far fare esperienza di amore.
Note
[1] CEI, Catechismo dei bambini, n. 2.
[2] Ivi, n. 35 e 54.
[3] Ivi, n. 119.
[4] CEI, Catechismo dei fanciulli, voi. 2, p. 130.
[5] CEI, Catechismo dei fanciulli, voi. 1, p. 112.
[6] Ivi, p. 114.
[7] Ivi, p. 12.
[8] Ivi, p. 118.
[9] Cfr. Ivi, I e II unità.
[10] CEI, Catechismo dei fanciulli, vol. 2, p. 186.
[11] Ivi, p. 16.
[12] Ivi, p. 72.
[13] Ivi, p. 78.
[14] CEI, Catechismo dei fanciulli, vol. 3, p. 29.
[15] Ivi, p. 39.
[16] Ivi, p. 9 e 37.
[17] Ivi, p. 8.
[18] Ivi, p. 12.
[19] Ivi, p. 17.
[20] Ivi, p. 54.
[21] CEI, Catechismo dei bambini, n.106.
[22] CEI, Catechismo dei fanciulli, vol. 2, p. 91.
[23] CEI, Catechismo dei fanciulli, vol. 3, p. 82.
[24] Ivi, p. 74.
[25] Ivi, p. 75.
[26] Ivi, p. 65.
[27] Ivi, p. 70 e 110.